Ophelia & Leopold Origins

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    Il dolore era troppo forte, arrivava a ondate quando tentavo di immettere aria nei polmoni. Una pugnalata ogni volta. Su e giù, su e giù, ero costretto a rantolare per non svenire.
    Perché, perché, perché? Questa la domanda che vorticava nella mia mente, mentre la cinghia di cuoio si abbatteva con tanta forza da trasformarsi in un supplizio vero e proprio. Una, due, tre, dieci, venti volte. Smise solo quando crollai su di un fianco, sfinito, distrutto, colpevole solo di aver sperato in una parola di conforto. Respinsi le lacrime che premevano dietro le palpebre, sapevo bene che cosa avrebbero provocato e no… non sarei riuscito a sopportarlo.
    “Se ti azzardi ancora una volta a comportarti da femminuccia, ricorda che questa sarà la mia risposta! Mio figlio sa badare a se stesso, sa difendersi, non corre a casa con un occhio nero e la coda tra le gambe!” La sua voce mi entrava nelle orecchie, nel cranio, nell’anima. Era tagliente, dolorosa, sadica. Amplificata dal terrore che da quel giorno si instillò dentro il mio cuore, un terrore talmente puro da trasformarsi ben presto in odio. Odiavo mio padre, lo odiavo con tutto me stesso…


    Mi svegliai di soprassalto, madido di sudore, tremante come una foglia sospinta dal vento. Le iridi color del mare in tempesta erano perse nell’oscurità di una stanza tanto piccola da soffocarmi. Una mano familiare corse subito al mio viso, accarezzò il mio collo e asciugò ogni stilla di spavento.
    Jemma era abituata alle mie notti agitate, ai miei risvegli inconsulti, al mio cuore martellante. Mi baciava la pelle salata e mi riprendeva tra le braccia per calmare i battiti furiosi. Jemma era… Jemma. Un raggio di sole in una vita fatta di privazioni, soprusi, rifiuti, ingiurie. Rappresentava il mio atto di ribellione verso un sistema che non condividevo, che disprezzavo, che rigettavo con forza.
    Non c’era un reale motivo, o meglio, in apparenza ne potevo citare un elenco intero: il Reich era il male incarnato; i Devianti erano degli oppressori; il loro esercito era senza pietà… e così via. Dentro di me, invece, il motivo del mio disprezzo era un altro. Ma non lo avrei confessato ad alta voce nemmeno a Jemma, figurarsi al manipolo di ribelli che mi aveva accolto come uno di loro nonostante… non fossi come loro.
    Ero un deviante. Ero un nemico della Resistenza, un nemico degli umani che combattevano per liberarsi dall’oppressione. Eppure, avevano visto in me qualcosa di diverso…
    Avevo messo a disposizione della causa la mia mente, per anni mi ero impegnato a dimostrare che avrei potuto contribuire senza chiedere nulla in cambio, perché io ero davvero diverso… diverso da… lui… da mio padre. Era stato piuttosto facile continuare a odiarlo dietro le barricate, ordendo le più ingegnose trappole per sgominare le sue truppe, per far arretrare – anche se di pochi centimetri al giorno – la minaccia deviante. Ma adesso… adesso…
    “È la scelta giusta, Leo. Con te all’interno potremo avere informazioni cruciali per la nostra vittoria… devi farlo!” Jemma mi aveva parlato con voce dolce, ma le sue parole mi parvero schiaffi lanciati in pieno viso. La sensazione di non aver dato ancora abbastanza mi irritò. Non riuscivo a scacciare questa sensazione di fastidio dal ventre, perciò mi sottrassi al suo tocco e mi sedetti sul piccolo letto che condividevamo al rifugio. Mi presi la testa tra le mani, mentre mi obbligavo a respirare… fui così sopraffatto dal senso di claustrofobia dell’incubo appena avuto. Potevano due persone così diverse causarmi il medesimo male…? Ma fu solo un attimo, un infinitesimale attimo di dubbio, che disintegrai con tutte le mie forze.
    “Farò quello che mi chiedete.” ”Anche se mi sento morire, anche se il solo pensare di doverlo rivedere mi distrugge l’anima, anche se sento già il terrore strisciare dentro di me come un male incurabile” Continuai… ma solo nella mia testa. Non potevo ammettere questa debolezza, non di fronte alla donna che credevo di amare, a colei che aveva dato uno scopo alla mia vita senza perché. Credevo che fosse riuscita a strappare da me anche quel terrore, e invece… era ancora qui, come un punteruolo conficcato nel petto.
    “È la scelta giusta…” mi ripeté, facendosi più vicina. Vezzeggiò con piccoli baci la schiena nuda, lungo la colonna vertebrale, sapeva quanto mi faceva impazzire. Eppure, questa volta, mi suscitò solo un moto di disagio. Mi alzai forse troppo bruscamente, tanto che la vidi sbilanciarsi in avanti. Mi fissò sorpresa, la bocca simile a una “o” sospesa, mentre infilavo una maglietta che aveva visto tempi migliori.
    “Scusa… ho solo bisogno di prendere un po’ d’aria”…” mi giustificai, lasciando la stanza a passo svelto. Non avrei sopportato altro biasimo, ancora meno se proveniente da occhi a cui tenevo così tanto. Dovevo solo trovare la forza di tornare sui miei passi e l’avrei trovata, per Jemma, per la causa… per me! O così continuavo a ripetermi per convincere me stesso, invano… perché avevo ripreso a tremare dentro. Mi odiai, molto più di quanto odiavo lui… e questo avrebbe decretato la mia fine.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 12/4/2020, 10:26
     
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    La morte di mamma era arrivata come un fulmine a ciel sereno, non avevo nemmeno mai preso in considerazione che una cosa del genere avrebbe mai potuto realmente accadere, ma la sua malattia sempre più grave non aveva adito a molte speranze e così le avevo promesso di non dire nulla a Jewel, mentre mi prendevo cura di lei. Mi ero impegnata, avevo lottato con le unghie e con i denti per portare avanti una famiglia che altrimenti sarebbe andata a catafascio. Stringevo tra le braccia mia sorella preferendo passare per l'insensibile della situazione, alla quale non importava niente della morte di nostra madre e che preferiva scappare tra le braccia di qualcun altro appena tutto quello fosse finito piuttosto che crollare. Eravamo rimaste soltanto io e lei e preferivo che mi odiasse, ma che mi permettesse di starle accanto e di proteggerla in tutti i modi a me possibili ed immaginabili piuttosto che cadere con lei. Una delle due doveva essere forte ed io sapevo che lei non poteva gestire tutta questa situazione da lei.
    "Forza Jewel" le sussurravo stringendole il petto, cercando di mantenere assieme anche il mio cuore, la mia anima, ormai dilaniata.
    "Non fare così, respira" sentivo le lame delle mie parole, sapevo che quelle l'avrebbero trafitta così tanto da farle male, che mi avrebbe odiato più di qualsiasi cosa, che mi avrebbe umiliata se avesse potuto davanti a tutti i parenti ma volevo che fosse forte. Doveva essere forte. Mamma non lo era stata, mamma era morta perché le ferite che nostro padre le aveva lasciato addosso non erano mai guarite. Mamma era stata una donna bellissima, ma non aveva mai dimenticato suo marito e temeva di essere abbandonata di nuovo. Era una rabbia che mi distruggeva, che annebbiava ed avvelenava il dolore del lutto, che mi consumava dentro. Che mi avrebbe ucciso se non fossi stata più forte. Quando poi lo vidi, tra l'inconsistenza del mondo dietro le lacrime trattenute, strinsi ancora di più la presa su mia sorella affondando le dita nelle sue braccia cercando di non farla voltare, di non farle vedere quella figura che appariva come un fantasma nella notte. Lo guardai ma non dissi niente, sfidando lo sguardo di quel carnefice che aveva distrutto per primo la nostra famiglia.

    Papà era un fantasma, un fantasma che tornava in uno dei giorni più tristi di tutta la mia intera esistenza pronto a rendere quella giornata ancora più triste. Un fantasma che se da un lato ero felicissima di rivedere, dall'altro mi irrigidiva e mi metteva in difficoltà. Era stato lui ad ucciderla la prima volta, a scappare lasciandola in balia delle medicine e delle pillole nel tentativo di stare bene. Era stato lui a bruciarle quella vita sociale che avevano sempre avuto e soprattutto era stato lui ad abbandonarmi. Stringevo forte le braccia e cercavo di non farla guardare verso quell'uomo che era nostro padre ma che in quel preciso istante mi sembrava soltanto un estraneo che invadeva il mio lutto.
    "Lo so che è troppo tardi, ma mi dispiace. So anche che non posso farmi perdonare per tutti gli anni persi e per il dolore che vi ho provocato, però da oggi in poi vorrei starvi vicino, se me lo permetterete"
    Raggelai quando sentii nuovamente la voce di mio padre dopo così tanto tempo, perché se da un lato lo odiavo, dall'altro era stata la persona a cui ero più legata. E lui mi aveva abbandonato.
    Continuavo a stringere mia sorella nella speranza che lei non gli corresse incontro, ma sapevo che lei l'avrebbe fatto. Jewel era un cuore puro, un'anima buona ancora innocente. Jewel non vedeva l'ora di riabbracciare nostro padre, quando io volevo solo vomitare e vomitargli addosso quanto lo stessi odiando e quanto mi fosse mancato.
    "Per quale motivo adesso vuoi starci vicino? Perché non c'è nessuna figura genitoriale che può vegliare su di noi?" incrociai il suo sguardo e lo sostenni, perché sapevo che stavo andando oltre. Sapevo che gli stavo mancando di rispetto e per una volta in tutta la mia vita non mi importava.
    "Gentile, davvero, ma non ci sei stato quando avevamo bisogno di te, adesso abbiamo imparato a cavarcela da sole" ma non costrinsi più mia sorella a starmi vicino, perché sapevo che in un modo o nell'altro sarebbe andata da lui, glielo leggevo negli occhi.
    "Perché sei tornato adesso? Di cos'hai bisogno?"

