Edward & Nike Origins

Earth Prime

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    Bristol, 1703
    Bristol era una città molto più divertente di Swansea. Ci eravamo trasferiti solo da pochissimo tempo, ma già avevo scoperto un sacco di cose con cui divertirmi quando venivo al mercato cittadino per vendere i nostri prodotti. Mio padre mi aveva affidato questo compito perché ero molto bravo a mercanteggiare e non era facile fregarmi; avevo i miei modi per convincere le persone. Avevo notato che con le mogli mi bastava fare un sorriso in più per superare le loro obiezioni, mentre con i mariti difficoltosi mostrare prepotenza e sicurezza li faceva stare buoni e accettare i miei prezzi. Che poi, la merce che avevo da offrire era ottima, e lo sapevo, quindi non contrattavo più di tanto.
    Avevo un'idea in testa stamattina, dopo aver venduto quello che avevo portato al mercato vicino al porto: nelle vicinanze conoscevo una locanda, la Auld Shillelagh, che vendeva birra, e volevo berne un boccale. Tutto liscio e pianificato: già me la pregustavo.
    I montoni che avevo portato stavano brucando tranquillamente in un cespuglio lì vicino, e io osservavo il viavai di gente in mezzo alle bancarelle senza particolare interesse, avendo occhio solo per quelli che avrebbero potuto essere miei clienti: tanti mercanti, molte persone di ogni tipo, da quelle povere che elemosinavano per mangiare a quelle che possedevano addirittura carrozze e servitù in abbondanza, alle guardie. Quelle erano le peggiori per i miei gusti: solo buone a oziare tutto il giorno o a compiere il loro dovere con cattiveria e angherie.
    Nonostante alla mia famiglia non mancasse mai il cibo, certo non ci potevamo permettere di abitare in case piene di comodità, ma mia madre diceva sempre che era più importante essere onesti e rispettosi della legge di Dio, per vivere nel modo migliore e più decoroso.
    Io avevo idee un po' diverse, e ben chiaro in testa che non sarei mai stato un pecoraro come mio padre. Avrei cercato e trovato la mia occasione nel mondo, mi sarei fatto strada in mezzo alle persone più importanti diventando ricco e potente.
    All'improvviso, un'ombra coprì il sole. Alzai lo sguardo, e vidi un uomo vestito alla moda, accompagnato da due garzoni. Bene! Questo era il cliente che stavo aspettando, me lo sentivo nelle ossa!
    ”Quanto chiedi per quelle due bestie?”
    Gli risposi il mio prezzo. Era accettabile, erano i maschi migliori del nostro gregge, li avevamo allevati apposta per avere dei ricavi extra da mettere da parte per i periodi di magra.
    Il cliente, che avevo già visto fare affari con altri venditori nei giorni precedenti, fece una smorfia contrariata. Il suo viso indurito e arcigno non mi piaceva per niente, ma ehi, gli affari erano affari, mica me lo dovevo sposare!
    Mi alzai da terra, per portare i miei occhi almeno all'altezza delle sue spalle: ero alto già per la mia età, dieci anni. Volevo che capisse che non ero un bambino da poter fregare!
    L'uomo fece schioccare la lingua, come se avesse preso la sua decisione: ”Facciamo così, ti darò la metà di quella somma. So valutare il vero valore di quello che compro, e non sono venuto qui per farmi rubare del denaro da un moccioso!”
    Tirò fuori dal panciotto elegante un piccolo sacchetto di cuoio e me lo lanciò con sgarbo; contemporaneamente, i due al suo servizio si avvicinarono alle mie bestie e cominciarono a trascinarle via per la corda che avevano al collo. Mi scagliai indignato sul padrone: ”Ehi! Questo non è corretto! Sono io che decido se l'affare mi va bene, e quello che mi hai dato non basta!”
    L'uomo non rispose, si limitò a spingermi lontano da sé, come se puzzassi. Ma non era vero!
    La rabbia esplose nella mia testa: non era solo per l'ingiustizia di tutta la faccenda, ma per il disprezzo che vedevo chiaramente nei gesti di quell'individuo.
    La sua stazza non mi spaventava minimamente, e in un batter d'occhio gli fui di nuovo addosso, questa volta deciso più che mai a farmi valere. Gli centrai la faccia con un pugno violento, facendolo piegare in due, mugolando per il dolore. Nonostante la sua mano che stringeva il naso, c'erano diverse gocce di sangue che macchiavano il suolo.
    Ghignai strafottente: era tutto qui quello che sapeva fare quel galantuomo dei miei stivali? Girai lo sguardo intorno. Ora avevo un altro problema: mentre gli davo la lezione che si meritava, i suoi servi si erano velocemente volatilizzati con i miei montoni. Maledetti!
    Mentre decidevo in che direzione mettermi a cercarli, l'uomo si raddrizzò e cominciò a strepitare, richiamando l'attenzione dei soldati che vegliavano sull'ordine e sulla tranquillità dei cittadini onesti. Erano in tre, e gli sguardi che mi lanciarono non erano dei più amichevoli.
    ”Signor Cobleigh cosa succede? E' stato aggredito da questo piccolo delinquente? Vuole che ce ne occupiamo noi?” Il capitano si era rivolto con tono rispettoso all'uomo, segno che lo conosceva e che avrebbe fatto di tutto per poterselo ingraziare ancora di più.
    ”Mi ha aggredito mentre cercavo di fermarlo! Questo furfante mi ha appena derubato! Mi ha sfilato di nascosto il mio borsellino, ma per fortuna me ne sono accorto in tempo!”
    Mentre parlava, spargeva schizzi di sangue rosso tutto intorno.
    ”Bugiardo!” Ero sempre più arrabbiato. Non solo mi aveva appena portato via i montoni, ma ora aveva il coraggio di raccontare simili falsità!
    Quegli energumeni senza cervello non fecero neanche il tentativo di ascoltarmi, anzi, con molto piacere mi afferrarono saldamente per impedirmi di scappare.
    ”Ci sono troppi delinquenti come te in città, sembra che spuntiate dalle fogne come per magia! Per fortuna, le leggi risolvono presto e bene il problema che rappresentate!”
    Mi sentivo soffocare dalla rabbia e dall'indignazione, ma anche il braccio che una delle guardie mi stava stringendo intorno al collo per tenermi fermo era parte della causa.
    Mi voleva portare in prigione? E poi? Ma io non avevo fatto niente! Perché solo chi era vestito bene aveva il diritto di far sentire la propria voce, di essere ascoltato?
    Mi ribellai, cominciai a scalciare e dimenarmi, provai a colpire quelli che mi tenevano fermi, ma erano troppo forti per me. Se fossi riuscito a liberarmi, sarei scappato a gambe levate, nascondendomi nei mille anfratti della città, e avrei avuto il tempo di poter pensare a come vendicarmi di quel ladro di bestiame.
    Mentre facevo il diavolo a quattro per guadagnare secondi preziosi, vidi una possibilità di fuga: si stava avvicinando, forse attirato dal rumore che facevo, un piccolo gruppo di persone. I loro vestiti erano davvero eleganti, sembravano persone influenti. Se fossero intervenuti, anche solo per soddisfare una loro curiosità, avrebbero distratto le guardie a sufficienza per permettermi la fuga.
    Urlai fortissimo, anche se la gola mi faceva un male tremendo, e raddoppiai gli sforzi per divincolarmi. Non ci riuscii, ma il mio tentativo non fu inutile: avevo attirato l'attenzione di quelle persone, che si stavano avvicinando.