    Da quel giorno tutto cambiò. Mamma era morta perchè la nube che aveva trasformato me e Jewel non aveva fatto lo stesso con lei e seppur non aveva influito sul suo stato di salute non l'aveva nemmeno salvata. Il ritorno di papà fu un fulmine a ciel sereno, lui che nonostante le suppliche di nostra madre si era arruolato abbandonandola e che aveva fatto pesare la sua assenza senza mai scriverci una lettera. Fu solo successivamente che scoprì che l'aveva fatto nella speranza che odiandolo se lui fosse morto mai avremmo sofferto troppo. A modo suo ci proteggeva.
    Ma il suo ritorno aveva scombussolato tutto il mio mondo, molto presto scoprì che dopo essere stato fatto prigioniero dai crucchi si era trasformato e ben presto si era unito a loro. Gli stessi il cui Impero cresceva ogni giorno che passava e che a suo dire era pronto ad accogliere me e Jewel. Fu difficile riaccoglierlo nelle nostre vite, ma più tempo passavamo insieme e più compresi i suoi motivi e ritrovammo ciò che ci unì come famiglia. Ci trasferimmo a Berlino, dove lui già lavorava come militare e dove una bella casa ed una bella vita ci aspettava. Non avevamo più niente in Oregon se non odiosi sguardi pieni di commiserazione.
    Lì Jewel concluse i suoi studi di infermieristica ed io misi in pratica i miei studi di antropologia ed archeologia, ma anche di bioingegneria e medicina. Cose completamente diverse tra loro ma la mia mente sviluppata (anche senza essere una Deviante) e la voglia di studiare mi avevano reso predisposta per la scienza quanto per materie più umanistiche. Entrai nelle SS e ben presto il Dottore Alistar Morgan mi scelse come sua assistente.
    "Oggi è il primo giorno di mio figlio, vorrei che lo aiutassi ad integrarsi e trovare il proprio posto. La socializzazione non è il suo forte!"
    Alistar era un ricco cittadino tedesco, un Barone per esattezza, che una volta ereditato il titolo era riuscito a restituire prestigio ad un casato quasi decaduto durante la baronia paterna. Aveva combattuto come soldato di fanteria per poi divenire uno dei migliori scienziati del Reich. Aveva affrontato innumerevoli volte gli Assassini e i Ribelli uscendone il più delle volte vincitore. Questo gli aveva permesso di conquistarsi la fiducia del Fuhrer che lo aveva voluto a capo del reparto scientifico anche e sopratutto per il suo sadismo e freddezza.
    Personalmente lo ammiravo o era meglio dire che ammiravo la sua mente brillante. Meno la persona che trovavo arrogante e viscida.
    "Sarà un onore Signore!" risposi accondiscendente come al solito. Non ero sciocca, semplicemente me ne stavo nel mio in attesa del mio momento per risplendere. Non parlava molto del suo unico figlio, ma era risaputo che avessero un pessimo rapporto seppur Alistair ne ammirava l'intelletto che sperava di usare per farsi lustro con il Fuhrer. Per quello mandò me ad accoglierlo, di fatto a lui non gli importava.
    Lo aspettai dunque lì dove era stato dato appuntamento lui e lo riconobbi subito, spaesato e vestito fin troppo elegante guardarsi intorno con far spaesato.
    "Leopold?" chiesi attirando la sua attenzione ed andandogli incontro stringendogli la mano regalandogli il mio miglior sorriso.
    "Sono Ophelia McKay, l'assistente di tuo padre. Mi ha mandato per accoglierti! Ti direi che è perchè è impegnato in qualche riunione, ma sapresti che mento dunque non lo farò. Ti devi accontentare di me, spero non ti dispiaccia!" dissi con semplicità e sincerità colpita dal suo aspetto pulito ed onesto. Così diverso dall'apparenza artefatta del padre.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 18/3/2020, 23:57
     
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    Solo una stretta di mano, cosa vuoi che sia. Forse mi risparmierà anche quella, mi avrebbe guardato dall’alto della sua boria e mi avrebbe semplicemente disprezzato con uno sguardo annoiato. Chissà, forse non mi avrebbe neppure riconosciuto. In realtà, questo era il mio più ardente desiderio, in fondo ero… cresciuto. Avevo raggiunto il metro e ottantacinque abbondante, le spalle erano diventate più larghe, le braccia più forti, la pelle più abbronzata. La vita da ribelle aveva lasciato i suoi segni, come una leggera barba che tenevo corta ma sempre presente o diverse cicatrici sparse per il torace e le braccia. Una in particolare, sottile ma frastagliata, partiva dall'orecchio destro e si perdeva verso la clavicola. Era un ricordino di un soldato di mio padre. Solo due anni prima aveva ordinato che fossi catturato, torturato e poi ucciso, lo scopo? Sgominare la banda di umani che stavo aiutando con tanta dedizione. Con il sottoscritto fuori dai giochi, i suoi tirapiedi avrebbero di certo avuto la meglio. Fortunatamente… non era arrivato il mio momento.
    Con ogni certezza, non ero più il ragazzino che ricordava, un nerd bravo ad hackerare e fissato con la nanotecnologica… quanto meno non ero più “solo” quello.
    Sistemai per l'ennesima volta il colletto della camicia, nel tentativo di coprire meglio la cicatrice e di smaltire lo stress che mi stava uccidendo. L'attesa era ciò che mi faceva impazzire e lui sapeva bene come intimidire i suoi avversari.
    Il ricordo andò a poche ore prima…

    “Vedrai sarà una passeggiata, in fondo dovrai lavorare tra i tuoi simili nella consapevolezza che aiuterai noi, la tua vera famiglia!” Jemma stava annodando una cravatta dopo non so quanto tempo e il risultato non era granché a dirla tutta, ma non le dissi nulla, non volevo mortificarla, non più di quanto stessi facendo con il mio ostinato silenzio. Non che fosse premeditato o una punizione che desideravo infliggerle per qualche ragione in particolare, o almeno credevo che fosse così.
    Da quando all’unanimità avevano votato per mandarmi sotto copertura dietro le linee nemiche, qualcosa si era incrinato nell'idillio. La “famiglia” non aveva chiesto il mio parere, non aveva domandato se avessi qualcosa in contrario, avevano semplicemente dato per scontato che mi sarei messo a disposizione senza fiatare. Neppure Jemma si era posta il problema e questo… a quanto pareva… aveva colpito molto più a fondo di quanto immaginassi.
    ”Farò il mio dovere, farò ciò che vi aspettate da me, ma non trattarmi – almeno tu – come un idiota. Sapete bene cosa rischio là dentro, almeno abbiate la decenza di riconoscerlo…” La voce era uscita diversa, più bassa, con una nota di fastidio che non avevo mai espresso. Jemma bloccò i suoi movimenti e mi guardò spaesata, mentre io mi premuravo di spostare la sguardo altrove.
    Ero nervoso per un miliardo di motivi, ecco perché avevo risposto in maniera tanto brusca. Sospirai e la abbracciai forte, era l'ultima persona che avrei voluto lasciarmi alle spalle con un sapore amaro in bocca.


    Eppure, adesso che mi trovavo sul campo avrei dato un milione di monete d'oro in cambio per levarmi questo dannato vestito da damerino e tornare in quella camera, per urlare alla mia “famiglia” che mi stavano buttando in pasto al mio peggiore incubo!
    Un leggero rumore di passi in avvicinamento mi costrinse a voltarmi di scatto, pronto a reagire a un attacco improvviso. Non era mio padre… era già qualcosa ma non potei fare a meno di scrutare con attenzione la figura sinuosa che si era presentata come la sua assistente. Un risolino raggiunse le mie labbra nell'udire le sue ultime parole, le quali ebbero la capacità di annientare l'ansia che mi aveva inchiodato al pavimento fino a quel momento.
    ”In effetti, se avesse detto qualcosa del genere l’avrei già etichettata peggio di lui. Quindi, ottima mossa!” Non sapevo da dove veniva tutta quella familiarità, ero sempre stato un orso bruno e le mie abilità sociali erano pari a zero. Mi trovavo molto più a mio agio di fronte a un computer che a un altro essere umano e/o deviante. Mio padre aveva fatto un ottimo lavoro su questo fronte, benché desiderasse l'esatto contrario. Tuttavia, questa donna, con il suo sorriso aperto, la sua chiara predisposizione al sarcasmo e la sincerità dalla sua parte aveva di certo acquisito punti nel mio personale indice di gradimento. Non che questo potesse necessariamente significare chissà cosa…
    La fissai in attesa di sapere che cosa mi aspettava, badando bene a schermare le mie iridi con una buona dose di diffidenza. Non ero qui in cerca di nuovi amici, anzi ero certo di non avere le doti adeguate per creare qualcosa di lontanamente paragonabile a un rapporto basato sulla fiducia e la comprensione. Per non parlare dell'amore... Questo ingannevole sconosciuto. Ed ero stato fortunato, sì, perché l'avevo scoperto giusto in tempo, anche se troppo bruscamente, solo qualche giorno prima. Una “famiglia” e una compagna non ti mettono in pericolo, anche se non avevo avuto fulgidi esempi in proposito, anzi dovevo ammettere che nel campo ero un vero neofita, avevo letto tanto da sapere sebbene in teoria a cosa servivano le persone care al tuo fianco.
    Realizzare di non averne mai avute non fece male tanto quanto mi aspettavo e questo mi destabilizzò più della scoperta in sé. Dovevo rendermi conto della realtà, a conti fatti era plausibile che il problema fossi proprio io.
    “Direi che potremmo iniziare con un bel tour dell’edificio! Salterò le parti noiose e arriverò presto al sodo, lo prometto!” Un brivido strano strisciò lungo la mia schiena. Una promessa tanto banale perché pareva celare cosi tanto di più? Non ne avevo idea, speravo solo che sarei riuscito a venir fuori da questo incubo tutto intero, nel frattempo mi sarei goduto il sorriso avvolgente della signorina McKay e ai posteri l'ardua sentenza.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 19/3/2020, 18:05
     
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    Il debriefing con il Fuhrer era stato un inferno. Avevo dovuto compilare anche tre report in totale, dei quali un resoconto completo su cosa era successo, la valutazione sul comportamento di Morgan e un inserto per il dossier sulla Resistenza. Ero stanca, molto stanca e distrutta e l'unica cosa che volevo era tornarmene a casa, buttarmi sotto una doccia bollente e rimanerci fino alla mattina successiva. Avevo bisogno di staccare la spina, di dimenticare tutto per qualche ora. Era sempre così, il Dottore Morgan faceva fare a me tutto il lavoro anche quando riguardava missioni a cui nemmeno avevo partecipato o a cui al massimo ero stata ai margini.
    Ovviamente non chiedeva "per favore" e tanto meno la richiedeva come "cortesia". Era semplicemente un dovere.
    Uscì dal mio ufficio barcollante, neanche fossi uno zombie vivente. Fu lì che incontrai Leopold, in uscita dal proprio laboratorio o meglio quello in cui il padre lo aveva messo con altri scienziati.
    Inarcai le sopracciglia in una muta domanda, fermandomi ad un passo da lui.
    “Neanche tu hai una bella cera, comunque!” mi disse rispondendo ad alta voce alla domanda che in realtà non avevo espresso. Ridacchiai scuotendo il capo.
    "Sicuro di non essere un telepate?" lu punzecchiai. Dopotutto era risaputo che ogni Deviante avesse un dono e seppur lui non mi aveva fatto parola del suo mi aveva assicurato che quello non rientrava nel suo range.
    Lo vidi ridacchiare, mentre gli feci un cenno invitandolo a proseguire assieme a me e andare da tutt'altra parte. Ne avevo abbastanza di quel corridoio e della gente che ci girava.
    "Ci concediamo un po' di meritato riposo, che dici? E' stata una giornata pesante per tutti..." esclamai quasi esasperata anche se con riposo intendevo semplicemente sederci da qualche parte a parlare senza che suo padre ci urlasse nelle orecchie. Magari con una bottiglia di qualcosa di pesantemente alcolico tra le mani.
    Lo vidi alzare gli occhi al cielo, mentre raggiungevamo il piccolo bar dell'edificio. I Devianti ci tenevano al benessere dei propri impiegati e così ogni ufficio governativo aveva tutti i comfort dalla zona bar fino alla palestra. Sul tetto c'era anche una piscina.
    “Dubito che avremo la serata libera Ophelia. C'è ancora troppo da fare e...” sospirò passandosi una mano tra i capelli “Mio padre c'è l'ha con me. Sono certo che troverà presto una scusa per farmela pagare”
    Effettivamente da quando era arrivato lì, circa 5 mesi e mezzo fa, il suo contributo era stato importante, ma non decisivo ed il Fuhrer iniziava a fare pressioni su Alaistar convito e preoccupato della lealtà di Leopold senza contare la missione appena fallita. Avevamo una base della resistenza tra le mani, ci eravamo arrivati per via di un software che insieme avevamo creato e che aveva la capacità, attraverso una semplice traccia di DNA, di localizzare chiunque ovunque. Leopold aveva dato l'ok dopo settimane di simulazioni ed alla prova dei fatti aveva fallito, senza che io sapessi che lui stesso aveva sabotato il programma affinché i suoi amici non venissero trovati.
    "Storia già sentita. Dimmi tu quand'è che tuo padre non ce l'ha con te" scherzai, abbozzando un sorriso e scrollando le spalle. O almeno ci provai. Di certo venne fuori la pallida imitazione di quella che voleva essere una delle solite prese in giro, qualcosa con una nota decisamente più amara, ecco, perchè era quello ciò che mi era rimasto addosso di quella giornata infernale: l'amarezza. Dietro, ovviamente, ai quintali di rabbia e delusione che per primi trasparivano. Non era giusto che tutta la colpa andasse a Leopold quando anche io avevo dato il mio apporto al software grazie alle mie conoscenze biomediche.
    Mi alzai e senza chiedere permesso lo presi per mano incitandola ad allontanarci. A cambiare aria.
    Camminammo a lungo.
    L'idea che più mi piaceva era quella di andarmene da lì per qualche ora almeno, ma Leopold aveva ragione: non potevamo, non ce l'avrebbero mai permesso. Ormai mi aspettavo anch'io un richiamo da un momento all'altro, mentre noi eravamo stati costretti a rimanere e rimediare al "danno causato".
    Svoltai a destra, verso le scale che portavano nell'ala dei comparti degli agenti e lì l'idea. Mi fermai all'incirca a metà corridoio, salì su una panchetta messa a proposito e spostai il pannello del sistema d'areazione, poi ci infilai una mano dentro e ne tirai fuori una bottiglia. Scotch. Ce lo saremmo fatti andare bene.
    "E' una delle riserve del capo per le settimane difficili" - spiegai - "Devo ringraziare mio padre per la soffiata" - aggiunsi prima di invitarlo a seguirmi. La piscina sarebbe stato il nostro rifugio. Era notte e non c'era nessuno oltre che, da lì sopra, c'era una vista incredibile sulla città!
     
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    I riflessi cristallini dell’acqua mi avevano quasi ipnotizzato. Mi ero perso a fissare i nostri profili stagliati sulla superficie increspata dal movimento scherzoso dei piedi di Ophelia. Aveva insistito per infilarli dentro dopo avere arrotolato fino alle ginocchia i pantaloni dell’elegante tailleur che indossava da oltre 46 ore. Lo stesso tempo trascorso da quando avevo iniziato il mio ultimo turno. In realtà, per me non esistevano avvicendamenti di personale: ero uno scienziato, un genio, colui su cui pesavano maggiormente le sconfitte… anche se le stesse erano volute. Tuttavia, Ophelia aveva deciso di seguire il mio stesso destino: per sua scelta. Questo mi destabilizzava, così come mi stupiva la passione che aveva profuso nel difendermi nell’ultimo fallimento. Aveva utilizzato il legame paterno per blandire il Führer e calmare le acque attorno a me, scavalcando – anche se non alla luce del sole – l’autorità di mio padre. Ecco perché mi sentivo a disagio con lei, odiavo doverle mentire, odiavo nascondere i miei piani a una persona che aveva mostrato solo lealtà nei miei confronti: un perfetto sconosciuto.
    Osservai i suoi piedi affusolati muoversi adesso più lenti e mi scossi dalla mia trance solo quando con la bottiglia di scotch mi toccò una spalla.
    “Vuoi stare tranquillo? È talmente tanto tardi che nessuno si accorgerà della nostra ‘piccola pausa’…” Cercò il mio sguardo sfuggente, mentre afferravo il liquore e buttavo giù un sorso troppo lungo che mi costrinse a tossire forte per non soffocare. Un’altra verità? Non ero un bevitore di superalcolici. La birra era la mia passione. Mi sorrise tanto apertamente che ebbi un tuffo al cuore. Temevo di aver fatto la figura dell’idiota, per l’ennesima volta, ma Ophelia riusciva a guardarmi con quell’espressione di… oddio, non sapeva nemmeno definirla: tenerezza? Comprensione? Complicità?
    Inaspettatamente appoggiò una guancia sulla mia spalla, sospirando. Mi irrigidii all’istante ma lei parve non accorgersene. Forse l’alcol non era un buon consigliere in questo momento, anzi, di sicuro ciò che mi sussurrava era da evitare con tutte le forze. Eppure, rilassai i muscoli del collo e con la mano libera afferrai la sua. Intrecciai le nostre dita in un gesto naturale come il movimento dell’acqua.
    “Facciamo un bagno?” chiesi di getto, forse pentendomene un attimo dopo. Forse.
    La sentii sorridere contro la mia spalla e mi voltai ad osservarla, una strana sicurezza si stava facendo strada dentro di me. Le sue labbra premute sul tessuto sgualcito della camicia, il rossetto chiaro ormai un ricordo lontano, il mascara un po’ disciolto per la lunga veglia. “Cosa ti fa ridere di preciso?” chiesi con un sorriso gemello stampato sulla mia bocca.
    “Fino a poco fa ti sei persino rifiutato di mettere le gambe a mollo… e ora mi proponi addirittura un bagno romantico?” Mi gettò un’occhiata furba, era chiaro che mi stesse prendendo bonariamente in giro e decisi di stare al gioco.
    “La verità è che non sono abituato a bere, l’alcol mi fa venire un gran caldo e quest’acqua è diventata una tentazione troppo grande. Non farti strane idee!” Le feci l’occhiolino, poi mi scostai per mettermi in piedi. Iniziai a sbottonare la camicia e solo quando arrivai all’ultimo bottone – in un lampo di lucidità – mi ricordai delle cicatrici. Esitai.
    “Non mi dire che hai già cambiato idea…” Ophelia mise su un broncio degno di una bambina a cui avevano cambiato canale, impedendole di godersi il suo programma preferito. Scossi il capo, divertito. Al diavolo! L’alcol mi aiutò a portare a termine un’operazione non proprio semplice. Non ero un homme fatale, né un playboy incallito. Avevo avuto una sola donna nella mia giovane vita e non era quella che mi stava fissando con le labbra semidischiuse e una luce birichina negli occhi. A torso nudo, senza ricambiare lo sguardo di Ophelia, mi tolsi scarpe e pantaloni. Mi sentivo accaldato e sapevo che non poteva essere solo colpa dello scotch. Con una calma invidiabile mi allontanai dal bordo della piscina, qualche passo, giusto il necessario per far nascere di nuovo il dubbio negli occhi di Oph. Poi, all’improvviso, approfittai della breve rincorsa e mi buttai in acqua con un evoluzione non proprio degna di un tuffatore professionista! Infatti lo scopo non era quello di non generare spruzzi. A questo punto Ophelia doveva essere bagnata quanto me, o quasi: missione compiuta!
    Quando spuntai nuovamente oltre la superficie, lo feci con cautela, pronto a invettive degne di un’arpia ma ciò che vidi davvero mi lasciò sconcertato. Oph era già in intimo e si stava gettando anche lei in acqua “a bomba” urlando: “Adesso me la paghiiii!”
    Fui travolto da una piccola onda anomala e andai sotto per osservarla senza “distrazioni” mentre scalciava per ritornare in superficie. Era sinuosa, i suoi movimenti erano ingentiliti dalla densità del liquido, i capelli simili a serpenti marini. Uno spettacolo che mi lasciò senza fiato… tanto che fui costretto a riaffiorare. Una scossa elettrica si profuse nelle vene: era l’ansia dell’attesa, ero riuscito a dargli un nome. Cosa sarebbe accaduto adesso? Perché questa domanda mi opprimeva e mi esaltava allo stesso tempo? Solo in un piccolo angolino della mia mente una vocina mi mormorava quanto fosse sbagliato, ma per il resto ero eccitato per quella trasgressione. Una sensazione talmente nuova che mi lasciò stordito… ma che mi costrinse a non arretrare. Ero pronto a mettere in gioco me stesso in qualcosa di incomprensibile e me ne resi davvero conto quando Ophelia fu a pochi centimetri da me. Ero davvero pronto a perdermi.
     