    Edited by Illiana - 9/7/2020, 09:29
     
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    Il caldi raggi del sole accarezzavano soavi la pelle del mio viso. Avevo abbassato le palpebre e sollevato il mento in direzione dell’astro infuocato, per godere a pieno del tepore che donava. Il mio pianeta di provenienza, Giove, era troppo distante dalla stella dorata e dunque in nessuna occasione potevamo beneficiare di un simile miracolo. I terrestri invece avevano questa ricca possibilità. La Terra non era né troppo vicina per riceverne del danno, né troppo distante per recepirne i raggi ormai tiepidi ed inutili. Si trovavano in una posizione perfetta e una punta di bonaria invidia si annidò nel mio cuore. Questo era uno dei molteplici motivi che mi spingevano a visitare il pianeta con cadenza regolare. La scusa che propinavo ai tre sacerdoti del Tempio, era supervisionare i progressi del lavoro del nostro avamposto sulla Terra.
    I gioviani, ormai molti secoli prima, per volere del Giudice supremo, mio predecessore, avevano seguito l’esempio dei nostri amici marziani e si erano recati sul pianeta degli umani per fare degli studi. Al contrario di quanto era avvenuto con la stirpe degli Egizi però, Giove aveva proibito in maniera categorica ai suoi “inviati” di fondersi con l’umanità per creare una nuova razza ibrida. Il loro scopo doveva rimanere prettamente scientifico. Il loro fine era studiare e approfondire le relazioni socio-economiche e antropologiche che gli esseri umani sviluppavano tra loro, i loro sviluppi industriali e tecnologici e confrontarli con i nostri. Senza ombra di dubbio, il nostro livello tecnico, di armamenti e di strutture sociali era nettamente superiore, ma era innegabile che questi esseri, in apparenza inferiori, avessero una scintilla magnetica che attirava le popolazioni aliene verso di loro. Io per prima, mi sentivo calamitata dal loro mondo. Non si trattava affatto di essere superiori o inferiori, migliori o peggiori, la cosa che più mi affascinava era il loro essere differenti.
    Sul mio pianeta vi erano delle regole ferree e che tutti i sudditi seguivano incondizionatamente, lungo un’unica direttiva. Ovvio, capitava che ci fossero dei dissidenti, ma venivano puniti e rimessi in riga. Qui non funzionava affatto così… le terre, i popoli, le regole, le lingue, erano variegate e si adattavano ai luoghi in cui ti trovavi. Avevo esplorato in lungo e in largo il pianeta durante le mie “visite”, ed era stimolante poter utilizzare i loro mezzi di trasporto, calarmi nella loro cultura e nelle loro tradizioni che si erano evolute nell’arco del tempo. Ma questo posto, nel Galles, era sempre rimasto il mio punto fermo, qui dove l’avamposto gioviano aveva la sua base. Tutti noi ci eravamo mimetizzati con gli umani, le nostre fattezze estetiche ce lo consentivano. E avevamo dunque creato una piccola società aliena che si era adattata a quella locale. In quest’epoca, nella fattispecie, ci fingevamo dei nobili gallesi ed eravamo conosciuti e rispettati in tutta l’area circostante, così che gli studiosi potevano portare avanti le loro ricerche indisturbati e con la massima collaborazione da parte dei terresti, che, avevamo scoperto, di fronte al denaro e all’interesse personale, diventavano ghiotti come i bambini umani lo sono di dolciumi. Avevamo sfruttato i parecchi secoli di permanenza sulla Terra per equipaggiare al meglio la nostra “base” adattandola alla necessità dei tempi.
    “Miss Morgan”La voce della mia dama di compagnia, mi riportò alla realtà. “Riparatevi sotto l’ombrellino, il sole è insidioso, potrebbe scurire e danneggiare la vostra pelle.”
    Questa era una cosa che proprio non capivo e che mi dava sui nervi… la paura di una pelle più abbronzata, sinonimo di “deturpato”. Le donne dell’aristocrazia di quest’epoca stavano molto attente a mantenere lattea la loro epidermide, in quanto segno di purezza e di “nobiltà”, la pelle troppo scura era tipica delle donne del popolo, di basso ceto e quindi “inferiori”. Almeno era quello che mi era stato spiegato dagli esperti gioviani sugli usi e costumi locali di questo tempo. Ogni volta che venivo sulla Terra, venivo messa al corrente di tutte le novità culturali del luogo, in modo da potermi mimetizzare al meglio, senza destare sospetti. Ma io, non avevo mai accettato quell’insana mania di incipriarmi di continuo il naso, non avevo la minima intenzione di coprire la mia naturale abbronzatura dorata. E soprattutto non volevo privarmi dei miei tanto agognati raggi solari.
    “Dovresti concederti anche tu a questo magnifico tepore, levandoti quel cappellino così ingombrante” risposi piccata, anche se fui fin troppo gentile, quel copricapo era a dir poco ridicolo.
    Avevo preso nota anche del modo di vestire di questo tempo, ma proprio non mi era riuscito di adeguarmi a quelle palandrane a forma di campana, con cerchi di metallo in stile gabbia e sottovesti ingombranti. Ero stata categorica nel voler mantenere lo stile gioviano, con la sua sobria eleganza. Non avrebbe di certo sfigurato. Indossavo, infatti, un abito stile impero, di seta color verde bosco, lungo fino ai piedi, il punto vita era assente, in quanto una fascia di pizzo nero copriva il tessuto verde sul seno e si fermava subito al di sotto, lasciando libero il resto del tessuto di appoggiarsi sinuoso sulle mie forme. La scollatura era a forma di barca e le maniche corte anch’esse di pizzo nero, lasciavano scoperta una buona porzione di pelle sulle braccia e sul decolté. Mi avevano fatto notare che la seta non era un tessuto “da giorno”, ma “da sera”, non era “da passeggio”, ma “da gran gala”, però, per me, non era importante. L’unica cosa davvero essenziale era la mia comodità. Al diavolo le espressioni scandalizzate di Gladys e il disappunto degli studiosi. Ero o no il Giudice Supremo di Giove? Che mi lasciassero in pace con tutte queste regole ridicole. Non stavo mica andando in giro nuda! Infatti, dopo la mia sfuriata, si erano ammutoliti e finalmente ero potuta uscire a fare una passeggiata al porto, dove si teneva il grande mercato cittadino. Acconsentii infine ad un’acconciatura fatta di perfetti boccoli e all’utilizzo di un ombrellino per la buona pace di tutti, altrimenti sarei ammattita e non avrei potuto assecondare la mia naturale curiosità verso quel luogo inesplorato.
    Passeggiavamo lungo la banchina piena di bancarelle e venditori che urlavano la qualità della merce e le offerte che proponevo ai loro possibili clienti.
    All’improvviso, degli schiamazzi concitati calamitarono la mia attenzione e rivolsi lo sguardo alla mia destra verso un capannello di persone che discutevano animatamente. Riaprii l’ombrellino per schermare la vista dalla luce del sole e mi sembrò di scorgere un ragazzino che scalpitava tra le mani di una guardia.
    Non ci pensai su due volte. Mi diressi nella loro direzione, ignorando le esortazioni di disappunto della mia dama di compagnia, che mi “invitava” a lasciar perdere. Che erano certamente questioni di ladruncoli e non erano di particolare interesse per la mia persona. I miei occhi severi si posarono su di lei, fulminandola, ma solo “metaforicamente”, ahimè. Se avessi potuto colpirla davvero con delle scariche elettriche, mi sarei sentita decisamente più soddisfatta.
    “Gladys, fai decidere a me cosa è di mio interesse!” utilizzai acida le sue stesse parole. Mi appuntai mentalmente di togliermela di torno il prima possibile. Proprio non la potevo sopportare.
    Più mi avvicinavo più iniziavo a comprendere ciò che stava accadendo, ma usai tutta l’autorità che in quella città mi era stata concessa per la mia posizione e per la mia ricchezza e intervenni risoluta.
    “Buongiorno signori!” dissi per attirare l’attenzione dei presenti, che si zittirono all’istante, tutti insieme. Mi guardavano, mentre emozioni contrastanti attraversavano i loro volti. Chi era seccato, chi spaventato, chi pronto alla fuga, ovviamente mi riferivo al ragazzino. “Potrei sapere cosa sta accadendo? Con le vostre ciance state contaminando una meravigliosa giornata!” affermai piantando il mio sguardo su ognuno di loro. Vi erano due guardie, un uomo vestito elegantemente, che riconobbi all’istante con Mr. Cobleigh. Un viscido opportunista, che non perdeva occasione per incrementare le proprie ricchezze. Lo avevo catalogato come la feccia della peggior specie. Non mi stupii di vederlo invischiato in una simile circostanza.
    Il bambino aveva smesso di dimenarsi, ma potevo ancora notare i suoi muscoli tesi e scattanti. Attendeva il momento più propenso per darsela a gambe, ne ero certa.
    Sembrava giovane, sebbene apparisse molto alto per la sua età. Era biondo, i suoi occhi erano vispi e, in qualche modo, risoluti. Non aveva neppure per un attimo abbassato lo sguardo e lo aveva incatenato al mio senza mostrare alcun timore o riverenza. “Che tipetto strano” pensai incuriosita.
    “Allora? Qualcuno vuole aprire bocca o devo rivolgermi al vostro superiore, tenente?” incalzai con tono deciso.
    “Certo, Miss…, abbiamo fermato questo ladruncolo, che ha tentato di sottrarre il borsellino al qui presente Mr. Cobleigh. Lui stesso lo ha denunciato, una volta che ha scoperto il tentativo di furto, noi ci trovavamo qui vicino e siamo interv…”
    “E tu, hai qualcosa da dire a tua discolpa?” lo interruppi, rivolgendomi al ragazzino dagli occhi color del mare, che stava sbuffando e fremendo.
    “Che cosa dovrei dire? Un nobile contratta con un onesto venditore, ma siccome il prezzo da pagare non gli piace, gli ruba il bestiame e lo accusa di furto, solo perché si tratta di un ragazzino. A me sembra piuttosto chiaro, ma voi altolocati avete solo un’idea in testa: proteggervi a vicenda a discapito della povera gente. E le guardie fanno il vostro gioco!” rispose spavaldo con il mento all’insù, senza alcuna paura. Adorai quel bambino all’istante. Non lo conoscevo, ma la sua forza d’animo e il suo coraggio mi avevano conquistata. Tuttavia, in quell’occasione, non avevo prove concrete per poter perorare la sua causa, era la sua parola contro quella di Mr. Cobleigh. Odiavo dovermi sottomettere a simili regole, ma non avevo alternative. Il cuore del Giudice Supremo che era in me odiava simili barbarie, sentivo che il ragazzo era innocente, ma la mente doveva rimanere lucida ed affrontare la diatriba in maniera consona al tempo e al luogo in cui vivevo. Non mi trovavo su Giove.
    Di fronte a quelle accuse, Mr. Cobleigh si sentì punto sul vivo.
    “Questo delinquente merita la forca, come tutti i ladri e i bugiardi!” sbraitò, e fece per alzare un braccio per colpire il ragazzo, che era ancora immobilizzato dalle guardie, quindi anche impossibilitato a difendersi. Il piccolo, non usò neppure il riflesso di serrare le palpebre. Rimase lì a sfidarlo con lo sguardo.
    Posai una mia mano sull’altro braccio del nobile e infusi la mia energia su di lui, mandando delle leggere scariche elettriche. Nulla di serio, ma sufficiente a stordirlo senza che si accorgesse del mio intervento.
    “Non esageriamo Mr. Cobleigh. L’impiccagione mi sembra una pena fin troppo dura per un ragazzino, accusato senza avere neppure prove certe dell’accaduto. Dovremmo basarci solo sulla sua “testimonianza”? Mi sembra un po’ poco, ma non possiamo comunque ignorarla, ahimè” dissi serafica mentre l’uomo mi guardava con espressione allampanata. Poi parlai alle guardie con risolutezza. Mi sentivo a mio agio in quel ruolo. Era il mio! “Guardie. Direi che possiamo trovare un’alternativa a questo spiacevole episodio. Se fosse colpevole, meriterebbe di certo una bella punizione, ma la morte… suvvia…” aggiunsi con fare scandalizzato.
    “Ma la Legge dice che va processato per direttissima e impiccato!” intervenne uno dei soldati.
    “Non vi date pena, signori. Mi recherò personalmente dai vostri superiori e intercederò per questo ragazzo. Alla fine, non è neppure riuscito a portare a termine questo ‘presunto’ furto, no?” affermai l’ovvio.
    Vidi i presenti guardarsi tra loro, scioccati dalla strana piega che stava prendendo, ciò che era iniziato come un caso evidente di furto. Mr. Jones mi guardò ancora confuso e annuì, le guardie non poterono fare a meno di assecondarmi, rimettendosi alla mia volontà. Conoscevano bene la mia persona e ciò di cui ero capace.
    “Va bene, Miss Morgan ci dirigeremo al quartier generale. Ha bisogno di una scorta per raggiungerci?” chiese uno dei due, servizievole come un cagnolino ammaestrato.
    “No, ho qui la mia carrozza!” risposi gelida. Poi guardai il piccolo, che fino a quel momento non aveva più parlato, forse spiazzato, forse confuso, forse terrorizzato, non seppi decifrare le sue emozioni. Potei solo perdermi nell’oro blu delle sue iridi in un muto saluto, “un’arrivederci”, forse, che lui interruppe, quando la guardia lo trascinò via con sé.
    “Andiamo, …, Non c’è un secondo da perdere. Fa’ preparare la carrozza. Dobbiamo essere al quartier generale prima di loro. Devo assolutamente vedere il comandante!”
    La mia dama di compagnia mi guardò atterrita, prima di riscuotersi ed eseguire i miei ordini. Io spostai di nuovo l’ombrellino e diedi un’ultima occhiata, socchiudendo le palpebre, alla stella incandescente che era stata testimone di quello strano evento.
     