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    :Ophelia:
    Non mi erano sfuggite le sue cicatrici eppure non ne feci parole semplicemente estasiata dallo scotch, dalle stelle e dalla sua presenza. Era un ragazzo particolare Leopold. Tanto introverso quanto, a mio dire, ricco di sorprese. Era come una sensazione sotto pelle di una personalità che spingeva ad uscire, ma era sempre frenata. Non conoscevo molto della sua vita privata, anzi nulla, dunque non avrei saputo dire cosa o chi lo tenesse a guinzaglio, ma sicuramente se si trattava di persone tanto e simili a suo padre allora sì che la sua esistenza doveva essere una gabbia...
    Il contatto con l'acqua fu una scossa di adrenalina, vuoi perchè stavamo facendo qualcosa non di proibito, ma sicuramente sconveniente visto che avremmo dovuto lavorare. Ma anche perchè lo stavo facendo mossa da qualcosa che verso di lui mi attraeva.
    Fu infatti quando ci trovammo a pochi centimetri di distanza che guardandoci negli occhi percepimmo quella sottile energia ed elettricità avvolgerci. Sorrisi ed inaspettatamente lo vidi avvicinarsi un poco con il capo a me quanto io stavo facendo con lui. Non ci tirammo indietro, mentre le nostre bocche si sfioravano e cercavano un contatto più profondo che lento arrivò. Mi venne dunque spontaneo stringermi a lui, far scivolare le mie mani sulle sue spalle e da lì cingersi dietro al suo collo, ma fu mentre una scivolò lungo il suo dorso che lo sentì irrigidirsi per poi allontanarsi. Nemmeno lo avessi scottato.
    Istintivamente mi toccai le labbra e mi guardai le mani. Con un solo tocco potevo avvelenare le persone e nonostante sapessi gestire il mio terrore per un attimo temetti di avergli fatto del male.
    "P-Perdonami. Dimmi che non ti avvelenato per favore..." sussurrai scossa tanto che lui avvicinandosi nuovamente mi prese il volto tra le mani guardandomi a disagio. In colpa.
    “Oh no. No. No, tranquilla Ophelia... non mi hai fatto nulla e... scusami tu!”
    Un peso mi si tolse dal cuore, tanto che chiudendo gli occhi sospirai più leggera. Più tranquilla, anche se poi tornando a guardarlo mi chiesi allora cosa fosse che lo aveva fatto reagire così. Corrucciai la fronte e glielo chiesi. Una domanda silenziosa che ebbe una risposta muta, mentre abbassando lo sguardo e facendo scivolare le mani dal mio viso lo vidi lanciare uno sguardo fugace alle cicatrici. Presi una sua mano e approfittando della densità dell'acqua lo avvolsi stringendomi a lui.
    "Non te ne devi vergognare... tutti abbiamo delle cicatrici..." esclamai sorridente e con la punta delle mie dita accarezzandogliene una.
    "Solo che alcuni le hanno interne ed altri non solo... Non te ne devi vergognare, ma anzi guardandole devi ricordarti cosa hai provato... cosa volesse dire essere una vittima e prometterti di non esserlo mai più... Queste cicatrici sono medaglie alla tua resilienza... alla tua forza... al tuo sopravvivere nonostante tutto... Fanne tesoro e smettila di sentirti come colui che le ha subite, ma come colui che può provocarle..."
    La mia voce era sinuosa e leggiadra come il mio tocco. Così delicato da apparire come un petalo di rosa. Soffice. Setoso. Una carezza inebriante...
     
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    Fuori, ero un blocco di marmo, rigido, immobile, impassibile.
    Dentro? C’era il delirio, il fuoco, la confusione.
    Non sapevo come queste due realtà potessero coesistere con così tanta armonia. Non riuscivo a darmi una risposta pensando al passato. Ero sempre stato una vittima, fin da ragazzino, Ophelia aveva ragione. A scuola, a casa, persino con me stesso. Non avevo mai avuto il coraggio di alzare la testa di un centimetro di troppo, fino a quando non avevo deciso di fuggire e non per nascondermi. Sì, mi ero dato alla macchia è vero, ma da sovversivo: agivo nell’ombra con l’unico scopo di causare danni a colui che mi aveva rovinato la vita. Solo adesso riuscivo a vedere ciò che avevo fatto. Di fronte a una donna che avevo imparato a chiamare “amica” e che adesso stava scavando senza prepotenza per farsi posto dentro di me. La causa degli umani? Davvero non me n’era mai importato nulla? Avevo odiato la mia natura deviante non perché era tale, non perché fosse l’incarnazione del male, ma solo perché era composta dello stesso dna di mio padre. Lo capii mentre guardavo un’altra deviante come me, mentre sfiorava le mie cicatrici e gli dava un senso meno deprecabile di quello che gli avevo dato io fino a questo momento.
    Il dito di Ophelia percorse la più lunga e frastagliata, vezzeggiando la pelle come se fosse liscio alabastro e non un ammasso di tessuti cicatriziali. Le cure che avevo ricevuto dopo “il lavoretto” ordinato dal mio tenero genitore erano state inadeguate, per non dire quasi inesistenti. La ferita sul collo in particolare si era infettata, costringendomi a lottare tra la vita e la morte in attesa che gli antibiotici trafugati facessero effetto. E, forse, il mio essere diverso aveva permesso al mio corpo di reagire…
    “Fanne tesoro e smettila di sentirti come colui che le ha subite, ma come colui che può provocarle...”
    Quante ferite avrei potuto provocare con la mia mente? Quanti umani sarebbero stati sterminati se non avessi io stesso sabotato un’invenzione a dir poco geniale? Fissai il mio sguardo in quello di Ophelia, l’impassibilità del mio corpo stava svanendo, così come la sensazione che con quel bacio avessi tradito Jemma e il gruppo di ribelli con cui avevo vissuto gli ultimi anni.
    Un bacio non poteva costituire un tradimento, tradizione cristiana a parte. Si tradisce quando credi veramente in qualcosa, quando sei votato corpo, anima, mente a quel qualcosa, quando l’idea di perderlo ti fa tremare dal terrore. E invece, ciò che avevo lasciato al di là della barricata era una mera illusione. Un alibi. Un mezzo.
    Mi feci di nuovo più vicino, appoggiai le mani sui fianchi di Ophelia e la sollecitai ad aggrapparsi ai miei con le gambe. I nostri corpi combaciavano alla perfezione, come se fossero stati creati proprio con quello scopo.
    “Nessuno, nessuno, nessuno mai mi aveva parlato così…” confessai in un sussurro. Le mie labbra di nuovo a pochi centimetri dalle sue. “Per tutta la vita ho creduto che queste cicatrici fossero un’onta, sai i famosi scheletri nell’armadio che è meglio tenere nascosti e al sicuro? Le ho odiate, perché mi hanno sempre ricordato la mia debolezza. Ho avuto paura della persona che me l’ha causate, non credo che quella svanirà come neve al sole… ma tu… tu… stai riuscendo laddove tanti hanno fallito…” Ok, il mio discorso non aveva senso, Ophelia non poteva capire fino a fondo a cosa mi riferivo, o forse sì? Perché il suo sguardo pareva leggermi tanto in profondità come se avesse trovato la chiave di lettura del rebus? Già, ecco come mi definiva Jemma: un rebus difficile da decifrare. Ma forse, c’era bisogno solo della chiave giusta. Consapevole di questa verità tornai a baciarla, dapprima accarezzandola piano, poi stuzzicandola con la lingua e infine mordicchiandola con i denti.
    Con una mano le accarezzai la nuca sottile, spostandole appena i capelli bagnati su un lato per poterla baciare anche lì, nell’incavo invitante. Non avevo la più pallida idea di cosa stessi facendo.
    L’ars amatoria era un tabù per il sottoscritto, ma mi lasciai trasportare da qualcos’altro… l’istinto? Ero stanco di pensare, elaborare, analizzare. Perciò, smisi di farlo. Presi questa decisione con la complicità di Ophelia, che non si ritrasse, al contrario, gettò il capo all’indietro in un muto invito. Strinse le cosce attorno al mio bacino, scossa da un leggero tremore. Quanto era sensuale? Ne era almeno vagamente consapevole? Non ne ero sicuro e non era importante, non in questo delirante momento di follia.
     