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    La prigione era piena di ladri e altri fuorilegge in attesa come me della condanna decisa dal capitano delle guardie di Bristol. Io la attendevo da qualche giorno, ormai.
    Mi ero appoggiato alla parete, vicino alle sbarre, per sfuggire il più possibile alla puzza di sporco e di escrementi che rendeva l'aria difficile da respirare. I miei genitori erano appena andati via, il tempo che gli avevano concesso le guardie per salutarmi era terminato. Mia madre piangeva, avevo visto sul suo viso parecchie rughe in più, e gli occhi gonfi di una persona che ha pianto per giorni interi. Mio padre la abbracciava, cercava di starle vicino, anche se pure lui sembrava la tristezza in persona.
    Da loro avevo appreso quale sarebbe stata la mia punizione: grazie all'intervento di una persona molto autorevole in città, la mia pena era diventata quella di imbarcarmi su una nave militare come mozzo, invece che penzolare da una forca.
    Loro erano stupiti e meravigliati del gesto di bontà che uno sconosciuto aveva fatto per il figlio senza chiedere nulla in cambio, come invece era consuetudine, io invece sapevo chi era quella persona: era la nobildonna con il vestito verde che era intervenuta al mercato. Per fortuna lei aveva creduto alla mia innocenza, altrimenti per me sarebbero stati guai grossi.
    L'uomo d'affari che aveva provato a fregarmi non si era più fatto vedere da quel giorno, era sparito così come i miei montoni. La rabbia per la sua prepotenza mi bruciava ancora, ma mi aveva insegnato una lezione importante: solo chi veniva temuto poteva sperare di sopravvivere in questo mondo. Oh, ma io non volevo solo sopravvivere. Io volevo essere rispettato, volevo che nessuno pensasse più di poter mettermi i piedi in testa. Volevo raggiungere una posizione importante nella società, e avrei lavorato sodo per poterla ottenere.
    I miei genitori erano tristi e mi dispiaceva tanto per loro, ma non volevo piangere per non mostrarmi debole. Gli avevo promesso che quando avrei fatto carriera nella Marina Britannica sarei tornato da loro e gli avrei comprato una grande casa in città con l'oro che avrei rubato alle navi spagnole. Sarei tornato anche per Cobleigh, questo era certo. Lo avrei trapassato con la mia spada affilata dopo avergli fatto supplicare il mio perdono.
    Quanto a me, la prospettiva di salire su una grande nave da guerra, di poter navigare l'oceano, di vedere con i miei occhi la distesa blu che finora avevo potuto solo sognare, di poter combattere contro i nemici e di avere la possibilità di provare la vita dei marinai, magari un giorno di essere quello che si occupava dei cannoni, per affondare le navi dei francesi e degli spagnoli, mi sembrava un'avventura super eccitante. E in una piccola parte di me sentivo crescere l'impazienza che questo si realizzasse.
    Nello spazio striminzito che mi ero ricavato e avevo difeso dagli altri occupanti non c'era molto da poter fare anzi, mi annoiavo parecchio. Senza accorgermene, mi ero addormentato, quando sentii chiamare il mio nome.
    Alzai la testa dalle braccia che stringevano le ginocchia, e con la manica ormai lurida mi pulii il viso dai segni delle lacrime secche. Nessuno doveva sapere che ero un tipo che piangeva.
    La bella signora che mi aveva creduto era ferma davanti alla cella. Era venuta per me? Ma allora non tutti i nobili erano persone senza cuore!
    Questa volta era da sola, senza la compagnia della sua dama. Mi sorrise, e la sua voce era dolce e compassionevole, non secca e irremovibile come quando aveva parlato con le guardie e con quel miserabile farabutto.
    ”Volevo sincerarmi delle tue condizioni. Un bambino non dovrebbe stare in mezzo ad altri avanzi di galera come questi...”
    Mi staccai dal muro, avvicinandomi ancora di più alle sbarre. Le afferrai e passai la faccia in mezzo.
    ”Miss Morgan! Potete tirarmi fuori di qui?” Ancora ci speravo, come solo uno sprovveduto può fare.
    ”Purtroppo no, piccolo, non ne ho il potere”
    Sembrava amareggiata nel dirmelo, come se anche lei fosse imprigionata dalle sbarre, come ero io. Forse era così per tutti. Per tutti, ma non per me. Non avevo nessuna voglia di vivere in prigione per il resto della mia vita.
    Feci spallucce in risposta. Non ero troppo scontento di quello che mi aspettava, ad essere sincero.
    ”Beh, non fa niente”
    Mi tirai indietro, abbassando lo sguardo al pavimento, per evitare che un qualche luccichio ingannatore mi facesse fare la figura del rammollito con quella dama altolocata.
    ”Però... ti ho portato questo!”
    Mi porse un pacchetto. Un involto di carta scura, che aprii con curiosità. Sgranai gli occhi, quando riconobbi della frutta candita al suo interno. Non solo avevo un buco enorme allo stomaco – dovevo litigare per riuscire a conquistare un tozzo di pane secco quando le guardie ce lo portavano come cibarie - ma non avevo mai avuto la fortuna di assaggiarla, era una leccornia che potevano comprare solo i benestanti. La divorai in pochi secondi, estasiato dalla dolcezza e dalla morbidezza di quei piccoli pezzi colorati. La cosa più buona che avevo mai mangiato in vita mia, questo era certo.
    Guardai di nuovo la signora. Si era accucciata davanti a me, senza curarsi dello sporco in cui era finito l'orlo del suo vestito, e mi osservava sempre con quel sorriso dolce. Le sorrisi di rimando, con la bocca sporca di zucchero.
    ”Grazie... di aver fatto cambiare idea al capitano. Almeno non morirò impiccato...”
    E lo intendevo davvero. I miei genitori mi avevano insegnato la buona educazione e la riconoscenza, e loro stessi avevano usato parole di gratitudine per la persona che aveva convinto il tutore della legge a concedermi una seconda possibilità.
    Miss Morgan allungò una mano ma si fermò a mezz'aria, perché la avevo guardata truce: non ero un cane da compagnia da accarezzare, né un moccioso da consolare. Ormai mi consideravo un mozzo della Marina di Sua Maestà.
    Quando si congedò mi rintanai di nuovo nel mio angolino, ignorando le occhiate di invidia e risentimento degli altri detenuti. Mi dispiacque vederla andare via, per il tempo in cui era stata lì aveva coperto con il suo buon odore il puzzo della prigione. Un profumo di fiori e piante che non avevo riconosciuto, diverso da quello di pulito del sapone di sego.
    Passai in quel buco ancora tre lunghi, noiosissimi giorni. Poi, la HMS Intrigue, una fregata di quinta classe della Royal Navy, salpò dal porto di Bristol diretta nelle Indie Occidentali, con me a bordo.


    Edited by Illiana - 29/5/2020, 16:39
     
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    Una fitta di dolore lancinante mi accecò per un momento. La strada di fronte a me si oscurò e temetti di essere sul punto di perdere i sensi. Strinsi i denti e obbligai il mio corpo a resistere. Un passo dietro l'altro... il sangue continuava a gocciolare senza che potessi fare nulla per evitarlo. La semplice pressione della mia mano era insufficiente.
    “Ma chi diavolo erano quei tizi? E perché ci hanno attaccato? E ancora… perché il sito risultava sigillato con metodi e tempistiche differenti dalle nostre?" Troppe domande per le quali non avevo risposta e i pensieri iniziarono a vorticare feroci nella mia mente, ritornando agli eventi che avevano mandato la nostra missione in malora.

    Mi trovavo insieme ad un gruppo armato gioviano, con al seguito una piccola squadra di esperti, che nei secoli passati, avevano portato avanti le ricerche sulla Terra. Era stata presa una decisione molto importante su Giove: non vi era più nessun interesse a rimanere sul pianeta degli umani. Gli studi e i progressi si erano conclusi e non vi erano altri motivi per proseguire. Era da circa cinque anni terrestri che avevamo iniziato la "ritirata", provvedendo a svuotare i laboratori che avevamo allestito con il tempo e recuperare tutta la nostra attrezzatura, che per tecnologia e struttura era decisamente più avanzata di quella presente sulla Terra di fine 1700. Se solo gli umani fossero venuti in contatto con i materiali gioviani, probabilmente sarebbero impazziti per tentare di capirci qualcosa. Si sa... le conoscenze superiori alle proprie capacità mentali possono portare solo alla follia.
    Mi ero recata in quell'angolo di mondo per sbaraccare un sito molto importante, rimasto inutilizzato da almeno cento anni, ma che, nonostante tutto, non potevamo lasciare in mano ai terrestri.
    Avevo deciso all'ultimo minuto di aggregarmi alla spedizione. Erano quindici anni terrestri che non mettevo piede sul Pianeta Blu e ne sentivo la mancanza. Come Giudice Supremo di Giove nessuno aveva osato contraddirmi, nonostante fosse del tutto anomalo che il "regnante" di un pianeta del Sistema Solare si imbarcasse per una missione di recupero materiali. Ma, per fortuna, i sacerdoti del Tempio oramai erano adusi ai miei piccoli attimi di ribellione e mi avevano lasciato fare, finché non avessi messo in pericolo la mia vita. Che cosa sarebbe potuto succedere durante una semplice missione di "svuotamento".
    Giungemmo al Porto con la nostra piccola nave, avevamo lasciato poco prima un'Isola minuscola, assente dalle carte geografiche del periodo dove avevamo nascosto la nostra navicella, per poter poi rientrare su Giove. Port Royal era una cittadina deliziosa con la sua atmosfera esotica e accogliente. L’oscurità incombente del crepuscolo era rischiarata dalle illuminazioni esterne dei locali che riempivano il lato opposto della banchina. La via era poco trafficata, vi erano solo alcuni pescatori di ritorno con i loro pescherecci e poi... non potei evitare di soffermarmi ad osservare una nave gigantesca, un Brigantino a due alberi battente bandiera nera, era maestoso. Ne rimasi affascinata. Il mio ufficiale in seconda mi riscosse e mi esortò a proseguire. Eravamo abbigliati con abiti civili terrestri, ma non potevamo comunque rischiare di dare nell'occhio.
    Finalmente arrivammo al nostro laboratorio, posto in una strada laterale che finiva in un vicolo cieco. Vi si accedeva da un'entrata minuscola all'esterno per poi svilupparsi quasi a perdita d'occhio nei sotterranei dell'edificio. Notai subito qualcosa di molto strano... la porticina anonima all'apparenza, era ricoperta da legname e materiale di scarto, a celarla alla vista. La serratura era sbarrata con delle solite catene, fin troppo recenti rispetto a quando i gioviani avevano abbandonato il sito. Era chiaro che qualcuno, dopo di noi, era entrato nel nostro luogo di ricerca e chissà cosa aveva scoperto. Una viscida sensazione di allarme mi strisciò sotto pelle. Dovevamo entrare!
    "State all'erta! Persone a noi sconosciute hanno violato il laboratorio in nostra assenza, e dopo ne hanno sigillato l'entrata, forse per proteggerne il contenuto" dissi convinta. Se avessero semplicemente rapinato il posto, non si sarebbero preoccupati di serrare l’ingresso. Inoltre, vi erano altissime probabilità che stessero sorvegliando il posto, anche se non ne avevo la certezza, non conoscendo il momento in cui avevano fatto irruzione nel sito gioviano.
    “La fattura delle catene non è molto vecchia. Riportano solo lievi tracce di ruggine, devono averle messe, o forse cambiate da poco. Non possiamo saperlo con certezza!” intervenne, compìto, uno degli studiosi del gruppo.
    “Andiamo! È molto probabile che buona parte della nostra strumentazione sia rimasta all'interno. Dobbiamo portare via almeno il materiale più 'avanzato'. Gli umani non possono venire a contatto con la nostra tecnologia. Sarebbe una catastrofe." La mia voce era ferma. "Facciamo in fretta, potrebbero addirittura averci visti qui fuori!" conclusi concitata.
    Incurante dei rischi e del poco tempo a disposizione, posai le mani sulla chiusura e infusi la mia energia con una potente raggio termico. Portai il metallo al punto di fusione fino a che cedette, tintinnando ai miei piedi.
    Entrammo nel laboratorio e gli esperti al mio fianco si misero a scartabellare per poter capire se mancasse qualcosa di importante.
    "Sembra che abbiano lasciato tutto come lo hanno trovato. Non capisco..." disse lo stesso che aveva parlato all’esterno. "È evidente che chi è entrato qui non è un ladro. E non ho la più pallida idea di cosa abbiano pensato di fronte a simili strumentazioni" concluse allibito.
    Aveva ragione. Il luogo era stato trattato al pari di un “tempio”. Era in ordine e pulito, quasi in maniera maniacale. A detta di un altro gioviano, gli oggetti erano esattamente come loro li avevano lasciati. Probabilmente, non avendo compreso il reale significato e uso di quel posto, avevano trattato tutto con la massima cura, quasi si trattasse di reliquie. Quella “visione” un po’ ignara e per forza di cose arretrata, ci faceva più che comodo, consentendoci di poter recuperare ciò che ci apparteneva di diritto.
    Un tonfo improvviso attirò la mia attenzione, mi resi subito conto che i due gioviani lasciati di guardia erano stati assaliti, poi vidi sbucare dalla stretta apertura quattro uomini corpulenti e vestiti con abiti locali. Un cappuccio calato sul volto ne oscurava i lineamenti, armati fino ai denti, con pistole e sciabole. Sembravano ombre che si muovevano leste ed era complicato poterne seguire gli spostamenti. In pochissimo tempo ci accerchiarono, sbarrando con la loro presenza l’unica via di fuga.
    “Chi siete?” ci urlarono contro. “Siete in un luogo proibito!”
    Ci avevano chiaramente scambiati per degli intrusi e consideravano il “nostro” laboratorio una “loro” proprietà.
    Che cosa avrei dovuto rispondere? Non potevo certo palesare la nostra natura gioviana, né tanto meno dare informazioni sulle tecnologie che ci circondavano. Era meglio che pensassero a loro come delle reliquie e a noi come dei ladri? Tutto avvenne in maniera fin troppo rapida. Uno dei miei, armato di una pistola tipica di quel tempo, attaccò, colpendo uno di loro di striscio ad un braccio. Il suo urlo di dolore mi perforò il petto. Non doveva andare così, dannazione! Avremmo dovuto passare inosservati.
    Ebbe inizio una feroce battaglia in cui combattemmo strenuamente, ognuno con i mezzi a disposizione. Io mi ero munita di spada e affrontai uno di quegli strani uomini incappucciati. Era abile e la scherma non era una disciplina in cui brillavo. Avevo escluso categoricamente l’uso dei miei poteri, altrimenti avrebbero scoperto la nostra provenienza aliena, e nel peggiore dei casi ci avrebbero trattato come dei mostri. Inorridivo al solo pensiero.
    Evitai uno dei colpi del mio avversario scartando sulla destra e girando su me stessa per non perdere l’equilibrio. Mi attaccò ancora e questa volta parai lesta facendo stridere le lame. Pareva una lotta impari a mio sfavore, ma stavo resistendo bene, mentre tutt’intorno si era scatenato l’infermo. Potevo udire urla e lamenti di dolore e di morte. Mi incupii e tentai di non abbassare la guardia, ma il mio nemico era veloce e una mossa rapida del suo braccio, quello libero dalla spada, mi prese alla sprovvista. Una lama corta, nascosta sotto al suo avambraccio scattò e mi infilzò all’altezza del fianco, sulla parte sinistra. Il dolore fu straziante, ma ebbi la prontezza di spirito di allontanarmi da lui, quel tanto che bastò ad evitare che affondasse ancora di più nel mio ventre dandomi il colpo di grazia. Percepii con chiarezza il filo della lama accarezzare la mia pelle e lacerare la mia carne.
    La vista si annebbiò per un istante e poi vidi due gioviani assalire alle spalle il mio avversario. Mi appoggiai a un tavolo lì vicino, imbrattando del mio stesso sangue l’intera superficie, finché non urtai un oggetto con la mano. Era uno schermo di un materiale quasi traslucido, agli occhi degli umani poteva apparire quasi invisibile, ma che assumeva una certa consistenza nel momento in cui si toccava. Ricordai che uno degli studiosi al mio seguito mi aveva istruita sull’importanza di un simile aggeggio, il quale conteneva un cmpendio di informazioni vitali. Era un riepilogo di tutte le ricerche e progressi fatti dai gioviani sulla Terra. Sarebbe dovuto essere il nostro primo obiettivo fin dal nostro arrivo. Compresi all’instante cosa dovevo fare. Il miei uomini si stavano sacrificando per salvare il sapere del nostro Pianeta ed io non avrei potuto essere da meno. Afferrai l’oggetto e mi guardai intorno. Lo scontro ancora imperversava, ma parevano tutti molto occupati e nessuno fece caso a me, quando mi avvicinai all’uscita. Con una certa fatica riuscii ad issarmi fino a raggiungere l’esterno e iniziai a correre come se non ci fosse un domani.