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    :Ophelia:
    Quello che era accaduto tra me e Leopold aveva lasciato un marchio indelebile che, sinceramente, nessuno dei due voleva ignorare e perchè farlo? Da quanto io sapessi eravamo entrambi single, Devianti ed anche particolarmente affini eppure c'era sempre un certo alone di mistero che non lo rendeva completamente cristallino ai miei occhi. Andavo in giro con un sorriso sulla bocca che mi attraversava da parte a parte e mentre mio padre lo ignorava, o fingeva di non vederlo troppo perso nei suoi affari, Jewel mi pungolava costantemente obbligandomi di portare Leopold a cena. Un'idea carina su cui stavo meditando anche perchè, era chiaro che desiderassi approfondire la nostra conoscenza e forse chissà portarla a qualcosa di più...
    Tuttavia quelli erano giorni frenetici al lavoro che ahimè ci avevano costretto a rimandare ogni sogno e desiderio. Dopo il fallimento del progetto di Leopold il Fuhrer era sul piede di guerra. Aveva deciso di avanzare comunque l'offensiva verso i Ribelli, che inspiegabilmente nell'ultimo periodo sembravano sempre un passo avanti a noi.
    “A che punto siamo?” esclamò Alaistar senza convenevoli piombando nella stanza. Era meno composto del solito. Il panciotto slacciato e i capelli appiccicati alla fronte sudata. "Abbiamo perso uomini, terreno e fiducia. Ci serve una vittoria e ci serve subito. Questo progetto DEVE funzionare o altrimenti mi trascino tutti nella tomba con me!" sibilò serpentino fuori di sè.
    Si sapeva. Se avessimo fallito di nuovo il Fuhrer si sarebbe sbarazzato di Alaistar e lui si sarebbe preoccupato di portarci giù all'inferno con sè.
    Rimasi impassibile, mentre lo percepì arrivami alle spalle ed avvicinarsi fin troppo a me. Non lo lo diedi a vedere, ma quella vicinanza mi dava il disgusto come il suo fiato sul collo.
    “Il che sarebbe un peccato per la giovane Ophelia... anche se il tuo nome già preannuncia tragedia...” quella di Shakespeare. Touchè. L'avevo già sentito mille volte, colpa di mia madre e la sua passione per le tragedie.
    Alzai un sopracciglio non scostandomi di un millimetro.
    "Questa volta non falliremo... Io e Leopold" mi piacque sottolineare voltandomi a guardarlo con aria tronfia. Lo notavo il fastidio nel profondo delle sue iridi chiare a dover constatare che io considerassi suo figlio più di lui. Che io trovassi interessante Leopold, che lo ammirassi e oscenità di tutte le oscenità, che lo trovassi attraente.
    Alaistar digrignò i denti in un falso sorriso, voltando il capo e fulminando con lo sguardo il proprio figlio.
    “Sempre che non sia lui la causa di tutti i mali... al ché consegnarti al Fuhrer è la scelta migliore. Non mi aspetterei altro da un omuncolo, buono a nulla e codardo come te! Ci hai traditi vero? Sei un traditore!” Alaistar perse la testa e prima urlò furibondo e successivamente prese per il bavero Leopold. Lo scuoteva fuori di sè, la vena pulsava sul collo ed il viso si accendeva di un rosso fuoco.
    Io avrei potuto intervenire, ma non lo feci. Semplicemente cercai lo sguardo di Leopold, oltre la spalla del padre poteva scorgermi. C'era incoraggiamento, c'era supporto e stima. Sapevo quanto valesse, quanto fiducia avessi in lui e volevo che adesso anche lui l'avesse. Che si ricordasse delle mie parole e reagisse, era ora di mostrare ad Alaistar quello che valeva.
     
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    Il primo istinto fu quello di rannicchiarmi, il secondo di fuggire, il terzo di urlare.
    Strinsi le palpebre, ordinando al terrore di fare marcia indietro, ai ricordi di bambino di dissolversi, al mio orgoglio di venir fuori e combattere. I brividi mi scuotevano fin sotto la pelle, immobilizzando ogni cellula del mio corpo. Con gli occhi chiusi cercavo di ricacciare indietro i miei ricordi ma non mi avvidi delle intenzioni malvage di mio padre in tempo. Mi scaraventò a terra con una violenza che mi tolse il respiro e iniziò a calpestarmi. I suoi calci erano dolorosi, mirati agli organi vitali che tentavo di proteggere con le braccia per come potevo. Lo stesso modus operandi di sempre. Non era cambiato nulla, erano passati gli anni, avevo creduto di essere cresciuto, ma di fronte a lui rimanevo un essere insignificante… per mesi lo avevo evitato e avevo fatto male, perché avevo contribuito a far riemergere la boria e l’arroganza che lo contraddistinguevano. Mi ero rifugiato in questi pensieri per non pensare al dolore, nella speranza che il supplizio terminasse in fretta, ma la distrazione mi colse e lasciai il ventre senza difese per un unico attimo che mi risultò fatale – ma non per ciò che si potrebbe immaginare. Alzai lo sguardo… e ne incrociai due differenti che mi portarono ad ammettere che no, non potevo continuare così. Il primo, quello di mio padre: mi fissava con occhi da sadico, con ogni probabilità godeva nel riavermi tra le grinfie, chissà quanto gli ero mancato; dopo di me su chi aveva sfogato il suo gene violento? Chi aveva vessato, perseguitato, distrutto? Il secondo, quello di Ophelia. Mi stava incoraggiando a reagire? Eppure non aveva idea di quello che mi aveva fatto passare, di come avesse calpestato la mia psiche e la mia carne fino a trasformarle in poltiglia. Lei però restava lì, le sue iridi color cioccolato fisse nelle mie m’incitavano a provocare dolore… a colui che avevo imparato a odiare.
    Questa combinazione fu esplosiva, tuttavia la mia reazione non fu come l’avevo sempre immaginata. Avevo sempre creduto che un giorno avrei affrontato mio padre a testa alta, rinfacciandogli tutto il suo fallimento, gli avrei detto quanto mi aveva fatto soffrire e lui ne sarebbe stato costernato. E non solo. Mi avrebbe persino chiesto scusa. Quante idiozie? Me ne rendevo conto adesso, mentre dentro di me divampava il potere ma non la rabbia. Smisi di tremare, di restare rannicchiato, di subire.
    Mi liberai dallo scudo delle braccia, lasciando che i colpi arrivassero diretti, ancora più dolorosi ma il supplizio non sarebbe durato a lungo. Anzi, sarebbe finito per sempre.
    Fissai il viso di mio padre e lo vidi trasformarsi. La gragnola di calci era ormai cessata ed io cercai di rialzarmi, non ci riuscii ma non per questo mi fermai.
    Alistair iniziò a urlare.
    I suoi occhi, le sue narici, le sue orecchie e la sua bocca stillavano sangue rosso vivo.
    Gli atomi che lo componevano stavano per implodere.
    Seduto di schiena contro la parete dell’ufficio, continuavo a guardarlo. Il mio volto non tradiva nessuna espressione, né di piacere né di odio. Non riuscivo ad esprimere il marasma che si celava dentro, sotto pelle, tra le pieghe dell’anima. Non potevo, perché semplicemente stavo per uccidere l’uomo che mi aveva distrutto la vita. Le conseguenze non m’importavano, sarei stato condannato a morte? La causa dei ribelli sarebbe andata in fumo? Qualcuno avrebbe pianto la mia dipartita? Di certo, più di qualcuno avrebbe gioito per quella imminente di Alistair Morgan…
    Poi, all’improvviso, anche questa certezza svanì.
     
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    :Ophelia:
    Assistere a quella scena non fu facile ed ancor meno non far nulla, certo se la situazione fosse peggiorata sarei intervenuta, ma l'unica cosa che volevo era che Leopold ce la facesse da solo. Che fosse l'incredibile uomo che in quei mesi avevo scoperto essere e che ogni giorno che passava mi attraeva come una calamita.
    Fu quando cadde a terra che mi feci avanti per fermare Alaistar, ma Leopold reagì e ciò che vidi fu per la prima volta la sua vera ed oscura essenza. I miei occhi se possibili furono ancora più lucidi pieni di orgoglio e di amore. Se c'era una cosa che Nyx mi aveva insegnato, nel suo ammirarla e seguirla, era di accettare chi si amava in ogni suo lato. Una persona era tridimensionale, ma come era solita dire, esisteva anche una quarta dimensione nascosta. In essa c'era la vera essenza delle persone e finalmente Leopold la stava tirando fuori.
    Alaistar era ad un passo dall'esplodere, ma fu proprio allora che lui si fermò. Lo sguardo prima impaurito era ora impassibile, mentre alzandosi da terra lo guardava non con poca indifferenza prima di sistemarsi il colletto della camicia e recuperando la giacca del completo uscire dal laboratorio.
    Mi venne spontaneo seguirlo fregandomene delle condizioni di Alaistar che era ancora bordeaux in viso, ma quando raggiunsi Leopold riuscì a fermarlo solo prendendolo per un polso. Lui si voltò, mi guardò, poggiò la sua mano sulla mia e poi se ne andò.
    I giorni successivi non furono meno facili perchè nonostante i miei numerosi tentativi di avvicinarlo o iniziare un discorso, le sue risposte o attenzioni si limitavano al lavoro. Quando poteva mi evitava o trovava sempre cose da fare in altri laboratori o comunque il più lontano da me.
    Si era chiuso in un mutismo impenetrabile, mentre eregeva un muro di indifferenza. Mi ferì essere chiusa fuori in quel modo, ma non mi diedi per vinta. Prima di quel triste episodio l'avevo invitato a cena da me con la mia famiglia e lui aveva accettato. Ora il giorno era arrivato, ma non sapevo se sarebbe stato ancora interessato a venire.
    "E-Ehm Leopoldo non voglio disturbarti... v-volevo solo sapere se stasera verrai comunque o..."
    Non era da me quella voce incerta e nemmeno quel torturarmi le dita, ma davvero ormai non sapevo più come approcciarmi a lui. Mi morsi un labbro, in piedi accanto alla scrivania cui era seduto scrivendo nella sua calligrafia elegante. Il capo basso a non degnarmi nemmeno di uno sguardo.
    “E' stasera vero?”
    Mi chiese con freddezza non smettendo di porre attenzione al suo lavoro.
    "Teoricamente..."
    “Certo. Ci sarò. Alle 8 vero?” mi chiese con noncuranza solo allora fermandosi e lanciandomi uno sguardo fugace.
    Io assentì e lui fece lo stesso con un timido sorriso, mentre tornò al suo lavoro. Io mi allontanai non totalmente certa di come mi sentissi, aspettavo quella sera da giorni ed adesso? Non era più sicura che fosse ciò che avevo sognato. Che lo avessi deluso? Che avessi ormai compromesso ogni possibilità di costruire qualcosa insieme?
     
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    :Leopold:
    Mi osservai allo specchio della camera da letto. Il mio volto era strano, assomigliava a una maschera di cera, di quelle che non hanno lineamenti né espressione, ma solo delle fessure per gli occhi e le labbra. Una maschera inquietante, tanto diversa dal volto pieno di pathos a cui ero abituato. Mi stavo solo facendo suggestionare dalle parole di Jemma? Era davvero ancora in grado di arrivare così in profondità? In realtà, non credevo fosse possibile.
    Fissai i miei occhi chiari, adesso molto più simili al ghiaccio artico che al mare in tempesta. E iniziai a comprendere il punto di vista di Jemma...