    Non sapevo quanto tempo era passato e per quanto avevo corso. Il fiato corto e la ferita che pulsava erano segnali evidenti che non sarei andata molto lontano ancora. Avevo raggiunto il porto e la mia nave era a circa cinquecento metri da me, a un soffio, ma non rappresentava più la mia salvezza. Ero certa che quegli uomini incappucciati avessero mandato altri di loro a bloccare ulteriori vie di fuga. Non avevo scampo.
    Sapevo bene che anche io ero braccata, forse tutta la mia squadra era perita nel combattimento ed ero rimasta sola con quell’unico oggetto tra le mani. Mi nascosi in mezzo ad alcune cassette di legno prossime alla banchina e all’enorme Brigantino che aveva attirato la mia attenzione al nostro arrivo. Mi stavano seguendo, ne ero certa. Ero ferita e stavo perdendo troppo sangue, non avrei potuto continuare a fuggire per sempre. Calcolai frenetica e col sudore che mi bagnava il viso, che la mia unica possibilità era “sparire”. Non ebbi molto tempo per pensare ai pro e ai contro della mia “decisione”, quando udii dei brusii e degli scalpicci. Erano lì per me. Non persi tempo e con uno scatto che mi costò un violento strappo al fianco, mi alzai ed entrai nell’enorme nave, facendomi scudo tra casse e pacchi imballati alla meglio, attraverso un ponte di legno con solide corde, nella speranza che nessuno mi avesse scorto.
    Con passo felpato mi diressi verso le stive, il punto più lontano dal ponte di comando e dalla confusione. Lì trovai un cantuccio e mi nascosi. Avevo bisogno solo di un po’ di riposo e di tempo per far perdere le mie tracce e poi me ne sarei andata. Stavo per appisolarmi, ormai stremata quando udii una coppia di passi differenti tra loro. Uno più debole e l’altro più pesante, quasi marziale.
    “Ehi mozzo!” urlò una voce tonante. “Si può sapere che diavolo di fine ha fatto il cuoco?! Questa sera resteremo a digiuno?!”
    Mi sporsi leggermente e vidi un ragazzetto dinoccolato, tremare di fronte ad uomo possente, alto poco meno di due metri, era di schiena e potei notare solo i suoi capelli biondo cenere lunghi fino alle spalle e la sua ragguardevole stazza.
    Quando il ragazzo gli diede responso negativo, lui alzò le braccia in segno di frustrazione e si voltò per tornarsene da dove era venuto. “Tu non sai mai niente, mai!” tuonò. E quando fu vicino alla mia postazione nascosta, un minuscolo particolare mi colpì dritto al petto, lasciandomi disorientata: i suoi profondi occhi color del mare.


    Edited by SydneyD - 9/7/2020, 09:52
     
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    La Jackdaw rimase attraccata poche ore alle banchine di Port Royal. Il tempo sufficiente per farmi un giro nella cittadina e raccogliere voci e informazioni su un convoglio navale molto ricco, che avrebbe dovuto essere già in mare da qualche giorno, diretto a L'Avana. Ma non era destino che riuscissimo a mettere le mani sul prezioso carico che trasportavano, non per il momento, almeno. Le navi erano tuttora alla fonda nel porto di partenza di Caracas a causa di un imponente uragano che imperversava nel mare dei Caraibi.
    Imprevisti del mestiere. Avrei potuto rimanere a terra ancora qualche giorno, ed evitare alla Jackdaw di affrontare il maltempo che si prospettava, ma qualcosa mi spingeva a salpare, e il più velocemente possibile. Era una sensazione sottile e minacciosa, una campana d'allarme che mi suonava in testa, un disagio a fior di pelle. Fatti e situazioni stavano avvenendo nell'ombra fitta della sera e potevano diventare pericolosi; erano indizi vaghi, che registravo automaticamente nel cervello: un bisbiglio inatteso, scalpiccii veloci, occhiate sospettose lanciate a chiunque fosse straniero.
    Raggiunsi il porto senza dare l'idea che avessi urgenza, ma la avevo eccome. Con un preavviso minimo lasciammo Port Royal con le sue stradine sterrate, le case colorate e la certezza che serbasse guai che non mi sarebbe piaciuto districare.
    Dopo che avevamo preso a sufficienza il mare, diedi l'ordine di lascare le vele, per evitare che il vento forte che si stava alzando le potesse danneggiare. Ecco l'uragano che si muoveva a elevata velocità verso di noi. In meno di mezz'ora ci fu addosso.
    Il cielo notturno, coperto da spesse nubi che toglievano ogni visibilità, rovesciava fiumi di pioggia, con un vento ululante che pareva la voce dei demoni dell'inferno. Un tempo da cani per navigare ma un ben piccolo disagio per chi come noi pirati aveva il mare nel sangue.
    Il problema era di altro genere. Il presentimento spiacevole nelle ossa persisteva e l'acqua che scorreva in spessi rivoli lungo la palandrana, i capelli, il collo non era sufficiente per lavarlo via. Era la sensazione di un pugnale puntato allo stomaco; il mio intuito sopraffino non mi aveva mai tradito. Non si invecchiava nella nostra professione, se non si possedeva quello. Ed io era già molti anni che solcavo i mari seminando morte e terrore a vario titolo, buscandomi solo una serie di cicatrici che si confondevano facilmente con i tatuaggi presenti sul torso e le braccia di ogni marinaio.

    All'inizio, quando ero solo un mozzo inesperto e imberbe, le nostre scorrerie con la HMS Intrigue erano benedette da sua Maestà Re Giorgio. La lettera di corsa ci riconosceva il privilegio di abbordare i mercantili spagnoli e depredare il loro bottino per la gloria dell'impero britannico.
    Mi ero fatto notare per il fervore con cui lavoravo, e avevo fatto carriera. Il mio grado nella gerarchia era inferiore solo agli ufficiali, quei damerini figli della nobiltà che si annoiavano nelle loro dimore lussuose e credevano di vivere un'esistenza avventurosa arruolandosi nell'esercito. Qualcuno poteva anche trovarla se per sbaglio avesse avuto la stoffa necessaria.
    Poi, nel 1713, era stato firmato il Trattato di Utrecht, che poneva fine alla guerra tra Inghilterra e Spagna e rendeva illegale quegli atti ostili tra i due regni.
    Cosa avrei dovuto fare, tornare a fare il contadino, dopo aver assaggiato la libertà e l'avventura per mare? Non mi trasformai dall'oggi al domani in un pirata fuorilegge per mia volontà. Non fu una scelta, la mia. Io continuai semplicemente a fare quello che sapevo fare così bene. Erano i nobili con la parrucca incipriata, che avevano i muscoli flaccidi e le menti altrettanto deboli, che avevano deciso per noi.
    Così, con un gruppo di ex marinai britannici con le mie stesse idee ci organizzammo. Il primo atto ufficiale di pirati lo compimmo a l'Avana, dove eravamo sbarcati dall'Intrigue, poveri e disoccupati. Ci impossessammo di un brigantino inglese, che ribattezzammo Jackdaw, un piccolo uccello nero presente nel Galles che mi era simpatico quando ero bambino.

    L'oscurità era fitta, ancor più che durante una notte senza luna, e la pioggia battente copriva ogni altro rumore. La visibilità era ridotta, le sentinelle facevano il loro turno sulla coffa, ma io non ero tranquillo. Avevo comunicato la rotta da seguire al mio secondo e continuavo a stare in coperta, esposto al maltempo, a camminare per il ponte scandagliando il buio pesto. I miei occhi rimanevano acuti nonostante la cortina d'acqua che offuscava tutto.
    Adéwalé, il mio quartiermastro, mi seguiva, instancabile anche lui. Non faceva tante parole, spesso bastava uno sguardo per intenderci. Era con me dall'inizio della mia carriera di fuorilegge; lo avevo riscattato a modo mio da un mercante di schiavi a cui avevamo alleggerito il veliero su cui viaggiava di un po' di cose: l'oro, la sua mercanzia, la vita. È risaputo che il commercio è rischioso, vero?
    Stavo scrutando il mare dal fianco di tribordo, quando notai una piccola imbarcazione affiancata alla nostra. Avevo visto quel legno, era attraccato al porto senza alcun equipaggio, ma ci aveva sicuramente seguito. I guai di Port Royal erano arrivati a destinazione.
    Non notavo nessuno a guardia della barca, ma non erano lì che da pochi minuti. Feci un gesto di avvertimento ad Adéwalé e ci dirigemmo correndo verso il boccaporto per scendere in stiva. Rumori soffocati dal frastuono della pioggia ci guidarono verso lo scontro con i nemici. I bastardi si erano fatti strada fino alle zona delle amache, trovando una ventina di uomini che dormivano. Quando giungemmo a dare manforte, il combattimento era già nel vivo. Difficile capire quanti fossero, ma entrammo subito in azione.
    Uno degli aggressori squarciò con un colpo netto la gola di Trafford, il mio carpentiere. Il poveraccio sussultò qualche secondo, zampillando sangue come una fontana, prima di finire di soffrire. Senza esitare, il suo assassino si rivolse verso di me, attaccandomi.
    Mi aggrappai ad una trave e colpii a piedi uniti la faccia di quel bastardo, mandandolo a schiantarsi su un gruppo di barili che non ressero l'urto e sparsero il contenuto sul pavimento.
    Mi stupii che si rialzasse: avevo sentito con chiarezza la mandibola cedere sotto le suole dei miei stivali e di solito nessuno aveva la forza di continuare a rompermi le scatole. Peggio per lui.
    Iniziammo a combattere, lasciando la sciabola e le pistole al loro posto. Entrambe le armi avevano grossi svantaggi a usarle in un posto così ristretto e affollato. Parai e schivai i suoi attacchi sfruttando abilmente gli intralci che le colonne, le casse e i barili mi offrivano. Approfittavo con astuzia di ogni occasione per assestargli qualche colpo nei punti deboli che avevo individuato. Stranamente, questi individui non indossavano corazze o protezioni, ma solo una specie di divisa chiara, fatta da tessuti grezzi, con un cappuccio a nascondergli la faccia. Assomigliavano a certi popoli indigeni della penisola dello Yucatan.
    Nonostante la mia destrezza faticai parecchio per vincerlo. Tenevo gli occhi fissi sui coltelli che aveva alla cintura, e quando ne tirò fuori uno per colpirmi, mi abbassai velocemente. La lama si conficcò nel legno dello scafo dietro di me, ma io riuscii ad afferrargli il braccio destro, bloccandolo tra il gomito e il torace. Gli bloccai anche quello sinistro allo stesso modo quando tentò di farmi mollare la presa. Eravamo abbracciati come due amanti. Gli sferrai una testata mirando di nuovo al suo mento, anche se dovetti abbassarmi sulle ginocchia, visto che era poco più basso di me. Questa volta sì che lo stordii a sufficienza. Afferrai la corda che reggeva una delle amache, gliela girai velocemente intorno al collo mentre mi portavo dietro di lui. Strinsi la presa sulla fune facendo leva con il ginocchio puntato sulla sua schiena. Smise di dibattersi dopo pochi secondi.
    Controllai lo scontro. C'erano diversi corpi a terra, ma ne vidi solo uno con gli indumenti chiari degli assalitori. Maledizione.
    Mi gettai in aiuto di un compagno che si batteva da solo ed era parecchio in difficoltà. Attaccai l'avversario da dietro, portandogli il braccio sul torace per bloccarlo e impedirgli i movimenti, ma quello fu veloce come una biscia. Si liberò della mia presa con una facilità che non avrei mai creduto, e con lo stesso movimento lanciò un coltello che centrò l'occhio di Blaney. Registrai un particolare che avrebbe creato dei problemi: era mancino. Sfoderai il mio coltello a lama lunga. Questo era peggio dell'altro.
    Mentre mi gettavo all'attacco, lanciai un urlo spaventoso. Ero furioso per l'attacco della Jackdaw, per la perdita dei miei uomini, per essere stato così ingenuo da farmi prendere alla sprovvista.
    Combattei con una furia selvaggia, cercando di prevedere le sue mosse ma facendo in modo che soprattutto le mie non fossero prevedibili, usai tutti i trucchi che avevo imparato in anni di arrembaggi e scontri sanguinari. Il sudore si mischiava con il bagnato dei miei vestiti. In un secondo di pausa, utile solo a studiarci alla ricerca dell'esitazione che sarebbe stata fatale per uno dei due, mi accorsi che gli altri aggressori erano stati sconfitti, anche se a costo salato per il mio equipaggio. Rimaneva solo lui, e questo fatto non sembrava intimorirlo o scoraggiarlo in alcun modo. Era un pazzo? O tipo un combattente vudu, di quelli che entravano in uno stato di trance durante il combattimento? Ne avevo sentito parlare e conoscevo quello stato di alterazione: alcune volte anche a me era capitato di spegnere il cervello e ricordarmi chi ero solo quando il ponte della nave che stavamo abbordando era spopolato e scivoloso per il sangue che lo ricopriva.
    Ma i suoi tratti, anche se in ombra per via del cappuccio e dell'illuminazione fioca della stiva, non avevano nulla dell'allucinato. Anzi, sembrava concentrato, meticoloso e deciso.
    La sua mossa non mi prese alla sprovvista, anche se capii davvero cosa aveva fatto quando sentii scorrere il sangue lungo il costato. Aveva una lama nascosta in mano o da qualche altra parte, con cui colpirmi e ci sarebbe anche riuscito, se non fossi stato più veloce e furbo di lui. Mentre mi spostavo di lato, anche se non a sufficienza per non guadagnarmi un'ennesima cicatrice, passai velocemente il coltello nella mano sinistra, e con la destra libera gli afferrai l'avambraccio. Prima che potesse metterci una pezza, gli stavo puntando alla giugulare la punta affilata della lama. Non potei fare a meno di sogghignare a meno di un soffio dal suo viso.
    ”Sorpreso, selvaggio?”
    Lo colpii con violenza alla tempia, facendolo schiantare come un sacco di patate. No, non lo avrei ucciso come avrebbe meritato. Avevo un'idea migliore, perché non mi era sfuggito il suo ruolo nel gruppo. Era il loro capo, e magari qualcuno disposto a pagare oro sonante per riaverlo indietro lo avremmo trovato. In caso contrario, avrebbe respirato solo qualche settimana in più.
    Mi guardai intorno cercando di valutare i danni subiti. Contai i nostri caduti. Dieci. Blaney, Trafford e altri otto membri della ciurma. Erano buoni compagni e ottimi marinai, e adesso avrei dovuto rimpiazzarli velocemente.
    Nella mischia, una parte delle nostre riserve di rum e acqua si erano sparse, i barili distrutti. Dovevamo per forza tornare alla base, a Great Inagua: non avremmo avuto molta autonomia senza provviste.
    Il pensiero che avevamo ucciso tre degli assalitori e catturato uno di loro non aiutava minimamente a migliorare l'umore, che stava diventando nero e tempestoso come l'uragano che imperversava fuori.
    Diedi ordini secchi agli uomini rimasti in piedi: ”Perquisiteli prima di buttarne in mare i corpi. Quanto al loro capo, perquisite anche lui, ma poi mettetelo in catene, vicino a dove posso vederlo ogni volta che voglio. Incatenatelo all'albero maestro. L'aria fresca gli farà bene!”
    Scossi la testa.
    ”Preparate anche i nostri compagni per la sepoltura in mare. Gli riconosceremo tutti gli onori per il loro comportamento coraggioso”
    Vidi Adéwalé al mio fianco. Anche lui aveva combattuto con coraggio, e si era beccato solo un piccolo taglio al braccio. Dalla sua espressione capii che non portava buone notizie. Quando sarebbe finita questa maledetta storia?
    ”Capitano, abbiamo anche trovato un clandestino a bordo”
    Come sempre il suo tono era calmo, asciutto, fermo. Non aggiunse altro, perché ormai mi conosceva troppo bene. Quando avevo quella luce negli occhi, chiunque aveva imparato a starmi alla larga. Solo lui osava intervenire, e solo quando era una faccenda vitale. E questa, perdio, la era.
    ”Dove si trova?”
    Sibilai aggressivo. Fece solo un cenno dietro la sua schiena, dove era raccolto un gruppetto di pirati, a circondare il ratto che si era infiltrato sulla Jackdaw. Arrivai a passo pesante dietro di loro, li spostai di forza e così facendo riuscii a vedere una forma rannicchiata dietro delle casse di provviste. Osservai con le vene che pulsavano furiose la piccola sagoma, con i vestiti sporchi di sangue. Stava per esplodermi il cervello quando notai che le forme erano esili e morbide, chiaramente femminili. Un clandestino e per di più una donna!
    Il silenzio si era fatto così concreto che l'ululato dell'uragano parve allontanarsi spaventato. Gli uomini erano in attesa della mia reazione. Chiaramente già conoscevano la punizione spettante a chi compiva uno dei reati peggiori nel codice dei pirati. Ebbene: anche noi avevamo le nostre leggi, e le facevamo rispettare in maniera spietata.
    La donna alzò gli occhi. Non notai timore o paura in lei, solo stanchezza.
    Però qualcosa balzò davanti a me. Un viso conosciuto. Perché io non dimenticavo mai un volto, soprattutto se era di una persona a cui dovevo molto. A cui dovevo la vita.
    La mia mascella si rilassò, il sangue pompò più lentamente nelle vene. Ero quasi sorpreso che il caso me l'avesse di nuovo messa sulla strada, ma così era.
    Diedi voce ai miei pensieri con tono lento e sornione, mentre un sorriso storto si faceva strada sulla bocca:
    ”Che mi venga un colpo se non è Miss Morgan, il mio clandestino!”