    “Sei diverso Leo, sembri un’altra persona. Cosa ti stanno facendo?” mi disse con voce rotta, un suono che avrebbe dovuto spezzarmi il cuore ma che riuscì solo a irritarmi.
    “Vi ho aiutati per come ho potuto, vi ho dato informazioni talmente riservate da rischiare la vita in modi che nemmeno immagini, ho sopportato le angherie di mio padre – ancora e ancora – per non venire meno alla causa. Davvero pensavi che tutto questo non avrebbe avuto conseguenze? Quando mi hai mandato nella tana del lupo senza battere ciglio, credevi che sarebbe stata una passeggiata… ma non è stato così, non lo è nemmeno adesso! E osi accusarmi di essere ‘diverso’… che situazione grottesca è questa?” La guardavo come si guarda un’estranea, stringendo i pugni per trattenere il risentimento che scorreva nelle vene come veleno. Questo era l’ennesimo confronto dopo la disastrosa discussione avuta con la ciurma di ribelli che un tempo chiamavo “famiglia”.
    “Non puoi abbandonarci! Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te!” mi sibilò contro, le sillabe cariche di un’emozione che non riuscivo a decifrare, non ero mai stato bravo in questo. Era delusa, arrabbiata o ferita?
    “Mi avete accolto come uno di voi, per poi buttarmi nella gabbia dei leoni senza nemmeno chiedermi uno straccio di parere. Devi ammettere che è alquanto naturale che mi sorga qualche dubbio sull’onestà delle vostre intenzioni. Forse, avevate semplicemente bisogno di una talpa all’interno e allora perché non raccattare un deviato sfigato e pieno di problemi da plasmare per l’occasione?” Un feroce sarcasmo trasudava da ogni mia parola, ma la voce restò bassa, controllata, mi feci paura da solo. Jemma mi fissò addirittura inorridita e questo mi diede la conferma che qualcosa si era rotto e in maniera irreparabile questa volta.
    “Credi davvero che ti abbiamo solo usato? Che anche il mio amore per te fosse tutta un’invenzione?” mi chiese alla fine.
    “Sono passati anni, Jemma, anni in cui non ho fatto altro che ubbidire, inventare e distruggere devianti a iosa. E voi? Tu? Avete pensato anche solo per un momento che cosa significava per me rientrare in quel mondo? Tu che dici di amarmi, ti sei posta questo problema? No. Nessuno lo ha fatto. Ma forse, nonostante lo schifo che ho dovuto subire, come si dice ‘non tutto il male viene per nuocere’…”
    Jemma rimase in silenzio, forse temendo il prosieguo del mio discorso che però non giunse. Rimasi muto, senza distogliere il mio sguardo dal suo. Non aveva osato replicare alle mie accuse e questa era l’ennesima riprova che qualsiasi cosa ci fosse stata tra noi non era stata trasparente come voleva farla passare. Forse sì, col tempo aveva imparato a volermi bene a suo modo, ma tutto il resto era marcio, dannatamente marcio!
    “Hai deciso che non ci aiuterai più, quindi?”
    “L’ho detto a James e se ne dovrà fare una ragione. Non posso rischiare più la pelle per qualcosa in cui non credo più. Fa male scoprire di aver perso il proprio burattino, eh?” C’era ben altro sotto, uno strisciante senso di colpa verso una persona in particolare che mi impediva di proseguire in questo maledetto doppio gioco.
    “Sei passato dalla loro parte!” Mi accusò alla fine, il suo sguardo adesso era ammantato di una rabbia cieca, tanto che i suoi lineamenti dolci si trasformarono in un qualcosa di indefinito.
    “Jemma, quella è sempre stata la mia parte. E se proprio vogliamo parlare di cambiamenti prova a guardarti in questo momento allo specchio. Cosa si prova a ingannare e a venire brutalmente scoperti? Ecco non voglio fare la tua stessa fine…”
    Tentò di darmi uno schiaffo per sfogare la sua collera, ma io le afferrai un polso e la costrinsi a voltarsi verso l’unica superficie riflettente della piccola stanza. Le due figure che ci fissavano erano entrambe trasfigurate. Appena un anno prima nessuno di noi due l’avrebbe nemmeno sospettato un cambiamento del genere ma non si poteva fermare il destino… lo avevo capito durante l’ultimo pestaggio di Alistair Morgan. Non si poteva fermare il destino.


    Mi riscossi dal ricordo di una fine, sperando che quella sera avrebbe rappresentato un inizio.
    Ophelia mi aveva invitato a cena con la sua famiglia. Sapevo bene quanto fossero legati e avevo intuito quanto questo gesto fosse importante per lei. Aveva aperto una breccia nella sua corazza per far entrare un barlume di me… speravo di non deluderla. Ci avevo messo giorni per capirlo, giorni in cui avevo tentato di tenerla distante per studiare le mie emozioni, quelle infide sibille che sapevano solo confondermi! Dopo il tentato omicidio di mio padre mi si era aperto un mondo, anzi no, un universo in cui alcuni pezzi di un enorme puzzle stavano pian piano trovando la loro collocazione, anche se eravamo ancora all’inizio di un lunghissimo percorso. Però… avevo ottenuto il timore di mio padre! Il grande scienziato Alistair Morgan non osava più urlare contro il suo figlio nerd, di certo covava tanto di quel rancore da inacidire un intera cantina, ma non mi importava: mi bastava sapere che da ora in avanti mi avrebbe trattato come un adulto e non come una valvola di sfogo. I miei colleghi, di conseguenza, avevano cominciato a riservarmi più rispetto – anche qui, se si trattasse di paura o meno mi era indifferente. Tuttavia, l’unica di cui mi importava davvero era colei che mi aveva spinto a prendere decisioni fondamentali come quella di recidere ogni rapporto con i ribelli. Non volevo più essere una spia. Non volevo più ingannarla, era questa la realtà dei fatti. Non mi chiesi il motivo, non era ancora il momento…
    Ma dovevo darmi una mossa, l’ora dell’appuntamento si avvicinava e non volevo fare tardi.
    Scelsi un pantalone scuro su cui ci abbinai una camicia bianca che lasciai un po’ sbottonata dopo una seria riflessione. No, la cravatta sarebbe stata davvero troppo. Già sembravo vestito per un funerale, ma il mio guardaroba era adatto solo al lavoro, non avevo preventivato uscite rilassanti o informali. Sbuffai per stemperare la tensione. Sarebbe andata bene?
    Presi la giacca ma non la indossai, prima di mettermi alla guida della mia auto con direzione casa di Ophelia: volevo esibire una scioltezza che non provavo affatto, ma tentare era d’obbligo.
    La villa McKay era davvero uno spettacolo, anche se non ostentava ricchezza, al contrario appariva maestosa nella sua sobrietà, proprio come doveva essere il Gerarca Adrian McKay. Il cuore prese a martellare nel petto e l’ansia mi fece sudare i palmi della mani. Uno di essi era nascosto in una tasca dei pantaloni in una finta posa rilassata, mentre l’altro teneva saldamente la giacca.
    Com’era possibile che una “semplice” cena potesse incrinare tanto facilmente quella maschera di cera che avevo indossato solo pochi minuti fa? L’avrei scoperto a breve, non mi restava che suonare il campanello.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 27/3/2020, 19:50
     
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    Conto ogni previsione o meglio contro ogni MIA previsione Leopold era venuto alla cena e quando aprì la porta si trovò di fronte una Ophelia molto diversa da quella che era solita vedere. A lavoro ero costretta, giustamente, ad un look più austero, ma nel tempo libero potevo sfogare la mia passione sfrenata per la moda.
    Ne dettaglio indossavo un mini abito, di quelli che tanto stavo spopolando con l'avvento della minignna, di una texture geometrica color giallo a ricordare tanto il nido d'ape. Sbracciato in vita indossavo una cintura bordeaux come gli stivali lunghi fino a metà coscia. Entrambi gli elementi sottolineavano la mia femminilità più del solito.
    I capelli sciolti erano fonati all'indietro, come tanto di moda andavano e gli occhi erano truccati più del solito con tonalità calde, mentre le labbra erano "bagnate" da un leggero lipgloss.
    Sorrisi a vederlo e gli feci segno di entrare proprio mentre sia Jewel che papà portavano gli ultimi recipienti di cibo a tavola.
    “Dottor Morgan lieto di averLa a cena da noi” disse mio padre in modo serio e professionale stringendogli la mano più forte del dovuto, mentre Jewel ridacchiava con me sotti i baffi.
    “Su su non siamo così formarli! Benvenuto Leopold, posso chiamarti Leopold vero?” chiese quasi temendo di fare una figuraccia, mentre senza aspettare oltre gli riempì il piatto.
    La cena fu un lungo susseguirsi di aneddoti imbarazzanti per la sottoscritta, per colpa di mia sorella, ed un interrogatorio da parte di mio padre, mentre io cercavo di mediare l'una e l'altro. Non volevo che Leopold si sentisse bombardato di notizie, ma nemmeno che si sentisse sotto accusa.
    “E poi Ophelia se ne esce che non aveva accettato l'invito al ballo da parte del ragazzo più popolare della scuola perchè facendo coppia con lui era arrivata ultima alla gara di scienze!” concluse mia sorella dopo l'ennesimo aneddoto, scuotendo il capo e facendo spallucce. Tutti ridemmo, mentre ormai eravamo al dolce. Un ottima Foresta Nera fatta in casa.
    "Ehi non scherzare, ci tenevo ed avevo capito che avere un ragazzo mi avrebbe distratto!" puntualizzai mentre ancora la vedevo ridere. Era bravissima a mettermi in imbarazzo.
    “Dunque ti sposi?” chiese Leopold. Non aveva parlato molto quella sera, ma da come era arrivato rigido e nervoso, lentamente si era sciolto ridendo di gusto e mangiando quella cena come se non mangiasse buon cibo da una vita intera.
    “A Maggio! Il mio piccolo fiore si unirà in matrimonio con l'Agente Schmidt! Non potevo chiedere di meglio!” papà allungò una mano su quella di Jewel che sorrise radiosa, mentre Leopold sembrò quasi colpito da quella notizia.
    Conosceva Glenn perchè spesso c'avevamo a che fare, ma probabilmente solo per l'agente d'intelligence che era e nulla più. Oh no forse anche perchè aveva una gamba di legno, in quanto l'aveva persa in guerra.
    "Glenn è ebreo. Ha servito nell'esercito americano e poi quando venne preso dai nazisti finì in un campo di concentramento, era lì quando avvenne la trasformazione... Diventare un Deviante lo ha salvato e lui ha fatto presto carriera. E' leale, dolce, intelligente, ha rubato prima le attenzioni di mio padre che lo ha preso sotto la sua ala. Poi il cuore di Jewel ed infine la mia stima!" gli raccontai radiosa eppure parve come se quell'ultimo tassello fosse stato per lui un po' come la "goccia che fa traboccare il vaso". Anche se non ne capivo il motivo.
    Farfugliò qualcosa scusandosi e poi abbandonando il tovagliolo sul tavolo si alzò allontanandosi. Mio padre e Jewel mi guardarono confusi, ma prima che il primo potesse fare qualcosa intimai entrambi di rimanere seduti. Lo avrei cercato e gli avrei parlato e così feci. Lo trovai in giardino, le mani nelle tasche ed lo sguardo alla luna.
    "Leopold... cosa è successo?" chiesi senza esitazioni o paura, ma solo curiosa. Percepivo da giorni che qualcosa non andava e speravo che fosse arrivato il momento in cui si sarebbe confidato con me.
     