    Edited by Illiana - 6/6/2020, 19:57
     
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    Il rollio della nave mi cullava, mi coccolava e mi induceva in uno stato di torpore fatto di dolore e di incubi. Non appena mi ero accucciata in un quel nascondiglio, circondata da casse e barili, prima di crollare, mi ero tolta la giacca e avevo fatto pressione sulla ferita ancora sanguinante. Quel maledetto liquido vermiglio non voleva saperne di smettere di gocciolare. Mi aveva intriso l’ampia camicia e i pantaloni maschili che avevo messo in occasione della missione. Non avrei certo potuto indossare gli ingombranti abiti che in quell’epoca usavano le signore, ma a ben pensare, forse con un busto rigido dei loro, magari avrei anche potuto evitare quel dannato taglio. Non era molto profondo e non sarebbe dovuto essere mortale, se solo avessi avuto la possibilità di usufruire di una buona medicazione e di scampare ad un’inevitabile infezione, ma le condizioni in cui mi trovavo non erano “normali” e non avevo i mezzi per sottarmi dal morire dissanguata. Potei solo sperare che la mia tempra di “Eterna” mi portasse a resistere, in attesa di una buona occasione per fuggire.
    Adesso ero come immersa in una trance provvidenziale che non aveva allontanato la sofferenza, ma l’aveva attutita, come se fosse imbevuta di un anestetico molto potente. Ero troppo debole per oppormi e mi feci trasportare dalla scia di immagini che mi investii come un colpo di cannone. Il laboratorio, i miei compatrioti che combattevano, che morivano, che si sacrificavano per il bene comune, la lama che mi infilzava senza pietà e la fuga, una fuga che in questa dimensione parallela in cui mi trovavo, non aveva mai fine e poi… in fondo alla via due enormi occhi color del mare che mi attiravano a sé come fossero delle calamite. Più proseguivo lungo la strada, più quegli occhi si allontanavano da me. Perché volevo raggiungerli? Perché li sentivo tanto familiari…? Le mie elucubrazioni senza senso non avevano via d’uscita e mi sentii in trappolata da incubi che sapevo coscientemente di vivere, ma che non potevo impedire che mi catturassero.
    Improvvisamente, il mio sonno accidentato venne interrotto da un fortissimo strattone ad un braccio. Tornai alla realtà e mi guardai intorno spaesata. Ricordai quanto era successo e il motivo per il quale mi ero nascosta. Notai con crescente sgomento due particolari: uno, la nave era salpata, non sapevo quando e da quanto, ma era in viaggio. Non mi ero resa conto di nulla, immersa nella foschia della mia mente indebolita. Due, avevo di fronte quattro uomini incappucciati, di cui due mi tenevano saldamente per le braccia, dopo avermi sollevata in malo modo da terra.
    Erano i miei inseguitori, mi avevano trovata, ma come avevano fatto se la nave era in navigazione? Erano alleati dei pirati del Brigantino, mi avevano raggiunta via mare, abbordando la nave? Non mi era dato sapere e tanto meno mi sarei affannata a porre quelle domande, certa di non ricevere alcuna risposta.
    “Dove si trova la reliquia?” mi disse uno di questi, sottovoce. Perché mormorava? “Avanti, non agire in modo stupido, non hai via di scampo. Se vuoi continuare a vivere, dicci dove hai nascosto la tavoletta!” continuò imperterrito. Io mi sentivo confusa e non riuscivo a respirare bene. Ricordavo di aver nascosto l’oggetto gioviano sotto ad una cassa rialzata dal suolo, nella parte opposta a dove mi ero accucciata. Evidentemente, avevano cercato “su di me”, convinti che non me ne sarei separata, e avevano ragione, non lo avrei mai fatto davvero, ma non ero tanto stupida. Nelle mie condizioni avrei anche dovuto prendere qualche precauzione, qualora avessi perso il controllo della situazione.
    Ancora il loro mormorio mi insospettiva… allora li provocai, parlando con un normale tono di voce.
    “Come se lasciarmi vivere fosse una possibilità valida per voi. Mi uccidereste in un secondo, dopo aver avuto l’informazione” faticai a parlare. Non ero in me, ma dovevo capire…
    Colui che mi afferrava da destra, mi strattonò con forza e mi trascinò dietro agli stessi barili dove avevo trovato rifugio. Udii dei movimenti alle nostre spalle e gli incappucciati che si e mi nascondevano come degli “intrusi”.
    “Ascoltami bene! Dacci quello che vogliamo e ti lasceremo andare per la tua strada. Non c’è tempo per le domande e ne avremmo anche molte. Prendilo come uno scambio. La tua vita per la reliq…!”
    Non gli diedi il tempo neppure di finire la frase, non avevo nessuna intenzione di fare patti con loro né di abbandonare la tavoletta nelle loro mani. Sarebbe stata una catastrofe per l’evoluzione umana, che avrebbe fatto scempio di quella gioviana. Mi appoggiai di schiena e con entrambi i piedi, feci ruzzolare a terra gli uomini che mi erano più vicini e che mi minacciavano. Mi alzai di scatto, sebbene la ferita urlasse pietà e prendendoli alla sprovvista, mi mossi rapida. Sapevo di non avere via di scampo, ma speravo di fare un gran baccano per attirare coloro, che ormai ero certa, non sapevano nulla dell’intrusione di questi simpatici signori, né della mia d’altro canto. Ma ci avrei pensato in un secondo momento.
    Un terzo incappucciato mi afferrò per la caviglia e mi fece capitombolare in avanti e feci appena in tempo a proteggere il volto con le mani protese, nella rovinosa caduta. L’addome continuava a pulsare e a sanguinare senza sosta. Percepii l’uomo sopra di me, che mi copriva la bocca e mi puntava una lama alla gola. Era finita, stavo per morire, ma da me non avrebbe avuto nessuna informazione. Al diavolo tutti!
    “Scelta sbagliata, ragazza! Faremo da soli” e udii la punta della lama accarezzare la mia pelle e percepii gocce di liquido caldo solcarla. Chiusi gli occhi, divincolarmi non sarebbe servito a nulla. Non avevo le forze per contrastare la mole di quell’uomo sopra di me. Mi rassegnai, quasi sollevata per non dover più sentire dolore o subire attacchi, ma il mio sollievo nella morte durò poco e, dall’altro lato, si animò per una probabile salvezza.
    “Chi è là?!” urlò qualcuno alle nostre spalle. “Uscite allo scoperto, non costringeteci a venirvi a prendere.” Dire che erano in collera era ben poca cosa, erano furiosi.
    Con ogni probabilità, il tonfo della mia caduta magistrale e lo schiamazzo della nostra discussione, che sarebbe dovuta essere “silenziosa”, non erano passati inosservati. “Per fortuna!”
    L’uomo che mi teneva sotto minaccia di un pugnale ebbe la buona coscienza di non uccidermi e di sollevarmi con lui, rivelando la nostra presenza dinnanzi a coloro che ci reclamavano con giusta ragione.
    Ormai erano stati scoperti, o meglio, “eravamo” stati scoperti e al tensione era alle stelle. I quattro uomini volevano evitare lo scontro. I pirati, almeno quelli accorsi, erano almeno venti, erano vestiti ed equipaggiati alla meno peggio, ma non per questo erano meno agguerriti.
    “State indietro…!” urlò l’uomo che mi puntava la lama alla gola. Un estremo tentativo per farli retrocedere, nella lontanissima speranza che io fossi una loro “protetta”, sebbene era chiaro come il sole che ero una clandestina a bordo, tanto quanto loro, visto che avevano preso possesso della mia imbarcazione al porto.
    “Chi diavolo siete?” urlò un pirata, dando l’ordine al resto del gruppo di avanzare e così fecero all’unisono. Allora gli incappucciati non ebbero altra via d’uscita se non la battaglia; la fuga era fuori discussione. Il mio aguzzino mi afferrò per le spalle e mi spinse con una tale violenza che mi scaraventò addosso a un pirata che si stava facendo troppo vicino, questi, di rimando mi sbalzò via con un braccio e mi fece atterrare su dei barili vuoti di schiena, li rovesciai e nonostante l’impatto straziante per il mio corpo già martoriato, ebbi la prontezza di spirito di mettermi al riparo e sottrarmi al vivo della battaglia. Non ero in condizioni di combattere, né tanto meno, avrei potuto competere con tutti quei nemici. Io avevo ben due schieramenti contro. Non se ne parlava. Anche nel mio caso la fuga sarebbe stata impossibile. Pur sfruttando il marasma generale, ci trovavamo in alto mare e quindi decisi di accucciarmi lì, nella speranza di trovare presto una soluzione che mi pareva così tanto lontana quanto improbabile.
    La battaglia infuriava senza esclusione di colpi e rimasi allibita nel vedere come i quattro incappucciati si mostrassero abili nel fronteggiare il triplo degli uomini, inferociti per giunta, ma altri pirati arrivarono in soccorso dei compagni e non ci fu storia. Benché fossero ben addestrati, la ferocia dei corsari era difficile da contenere. Uno in particolare lottava come una furia, con affondi, montanti e la sua prorompente forza bruta e poi lo riconobbi, attraverso la mia vista, che si faceva sempre più annebbiata. Era lui, l’uomo dagli occhi color del mare. Anche con i lineamenti stravolti dalla collera e dalla concentrazione, non potevo non riconoscerlo. Pensai di nuovo al bambino che avevo salvato ben cento ottant’anni prima contando lo scorrere del tempo su Giove. Ripensai al suo cipiglio, alla determinazione e alla convinzione di diventare qualcuno, che mi aveva mostrato nelle prigioni di Bristol. La montagna di muscoli che combatteva di fronte ai miei occhi me lo ricordava moltissimo, ma poteva essere lui? Che vita aveva fatto, perché era diventato un pirata? Un fuorilegge… dovevo sapere, volevo sapere… ma chi ero io per voler conoscere il suo passato…
    All’improvviso, l’uomo dai capelli biondi si fiondò in aiuto di un suo compagno. Sobbalzai e un rantolo strozzato uscì dalla mia gola quando lo ferirono a un fianco, ma lui non cedette, come se si trattasse di un semplice graffio. Riuscì a catturare il nemico, forse i capo degli incappucciati, senza ucciderlo e cominciò ad urlare ordini alla ciurma. Io mi feci piccola piccola, sapevo che non si sarebbero dimenticati di me, ma lo sperai, inconsciamente, con tutta me stessa.
    Un paio di pirati mi vennero incontro, sapevano bene dove mi trovavo. Solo non mi avevano ritenuto una minaccia fino ad allora.
    Non ne potevo più di essere sballottata a destra e a manca e quasi li ringraziai quando si limitarono a fare capannello su di me, lasciandomi esattamente dove mi trovavo.
    Il mio cuore perse un battito quando i miei occhi stanchi e rassegnati si fissarono in uno sguardo cobalto e ogni dubbio che avevo avuto fino a quel momento si diradò come nebbia al sole.
    “Che mi venga un colpo se non è Miss Morgan, il mio clandestino!”
    La sua espressione era attonita e canzonatoria, preoccupata e adirata e… felice? Tutto allo stesso tempo. Non avrei mai creduto che un volto umano potesse ospitare così tante emozioni contrastanti. Io, di rimando, ammutolita. Non era mio costume avere relazioni con gli umani. Nessuno si sarebbe dovuto ricordare di me, ma con lui era stato diverso. Il bambino di quindici anni prima era in pericolo di vita, ma non mi sarei mai aspettata di incontrarlo di nuovo. Cosa avrebbe pensato di me? Io ero identica alla donna che aveva conosciuto nella sua infanzia e adesso lui era un uomo fatto e finito.
    L’unico modo che avevo per non impazzire di fronte a tutte quelle riflessioni era fingere… di non ricordarlo? di non averlo riconosciuto?
    Lo rimirai abbassando la testa da un lato, come a richiamare immagini lontane nel tempo.
    “Cosa avete Miss Morgan. Non mi riconoscete? In effetti, sono passati parecchi anni e… tante cose sono cambiate…” disse indicando se stesso e quanto era “cresciuto”. Non potevo dirgli che per me erano passati quasi due secoli, ma che lui era comunque marchiato a fuoco nella mia memoria.
    “Chi siete?” mantenni un tono diffidente e severo, anche se ero certa di non essere in condizioni di mostrare autorità. Ero in uno stato pietoso e per di più clandestina, ma ci provai…
    Una fragorosa risata risuonò nelle stive e rimbalzò sui volti stupiti dei pirati che ci circondavano.
    “No avete affatto perso il vostro modo di fare, nonostante le ‘circostanze’?” disse rimarcando l’ultima parola. “Sono il capitano Edward Kenway, al vostro servizio, signora!” Il suo tono era ironico e pareva che avesse bisogno di quella forzata ilarità per sopportare tutto ciò che aveva affrontato negli anni che ci avevano separato e per sfidare i demoni che erano giunti in quella notte di tempesta a prendersi le vite dei suoi compagni.
    Un pirata della ciurma era inquieto e si stava spazientendo di fronte allo strano atteggiamento del proprio Capitano. Mi afferrò con forza per un braccio e mi fece alzare. Non potei soffocare un grido di dolore, sebbene ci avessi provato. Le mie membra erano rigide e non rispondevano più ai comandi. Per restare in piedi un altro uomo mi sorresse dall’altro braccio.
    “Capitano! Conosci questa donna? È una clandestina… Dovremmo farla ballare sulla tavola e liberarci di lei, magari… dopo che ci siamo divertiti! Non capita tutti i giorni di avere davanti un bel bocconcino come lei” affermò sguaiato uno al mio fianco, prima di avvicinarsi al collo per “annusarmi”. Io mi ritrassi inorridita, ma non potei fare molto, la loro morsa era salda. Se solo avessi potuto usare i miei poteri, gli avrei fatto vedere io chi osavano chiamare “bel bocconcino”.
    “Non osare avvicinarti…” dissi con voce più sottile di quanto avrei voluto. Le mie forze stavano per scemare e non mi reggevo più sulle gambe. Una cosa in particolare mi spinse a non cedere: il mare silenzioso di poco prima, nello sguardo di Edward, si era appena trasformato in una furiosa tempesta. Io non ero riuscita a comprenderne il motivo, ma era chiaro che gli uomini al mio fianco, avessero capito al volo l’espressione del loro Capitano, rimpiangendo la loro avventatezza. Infatti, mollarono di colpo la presa sulle mie braccia, come se fossi fatta di lava bollente ed io, che mi ero appoggiata fin troppo a loro, caddi in terra con un tonfo sordo. Poi… rimasi muta e incredula…
     
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    La piega che aveva preso la situazione riusciva a divertirmi e interessarmi, anche se avevo più motivi per fare una sfuriata colossale e memorabile al primo che mi fosse passato sotto mano invece che per organizzare una festa per gli amici che si ritrovano dopo anni.
    Presi la mano di Miss Morgan e la tirai su dal pavimento senza tanti complimenti. Non gliela lasciai, ma la alzai in alto, girandomi verso l'equipaggio. Notai che era presente quasi al completo, escludendo i marinai che avevano il compito di amministrare la navigazione e non si potevano allontanare dal proprio posto per la durata del loro turno.
    Sorrisi. Alzai la voce, sottolineando il mio annuncio con tono pomposo e solenne, mischiato alla dose necessaria di teatralità che scorreva nel sangue di ognuno di noi: ”Signori, questa donna che vedete qui è Miss Morgan. Da questo momento in avanti dichiaro che è sotto la mia protezione, fino a che la sua presenza sarà a bordo della Jackdaw. Con questo intendo che alla signorina non dovrà essere torto un capello o rivolta alcuna attenzione non desiderata da voi animali e depravati”
    Guardai negli occhi ognuno di loro, per accertarmi che il messaggio fosse arrivato. Alcuni erano di scarso comprendonio. Udii dei commenti perplessi in sordina, quindi continuai: ”A chi si chiede il motivo di tanta cura e benevolenza che mostro nei suoi confronti, sappiate che Miss Morgan ha salvato la vita, alcuni anni or sono, al vostro Capitano. Ha impedito che la mia carriera di pirata finisse ancora prima di iniziare presso una forca di Bristol!”
    I mormorii dubbiosi si trasformarono in esclamazioni, qualcuno applaudì, altri fischiarono di approvazione. Funzionava così tra pirati: il comandante della nave aveva l'ultima parola, anche quella di vita o di morte su ogni individuo a bordo, ma non vantava una posizione di superiorità come nelle gerarchie militari. Il capitano era uno tra pari. Doveva mantenere la loro approvazione, con ogni mezzo, se voleva evitare di essere sostituito. Il mio carisma mi permetteva di avere un controllo saldo su di loro, ma li rispettavo, e mai avrei fatto in modo di perdere a mia volta il loro rispetto.
    Aspettai qualche secondo che l'entusiasmo scemasse, poi mi girai verso Adéwalé, il mio fido braccio destro.
    ”Fai accomodare miss nel magazzino a poppa. Chiudi a chiave la porta e lascia un uomo di guardia. Per stanotte di sorprese ne abbiamo avute d'avanzo!”
    ”Ma..."
    Miss Morgan protestò indignata, ma il mio sguardo la bloccò provvidenzialmente. La pazienza era sul punto di esaurirsi, e non avrei tollerato anche dei capricci isterici. La apostrofai con trattenuta ostilità, cercando di mediare tra la rabbia e l'obbligo di riconoscenza: ”Vi ho salvato la vita, come voi lo avete fatto anni fa. Sono un uomo che onora i suoi debiti, e io ho saldato il mio. Ma qui finisce. Vi siete rifugiata di nascosto sulla mia nave, avete attirato morte e distruzione su di me e sul mio equipaggio. Non posso dimenticarmene. Mi prenderò cura di voi fino a che non sbarcheremo a destinazione, e poi deciderò cosa fare per ripagarci di tutto!”
    (...)
    Ci liberammo subito dei corpi dei nemici, lanciandoli in mare con molto poco garbo tra schiamazzi e invettive. Su di loro trovammo solo armi, coltelli da lancio e una lama molto particolare, che si estraeva da un parabraccio fatto di cuoio rigido e assicurato al braccio con cinghie. Era un coltello che trovai geniale come ideazione, e me ne presi uno, indossandolo soddisfatto. Era una ben misera ricompensa per le perdite subite, ma dovevo accontentarmi. Mi sarei esercitato per usarlo in battaglia, sarebbe stata un'ottima risorsa per sorprendere i miei avversari, così come avevo scoperto a mie spese.
    Il funerale dei nostri caduti venne compiuto all'alba. Fu una cerimonia solenne ma di breve durata: i corpi vennero fatti scivolare fuori bordo dopo aver recitato la Preghiera dei Morti. Era una cerimonia che avveniva spesso, considerato quanto rischioso fosse il nostro mestiere.
    Facevo fatica a stare immobile in piedi a causa delle ammaccature e del taglio che mi ero procurato durante lo scontro. La ferita sul torace aveva smesso di sanguinare perché la camicia si era appiccicata alla pelle e fungeva da fasciatura, ma dovevo rivolgermi ad Adéwalé e alla sua bravura nel ricucire lembi di carne prima che si infettasse. Dopo.
    Avvisato da una vedetta, puntai il cannocchiale a est, verso il sole nascente. Quasi all'orizzonte, vidi sfilare in formazione perfetta il convoglio navale a cui avevo dato la caccia per settimane. Rispetto alle informazioni che possedevo, era formato da due mercantili in più, tutti battenti bandiera spagnola. Contai anche le navi da guerra che lo scortavano. Troppo numerose per pensare di farla franca con i loro cannoni, tanto più che il mio equipaggio era decimato e non avrei avuto uomini sufficienti per coprire i posti alle manovre e la squadra per l'abbordaggio. Seguii per qualche minuto il nostro prezioso bottino veleggiare tranquillo verso la sua meta. Restituii il cannocchiale al nostromo e calai un pugno sull'impavesata. Tutta colpa dei guai di Port Royal.
    Diedi le spalle al mare e mi avvicinai all'albero maestro, dove era incatenato l'unico superstite dell'aggressione. Mi accovacciai davanti a lui. Il prigioniero mi rivolse uno sguardo tranquillo e fermo, quasi di rimprovero.
    ”Sono il capitano Edward Kenway”
    ”So chi sei capitano Kenway. Il mio nome è Ah Tabai”
    ”Bene, Ah Tabai... però ho bisogno di qualcosa di più da te. Per esempio, sapere il motivo che vi ha fatto credere che potevate attaccare senza conseguenze una nave di pirati”
    Non ottenni risposta.
    ”La donna che abbiamo trovato a bordo c'entra qualcosa con voi, non è vero? Stavate cercando lei... e con tanta veemenza da non curarvi di chi siete andati a stuzzicare. Quindi, quello che volevate era più prezioso delle vostre vite. Di cosa si tratta? Quando vi abbiamo scoperto, non lo avevate ancora trovato, perché né tu né i tuoi compagni lo avevate addosso”
    Amavo mettere in difficoltà i miei interlocutori, anche se erano impassibili come questo.
    ”Provo a indovinare: qualche idolo che venerate? Niente di meno, sono sicuro. Siete dei selvaggi timorosi e incolti”
    ”Abbiamo i nostri principi, ma non siamo dei selvaggi come credi. Siamo mossi da grandi ideali. Combattiamo perché tutti gli uomini siano liberi”
    ”Splendido! Allora siamo fratelli! Ti stringerei la mano, se non te le avessi legate!”
    Risi con pesante sarcasmo. Ciononostante, la sua calma e compostezza mi stuzzicavano, e volevo andare a fondo della faccenda. Ripresi in modo più conciliante, ma non meno rude:
    ”Anche noi pirati cerchiamo la libertà dalle oppressioni e vogliamo agire secondo i nostri ideali...”
    ”Allora forse non siamo così diversi come paiamo”
    ”Beh, andiamoci piano con l'affiatamento, amico. Parliamo della vostra reliquia. Quanto è preziosa?”
    ”Hai ragione, capitano. Quello che ci è stato trafugato è qualcosa di prezioso, ma gente come voi non se ne farebbe niente, perché non è fatto d'oro né di pietre preziose”
    ”Decido io cosa è prezioso e cosa no!”
    Ah Tabai annuì, poi i suoi occhi si abbassarono sui miei polsi.
    Hai indosso la Lama Celata. Sappi, capitano, che non è un semplice oggetto”
    ”No, non è una semplice lama. Ora è la mia!”
    Mi rialzai.
    ”Non temere, non abbiamo ancora finito. Tornerò a chiacchierare con te, è una promessa!”
    Avevo molti indizi in mano, e un'idea che mi invitava e attirava come il canto di una sirena. Forse da questo casino avrei potuto ricavarci qualcosa di interessante, ma dovevo muovermi con furbizia. Scesi le scalette per raggiungere il magazzino di poppa.