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    Annarita
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    Cosa diavolo stavo facendo?! Ecco la domanda che continuava a vorticarmi in testa senza sosta, tanto da togliermi lucidità e respiro. Costretto ad abbandonare la tavola, mi ero rifugiato nella parte posteriore di un meraviglioso giardino, tanto curato da far male agli occhi, così come quella serata perfetta aveva finito per far male al cuore.
    Ero arrivato con tanto di quel nervosismo da poter essere quasi tangibile, ma la famiglia di Ophelia aveva operato una specie di miracolo di cui prendevo coscienza solo ora: era riuscita a farmi sentire a casa, davvero. Non c’erano doppi fini nelle loro moine, non c’erano intenzioni losche nascoste sotto espressioni divertenti, risate spontanee, domande curiose. Jewel si era rivelata una donna dalle mille virtù, come poteva una deviante – mostro solo perché tale di natura – lavorare come infermiera in un reparto di malati terminali, fare volontariato per i poveri della chiesa, continuare a sorridere come se il sole fosse parte di lei dopo aver visto tutte queste brutture? E il generale McKay, non sarò mai in grado di descrivere a parole l’emozione che gli ho letto negli occhi mentre parlava del futuro genero, un agente impeccabile e a quanto parte anche un modello di tenacia e caparbietà. Il sorriso di Ophelia? Se volessimo davvero parlare di questo, beh, nessun mostro avrebbe potuto avere un sorriso del genere! Questo, assieme alla sottile preoccupazione che esprimeva attraverso sguardi e tocchi di mani, mi avevano trasmesso un senso di famigliarità che non avevo mai sperimentato in tutta la mia vita. Per non parlare di una cena a dir poco sontuosa: le sorelle McKay avevano cucinato tutto il giorno per uno sconosciuto, per un comune collega di lavoro che in realtà non meritava nulla di tutto questo, perché… perché era uno schifoso trad…
    “Leopold… cos’è successo?”
    Sobbalzai nell’udire la voce preoccupata di Oph, ero talmente perso nei miei pensieri che non l’avevo sentita arrivare. Distolsi lo sguardo dalla luna per rivolgerlo verso un astro molto più luminoso. La fissai intensamente, senza rispondere alla sua domanda. Alzai un angolo della bocca in un sorriso stanco, uno di quelli che chiedono pietà e cercano ristoro.
    “Il giallo ti dona sai? E anche i capelli, così ti stanno davvero bene…” Il rossore che affiorò sulle guance di Ophelia allargò il sorriso sulle mie labbra. Era stato un gesto automatico, quasi necessario per il mio corpo: doveva reagire in qualche modo a tanta bellezza. “Non ho mai mangiato tanto e tanto bene come stasera. Tuo padre è un gerarca anche a tavola, ma ho visto come guardava te e Jewel, il suo orgoglio era simile a un faro. Tua sorella? Un fiore talmente raro per cui si potrebbe tranquillamente scatenare una guerra pur di tenerlo al sicuro. Tutti, tutti voi vi siete prodigati per accogliermi e darmi una serata indimenticabile… e ci siete riusciti, forse andando al di là di qualsiasi vostra intenzione o aspettativa. Stasera per me sarà davvero impossibile da dimenticare.” La voce si era incrinata sotto il peso schiacciante della vergogna, perciò tornai a guardare la luna, incapace di sostenere ancora lo sguardo curioso ed emozionato con cui Ophelia mi aveva abbagliato fino a quel momento.
    “Se è una serata tanto bella, cos’è che la sta turbando adesso? Cosa ti impedisce di godertela fino in fondo? Parlami, ti prego.” Aveva pronunciato quelle parole in un sussurro, quasi come se fosse una vera preghiera. Mi si era fatta vicina, tanto che riuscivo a sentire benissimo il suo aroma di frutta. Avrei voluto toccarla, prenderla per mano, dirle che andava tutto bene ma non potevo, non con le dita che grondavano sangue di miei simili. Quanti Glenn, Jewel, Ophelia avevo contribuito ad annientare? Quanti avevano lasciato intere famiglie a piangerli? No, dovevo togliermi questo enorme peso ed ero pronto a pagarne le conseguenze.
    “Sai, Alistair Morgan è sempre stato un uomo egocentrico e violento. Fin da piccolo ho dovuto subire la sua indole, i suoi abusi, le sue torture. Figlio unico e con una madre incapace di difendermi perché abusata anche lei, non ho avuto altra alternativa se non odiarlo. Ho aspettato solo che mia madre si spegnesse… Dopo un’agonia infinita causata da una feroce depressione, finalmente ha deciso di porre fine alle sue sofferenze con un paio di lamette. Ero rimasto chiuso tutto il giorno in camera dopo l’ennesimo pestaggio, saltando persino la scuola perché questa volta non aveva avuto cura di non intaccare ‘il mio bel faccino’” mimai le virgolette per citare il mio esimio genitore, mentre il tono si faceva sempre più neutro, come se stessi raccontando la storia di un bambino qualunque. Era l’unico modo per non perdere anche l’ultimo pezzo che era rimasto di me, nascondermi dietro la maschera di cera. Non osai voltarmi verso Ophelia, ero certo che avrei perso il coraggio di andare avanti. “A sera, con lo stomaco che brontolava per la fame e consapevole che lui era a ancora a lavoro, uscii per procurarmi del cibo. Non mi preoccupai dell’assoluto silenzio che regnava in casa, era sempre così quando lui non c’era, figurati che già allora avevo perso ogni ricordo della voce di mia madre. La trovai in cucina, seduta al tavolo, col capo chino come se stesse semplicemente dormendo per recuperare le forze. Solo quando mi avvicinai mi resi conto di cos’era successo. I piedi scalzi e l’orlo dei pantaloni si erano inzuppati di sangue, del suo sangue, che ricopriva gran parte del pavimento sotto di lei. Era morta da tempo, la sua pelle era cerea e quando le toccai il collo era già gelida. Si era spenta senza emettere un fiato, senza una lacrima, senza una parola di addio… ma non la biasimo neppure ora, come potrei? Voleva solo un po’ di pace… come me. Terminai l’ultimo anno di superiori sopportando ancora pochi mesi di angherie, dopodiché una notte me ne andai. Scappai senza voltarmi mai indietro. E qui arriviamo al punto cruciale, perché Alistair è davvero un coglione senza speranza ma su una cosa aveva ragione…” E allora mi girai, dovevo dirglielo guardandola negli occhi, altrimenti tutto avrebbe perso il suo valore: il mio racconto, la mia confessione. “Sono un traditore, Ophelia.” E adesso non potevo più tornare indietro, non più.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 1/4/2020, 19:10
     
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    :Ophelia:
    Non potei negare in alcun modo che il suo aprirsi, che il suo parlarmi in quel modo non mi facesse piacere. Era stato, fin dal primo giorno che lo avevo conosciuto, una persona introversa e che non era solita raccontare di sè. Sapevo molto poco di lui se non quello che era impossibile nascondere o capire, dunque quel suo parlarmi con il cuore in mano mi fece sentire una privilegiata.
    Sorrisi lieta e rimasi così silenziosa in ascolto per nulla intenzionata ad interrompere un momento tanto importante, almeno fin quando lui non se ne uscì con quella rivelazione. La stessa che non compresi immediatamente. Scossi infatti il capo come a voler cercare conferma ed avanzando un passo verso di lui ero ancora serena. Di chi credeva in uno scherzo, ma non era da lui, o magari in un essere messa alla prova, cosa che risultava più sensata.
    "No Leopold non devi permettere a tuo padre di entrarti nella mente..." avevo detto con dolcezza e preoccupazione alzando le mani per posargliele sul volto, ma lui me lo impedì stringendomi i polsi.
    “Non lo sto facendo. Ti sto solo dicendo la verità. Sono un traditore...”
    Lo guardavo nelle iridi chiare scuotendo il capo confusa. Il sorriso primo gentile ora era diventato teso.
    “Sono stati i Ribelli ad infiltrarmi, erano sicuri che essendo un Deviante e per di più figlio di uno degli uomini più importanti del Reich mai avreste dubitato di me e così è stato...” alle sue parole fredde e razionali, io reagì scuotendo il capo sempre più prepotentemente mentre allontanandomi da lui, come scottata, cercai di trattenere le lacrime che avevano preso a solcarmi il volto.
    Il mio silenzio era segno che la mia mente stava lavorando, stava assorbendo l'informazione ricevuta e stava capendo se fosse vera. Le braccia scivolarono lungo i fianchi, mentre i pugni si strinsero sempre più forti. Pensai ai piani falliti, alle fughe di notizie e di come tutto avesse senso, di come solo lui poteva esserne la causa.
    Ero delusa. Arrabbiata. Tradita. Ed il mio viso non nascose tale emozioni.
    "La cosa che mi fa più male è non essermene accorta. E' essere stata così debole da lasciarmi abbindolare da te. Ho creduto davvero che ti importasse, che tenessi a me e questo ha offuscato il mio giudizio. Che razza di stupida sono stata... la peggiore delle sciocche...." esclamai dura, la mascella testa e lo sguardo vitreo.
    Tuttavia fu a quelle mie parole che senza paura alcuna lui si avvicinò a grandi passi avvolgendo i miei pugni con le sue mani, il suo sguardo chiaro non era spaventato di ciò che sarebbe capitato da lì a poco. Oh no, nel suo sguardo c'era solo tristezza ed il terrore che io pensassi davvero quelle cose.
    “Posso morire... posso essere torturato... accetterò la sorte che tu vorrai assegnarmi, ma ascoltami Ophelia... MAI... MAI ho mentito con te... o ho finto ciò che per te provo. Tu mi hai reso orgoglioso di essere un Deviante, mi hai mostrato cosa davvero significa, mi hai fatto sentire amato. Accettato. Hai svelato la mia essenza, quella vera... che perfino io ignoravo... dunque fai di me ciò che vuoi, ma non pensare mai per un secondo questo. Perchè tu non sei nè stupida nè tanto meno sciocca... sei la donna più brillante ed intelligente che io abbia mai conosciuto!”
    Le sue parole entrarono nel petto come stilettate che rendevano ancora più difficile quello che avrei dovuto fare, ma fu proprio mentre da lui mi scostavo pronta a fare la cosa giusta che mi fermai. Gli davo le spalle diretta verso la mia casa, sarei rientrata e lo avrei denunciato a mio padre affinché venisse arrestato, ma poi pensai: anche mio padre era stato un traditore.
    Ci aveva raccontato la sua storia, di come anche lui fosse un nemico del Reich, ma di come una volta abbracciata la sua natura ciò lo aveva cambiato e gli aveva fatto scalare le più importanti gerarchia diventando oggi il braccio destro del Fuhrer. Leopold aveva fatto lo stesso. Si era arreso a me, mi aveva confidato qualcosa di incredibilmente importante e lo aveva fatto senza preoccuparsi delle conseguenze perchè solo un vero Deviante avrebbe accettato la morte con tanta dignità. Certo di meritarla. E poi c'era qualcosa in più... non si era auto denunciato a mio padre, ma a me. E lo aveva fatto per fiducia... per l'amore che vedevo nei suoi occhi. Sincero. Poteva una donna forse ricevere prova più grande di devozione e fiducia?
    Mi maledì e poi tornando sui miei passi gli andai incontro senza permettergli di parlare, perchè già lo stavo baciando con tutta me stessa. Un bacio profondo e passionale come quello che già ci eravamo scambiati. La sua freddezza, la sua compostezza si trasformava da ghiaccio a fuoco ogni volta che mi aveva tra le braccia facendomi sentire una virilità ed una forza che apparentemente nascondeva.
    Fu però quando mi staccai che lui confuso mi guardò ancora con le mani sui miei fianchi.
    “Cosa stai facendo?”
    "Ti mostro quanta fiducia ti stia dando... Non voglio mentire, mi fa male tutto questo. Mi hai ferito, ma... vedo la sincerità nei tuoi occhi... i tuoi bellissimi occhi..." mormorai. Le mani sulle sue guance e la mia bocca a pochi centimetri dalla sua.
    "Credo a quello che dici, ma è ora di mostrarlo anche agli altri. Recidi i contatti con i Ribelli, usa quello che sai per mostrare al Fuhrer quello che vali ed insieme ci libereremo di tuo padre... Il Fuhrer ama le persone concrete, non chi si pavoneggia. Amo i risultati concreti non le teorie vacue. Dagli questo e ti noterà..."
    “Ma stanno ancora cercando la talpa!”
    "E gliela daremo, ormai hanno capito che si tratta di qualcuno dei piani alti... sarà solo un altro Morgan..."
    “Mio padre...”
    Sussurrò mentre io assentì. Fu allora che un sorriso sinistro, un ghigno che mai gli avevo visto sul volto gli nacque spontaneo e prima che potessi rendermene conto mi aveva già messo una mano dietro il capo, tra i capelli, e lo aveva spinto verso il suo per un nuovo e travolgente bacio che sapeva tanto di promessa.
     
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    Annarita
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    :Leopold:
    Cos’era appena successo? Non riuscivo davvero a capire, a decifrare, a contestualizzare.
    Avrei dovuto essere già in manette, se non direttamente giustiziato sul posto dal Gerarca McKay per alto tradimento. E invece?
    Stavo baciando la sua bellissima figlia, le mie dita accarezzavano la sua nuca e qualche ciocca di morbidi capelli. Di certo c’era stato qualche cortocircuito nei miei neuroni, forse era per questo che non riuscivo a formulare pensieri che avessero un minimo di senso?
    Ophelia non mi aveva denunciato, soffriva per la mia confessione ma non mi aveva denunciato. Al contrario, aveva escogitato un piano per distogliere da me qualsiasi sospetto! Pazzesco, era tutto assurdamente pazzesco. Per non parlare della sua idea di togliere di mezzo mio padre, prendendo due piccioni con una fava… Io, davvero… oh, al diavolo! Basta rimuginare, volevo solo godermi quel momento, un momento tanto inatteso e per questa ragione particolarmente esaltante.
    Nessuna donna mi aveva mai fatto un effetto simile. Oph riusciva a buttare all’aria ogni mio freno o paura, sapeva quali tasti premere per far leva sul mio vero essere. Tutto ciò, invece di spaventarmi – in fondo nelle sue mani ero vulnerabile come non lo ero mai stato neppure tra le grinfie di Morgan Senior – mi eccitava, mi faceva nascere brividi sconosciuti, mi riportava alla luce dopo decenni tenebre. E le ragioni le conoscevo bene: mi fidavo di lei; non mi avrebbe mai tradito; sarebbe stata sempre al mio fianco.
    “Voglio stare con te…” mormorai sulla sua bocca, a corto di fiato e di riflessioni coerenti. Una sola certezza: dovevo averla e subito, avevo bisogno di suggellare in ogni modo possibile quella nascente alleanza. E non era da me ricercare il contatto per fare cose del genere… Questa era la dimostrazione di quanto, in questi mesi, fossi davvero cambiato: Jemma non si era sbagliata. Notai anche quanto il suo pensiero non mi provocasse alcun rimorso, anzi… non mi provocava proprio nessun tipo di sentimento.
    “Andiamo in camera mia…” mi rispose Ophelia, altrettanto accaldata.
    Al che mi abbondonai a una risata liberatoria, di quelle che vengono fuori direttamente dal petto e dissolvono persino le più tenaci nubi temporalesche.
    “Vorresti portarmi in camera tua? Si dà il caso che ci sia la tua famiglia in casa… per l’esattezza c’è anche tuo padre, un temibile Gerarc…” Lei fermò il mio inusuale fiume di parole ponendo un dito affusolato sulle mie labbra.
    “Sono un’adulta, caro Leopold, mio padre questo lo sa benissimo!” Aveva replicato con un sorriso che rischiò di abbagliarmi, carico della sua solita ironia e freschezza. Perciò non osai proferire altro, mi lasciai prendere per mano e condurre di nuovo all’interno della villa. La stretta era forte, carica di promesse, tanto quanto i suoi passi erano sicuri: sapevano dove andare. Mi accorsi che le luci della sala dove si era tenuta la cena erano spente, quanto eravamo rimasti in giardino? Ma non ebbi tempo di continuare il pensiero, perché Ophelia aumentò il passo costringendomi quasi a correre per starle dietro.
    “Ehi, piano, hai fatto tanto per evitarmi l’esecuzione… non stuzzichiamo il Fato, ok?” Io che scherzavo? Avevo appena sussurrato quella frase per sottolineare il concetto che fosse meglio non svegliare il sig. McKay, ma Ophelia si voltò con fare sbarazzino e mi mandò un bacio al volo prima di salire – sempre di corsa – le scale e portarmi dritto dritto nella sua stanza da letto.
    Quando chiuse la porta avevamo entrambi il fiatone, ma non per questo osammo arretrare l’uno dall’altra. Mi fu addosso con una passione mista a dolcezza che mi lasciò ancora più senza fiato.
    Respirare, dovevo ricordarmi di respirare.
    Ma non credo che lo feci davvero, volevo solo baciarla, sentire il suo sapore, imprimere nelle mie cellule la sua essenza e far sì che anche a lei accadesse lo stesso.
    Le sfilai il corto vestito con una fluidità che non credevo di avere: mi muovevo con sicurezza, le dita sapevano dove cercare pelle e dolci anfratti, sapevano come trarne piacere e provocarne. E già questo di per sé era ben più che anomalo.
    “Zitto, Leo, anche in queste situazioni ti metti ad analizzare?” mi ammonii coi pensieri, decidendo finalmente di spegnere del tutto il cervello e lasciare fare all'istinto, una volta tanto.
    Ophelia dal suo canto aveva già terminato di levarmi quegli stessi abiti che avevo scelto con così tanta cura. Solo qualche ora prima non avrei mai immaginato che avrebbero fatto questa fine.
    Ci sdraiammo tra lenzuola profumate, mentre con le labbra vezzeggiavo un dono che avevo così a lungo atteso e con le mani provocavo gemiti tanto seducenti da non riuscire più a controllarmi.
    Diventare una cosa sola fu naturale, quasi come se lo facessimo da secoli e stessimo solo operando un rituale antico come il mondo. Muoversi a quello stesso ritmo antico fu altrettanto sorprendente. Raggiungere l'apice in un urla soppresse, labbra artigliate, respiri rubati fu invece la coronazione di un sogno.
    Le mie preghiere si stavano esaudendo, avevo trovato un angolo di giustizia in cui riposare e non aveva i contorni di una lama o di una fune. Mia madre ne sarebbe stata contenta… mia madre avrebbe adorato Ophelia, e mi resi conto di ricordare di nuovo la sua voce mentre mi diceva: ”Ben fatto, Leo. Sii felice, adesso!” E no, non l'avrei delusa.
     
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