    Edited by Illiana - 22/6/2020, 10:41
     
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    Roberta
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    Finalmente sola. Dopo il trambusto della battaglia tra i pirati e gli uomini incappucciati, mi avevano rinchiusa nel magazzino di poppa – così lo avevano chiamato – e avevano poi tentato di medicarmi la ferita. Uno di loro aveva portato tutto il materiale adeguato e pareva volesse mettersi di impegno, ma io mi opposi con tutta la veemenza di cui ero capace e, di certo, per non contraddire “la protetta” del loro Capitano, alla fine avevano capitolato e se ne erano andati rassegnati a svolgere le altre mansioni che il Comandante gli aveva intimato.
    Capitano Edward Kenway. Ancora non potevo credere a come il fato mi avesse raggirata. L'unica volta in cui avevo trasgredito le regole, mischiandomi agli umani, doveva passare inosservata, doveva essere ormai morta e sepolta. Non avrei mai creduto che il bambino che avevo salvato tanto tempo fa, fosse lì davanti a me, ormai cresciuto, ormai uomo.
    Mi sentivo esausta, la ferita, per fortuna aveva smesso di sanguinare, ma ero certa di essermi beccata una brutta infezione. Il mio corpo era forte e guariva in fretta, ma dovevo almeno dargli uno straccio di medicazione, altrimenti non avrebbe retto in eterno, ne ero consapevole.
    Mi sollevai la blusa che indossavo e diedi un'occhiata. Non riuscivo a vedere granché, il sangue sgorgato era copioso e in alcuni punti si era seccato, coprendo la lacerazione. Non avevo materiale medico per pulirla e poter capire in che stato fossi… sbuffai spazientita. La spossatezza mi stava sopraffacendo. Non riuscivo a pensare lucidamente, le mani tremavano e iniziavo a vedere chiazze scure. Sperai con tutta me stessa che l'infezione non stesse facendo troppi danni. Mi abbandonai su dei sacchi di iuta, ripieni di qualche tipo di cereale, erano scomodi, ma non era certo il momento di lamentarsi. Ero stremata fino alle ossa, le mie membra urlavano pietà, avrei dormito solo un pochino, quanto per riprendere le forze, poi avrei pensato a tutto il resto.
    […]
    Non so quanto tempo era passato, ma dei rumori circostanti mi svegliarono. Avevo freddo e tremiti fortissimi mi scuotevano facendomi battere i denti. Ero febbricitante… ma dovevo ritrovare un minimo di senno altrimenti sarei rimasta vittima dell'assurda situazione in cui mi ero cacciata. Sollevai le palpebre e mi guardai intorno. Una figura alta, imponente, si stava avvicinando. Non mi fidavo ancora dei miei occhi, dunque afferrai una scheggia di legno che giaceva al mio fianco e la brandì come arma. Non sapevano di cosa fossi capace. Avrei potuto sfruttare l'effetto sorpresa e difendermi da chiunque stesse per attaccarmi…
    “Ehi, ehi… Miss Morgan, andateci piano, ok? Nessuno vuole farvi del male qui.” La sua voce diradò la nebbia, era come se la conoscessi da sempre e potessi riconoscerla anche “ad occhi chiusi”. Era bassa, roca, musicale. Era Edward.
    Lasciai andare il braccio di schianto, come se avessi sollevato un enorme e pesante sacco. Di lui potevo davvero fidarmi? Mi aveva salvato la vita, ma avrebbe potuto fare di tutto dopo aver saldato il suo debito. Non avevo idea di che uomo fosse diventato e vedendo la strada che aveva intrapreso dopo la Marina Britannica, non avrei dovuto affidarmi a lui, ma allora perché, per quanto tentassi di erigere delle barriere, puntualmente si sgretolavano in mille pezzi?!
    “Edward.…” dissi con un filo di voce. Era dolce pronunciare il suo nome.
    Lui mi squadrò da capo a piedi e dall'espressione che vidi sul suo volto, non doveva avere di fronte un grande spettacolo.
    “In che stato sei ridotta? Avevo dato ordini che ti medicassero le ferite.” Una rabbia cieca aveva reso il suo tono più gutturale, come il ringhio di una fiera.
    “Non ho voluto che mi toccassero… scusa per la poca fiducia… Non credo di essere in me, non gli ho neppure detto di lasciarmi il materiale medico… che stupida, avrei potuto cavarmela anche da sola” dissi parlando a fatica e continuando a battere i denti.
    Si era accovacciato accanto a me e mi guardava con occhi indagatori, ma preoccupati al tempo stesso. Era troppo vicino, ed io ebbi un fremito, che si confuse con la valanga di tremiti che mi avvolgevano da troppo tempo.
    “Vado a chiamare il mio secondo, hai bisogno urgente di cure, se non vuoi morire di infezione.” Pareva fosse adirato, ma non avevo ben capito il motivo. Era tutto rallentato, anche la mia mente lo era…riuscii, però, ad afferrarlo per il braccio prima che si sollevasse sulle gambe e lo trattenni debolmente. Avrebbe potuto sottrarsi in qualsiasi momento alla mia presa, ma non lo fece.
    “Chiedi solo il necessario per medicarmi. Ci penserò io…” affermai decisa. Non avrei cambiato idea, nessuno di loro mi avrebbe toccata. Nonostante fossi in preda a una febbre debilitante, non avrei mai acconsentito.
    “La vostra ostinazione è ammirevole, Miss Morgan, ma non vi salverà la vita!” disse secco prima di alzarsi e allontanarsi per pochi attimi.
    Ero pronta a ribellarmi ancora se fosse stato necessario, ma lui tornò solo. Sospirai, sollevata che mi avesse dato retta. Non ci speravo…
    All'improvviso mi sentii sollevare come se fossi una foglia sospinta dal vento e non da due braccia forti e muscolose. Ero accoccolata al suo petto, pareva fossi fatta della stessa sostanza delle nuvole adagiata sulla solida roccia di una montagna. Edward mi aveva presa in braccio e mi aveva poi distesa su delle casse di legno ricoperte di iuta. A malapena mi ero resa conto di ciò che aveva fatto.
    Provai a protestare quando lo vidi armeggiare con un panno pulito e una ciotola di ceramica con dell'acqua calda.
    “Dai a me, posso fare io” dissi testarda, ma troppo debole per supportare le mie parole con i fatti. Allungai una mano per prendere la stoffa umida, ma lui mi scansò fin troppo gentilmente, rispetto a quanto avrebbe voluto.
    “Non fate troppe storie miss Morgan. Ci penserò io a voi e non dovrete preoccuparvi di nulla. State tranquilla.” Il suo tono era indignato e poco si abbinava alle parole che aveva pronunciato e che avrebbero dovuto essere “confortanti”.
    Feci per oppormi… ancora, ma questa volta lui mi afferrò il polso e si avvicinò al mio viso.
    “So che non vi ricordate di me, che non vi fidate e che mi mandereste volentieri al diavolo, ma adesso non avete scelta. Avete la febbre e dobbiamo ripulire la ferita. Siete troppo debole per farlo da sola. Abbiate l’onestà di ammetterlo. A fare gli eroi non ci si guadagna un accidente. Credetemi!” Il blu dei suoi occhi scintillava e mi stava ipnotizzando con se fosse un mago ingannatore.
    Nulla aveva senso, nulla di tutta quella follia che stavo vivendo pareva reale. Il destino si era beffato di me e continuava a schernirmi attraverso questi sentimenti impazziti che mi divoravano il petto.
    Mi lasciai andare sulla seduta solida e lo lasciai fare, ero troppo stanca per continuare a ribellarmi. I fremiti erano sempre più frequenti e faticavo a mantenere la mente libera da scene allucinanti… strinsi i denti e mi aggrappai invece al suo sguardo attento e ai suoi movimenti calcolati. Non potevo perdermi, non volevo…
    Attraverso i miei occhi offuscati dalla sofferenza e dalla temperatura corporea troppo alta, lo vidi sollevare l'ampia camicia, senza però scoprire i seni, la lasciò lì piegata. Corrugò la fronte e fece una smorfia con le labbra. Era una scena orribile, lo sapevo. Bagnò il panno con l'acqua ormai tiepida e iniziò a pulire il mio addome. Lo fece con una delicatezza che non gli avrei mai attribuito, e infatti capii dal suo impaccio che non era solito impegnarsi tanto in una medicazione. Finché restò sulla pelle circostante la ferita, andò bene, ma quando dovette pulire e disinfettare la profonda lacerazione, un dolore lancinante mi invase, come se un milione di spilli arroventati mi avessero infilzata tutti assieme. D'istinto afferrai con forza il suo braccio e mi morsi un labbro a sangue. Non riuscivo ad urlare, ma lo strazio era accecante.
    “Resistete, abbiamo quasi finito” mi disse contrito, mentre imperterrito continuava a medicarmi. Si occupò anche di un taglio sul braccio, di un’escoriazione allo zigomo, e della lacerazione al collo che l'uomo incappucciato mi aveva procurato nelle stive.
    Io ero già in una dimensione parallela. La sofferenza che avevo patito mi aveva costretta ad estraniarmi dal mio corpo e il delirio aveva preso il sopravvento. Continuavo a vedere la battaglia, i gioviani cadere, il sangue, la lama che mi infilzava e il coltello che mi tagliava la gola… immagini che in sequenza si susseguivano e mi torturavano. Poi una mano avvolse la mia e mi condusse di nuovo alla realtà.
    Svegliarmi fu un trauma ancora più grande perché se prima il dolore era nella mia testa, adesso ero tornata a provarlo fisicamente, ma ne fui felice. Scoprii che Edward non si era allontanato. Era seduto al mio fianco e mi osservava con sguardo enigmatico. Ero molto brava a comprendere le persone, ma lui era così pieno di emozioni che mi disorientava. Non ero in grado di capire cosa pensava, forse era preoccupato, o avrebbe anche potuto odiarmi. Ero in alto mare al suo cospetto… e non in senso letterale.
    “Non mi sono dimenticata di te…” dissi all'improvviso, e sentii le mie corde vocali raschiare.
    “Eccovi… siete tornata da me, Miss Morgan” rispose con un sorriso sghembo che avrebbe potuto illuminare l'intero magazzino. O forse avevo ancora le allucinazioni?
    “Mi ricordo del bambino che ho salvato al porto… sei tu” continuai quasi stessi recitando un mantra, incurante delle domande che sapevo si era fatto sul mio conto e che mi avrebbe presto rivolto.
    “Bene… avrei capito se non mi avreste riconosciuto, io sono cambiato molto, ma voi… non potrei dire lo stesso” affermò con tono indagatore pur mantenendo un velo di ironia.
    Mi stupii a pensare che adoravo il suo sorriso. Ricordavo il suo volto da bambino, ma lo avevo scorto sempre adombrato, scontroso o triste fino alle lacrime per ciò che stava vivendo. Era per questo che sentivo una morsa al petto quando rideva? Ero felice di avergli dato l'occasione di farlo, o c'era dell'altro?
    “Devi sapere che hanno fatto delle nuove scoperte in fatto di estetica. Maschere di argilla e fanghi miracolosi… diciamo che mi sono presa cura di me…” mentii spudoratamente, non avrei mai potuto rivelargli la mia natura gioviana. Tanto non mi avrebbe creduto, piuttosto mi avrebbe dato della pazza. Sorrisi… “Tu… sei cresciuto bene, vedo che hai fatto ‘carriera’ dopo la Marina!” tentai di sviare il discorso.
    E lui, per l'ennesima volta, si accostò al mio viso, sfoggiando un altro dei suoi sorrisi maledetti, mandando in tilt il mio respiro, fino a quel momento ben controllato. Maledissi me stessa e il ritmo del mio cuore che non riuscivo a tenere a bada. L’avrebbe udito quel boom boom frenetico, tanto era vicino? “Stai calma, Nike, cosa ti sta succedendo? Torna in te!” mi esortai con veemenza.
    “Facciamo che fingo di crederci e che per il momento non approfondirò la cosa. Ci sono argomenti più urgenti di cui dobbiamo discutere…”
    Questa volta, la sua voce fu un misto di ironia e ansia e i suoi occhi cobalto brillarono di curiosità.
     
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    :Edward:
    Il magazzino era illuminato a malapena da una piccola lampada ad olio, ma individuai subito la donna seduta per terra, appoggiata ai sacchi di provviste. Le sue condizioni parevano peggiorate e capii la ragione quando mi disse che aveva rifiutato le nostre cure. Avevo sbagliato a valutare la situazione, e immaginare che le facce sporche e feroci dei miei uomini sarebbero passate in secondo piano davanti all'urgenza di medicare le sue ferite. A quel punto, mi adeguai alle sue richieste, dato che le alternative sarebbero state meno desiderabili.
    Rintracciai Adéwalé in coperta, che fissava a distanza il prigioniero. Gli spiegai la situazione con la nostra ospite. Scosse la testa desolato.
    ”C'è ben poco che possiamo fare, se l'infezione si è estesa al corpo o se è stata ferita da una lama avvelenata...”
    Era pensieroso più del solito, e sembrò cambiare argomento, quando invece seguiva il suo filo di pensieri. ”Li abbiamo combattuti questi uomini, e c'era in loro qualcosa che andava oltre la semplice spietatezza. Erano motivati, determinati e animati da un fervore inusuale. Credevano di combattere per una giusta causa: ho sentito il vostro colloquio di poco prima, Capitano”
    Tagliai corto, volevo solo delle medicazioni ed ecco che il mio quartiermastro iniziava a filosofeggiare! Avevo ben altro che mi premeva. Non sapevo quale sarebbe stato il destino di quella donna, ma non avrei accettato che morisse perché non avevo mantenuto la mia parola di prendermi cura di lei.
    Tornai velocemente con acqua calda e bende pulite. La medicai come meglio sapevo fare, e lei seppe resistere al dolore come avevo visto fare solo agli uomini più coraggiosi. Alla fine perse conoscenza, e forse fu meglio così, perché potei finire quel lavoro ingrato con più meticolosità.
    Svenne, oppure riposava, oppure era nel torpore che accompagnava la morte: troppi compagni se ne erano andati alla stessa maniera, lasciando poco alla volta e pacificamente questo mondo. Adéwalé aveva aggiunto, mentre mi dava ragguagli: ”Fossimo sulla terraferma, avremmo cercato un medico ma qui... l'unica cosa che possiamo fare è pregare”
    Pregare? Non ero un buon cristiano come avrebbe voluto mia madre, e le preghiere erano solo una litania imparata a memoria per fare scena durante le celebrazioni. Non trovavo conforto in tale pratica, ma... se non potevo fare altro per Miss Morgan, allora avrei pregato.
    Era debole come un cucciolo, ma la forza la dimostrava in altri modi. Mi piaceva Miss Morgan, non era solo per la riconoscenza che le dovevo. Mi piaceva perché era impavida, orgogliosa e... misteriosa.
    Passarono lentamente alcune ore, il sole filtrava tra le assi dello scafo. Alla luce che aumentava, la osservai da vicino. I capelli non avevano fili bianchi, la pelle era liscia e tesa come quella di una ragazza, le labbra piene e non segnate da imperfezioni. Le mani perfette e affusolate come quelle di una persona di alto rango, quale lei era. Come era possibile che non fosse cambiata di una virgola, che fosse uguale a come la ricordavo? Era una cosa così assurda che quando era comparsa oltre le schiene dei miei uomini, nonostante i capelli scarmigliati e l'incarnato pallido, non avevo avuto il minimo dubbio sulla sua identità. Un'incantatrice con dei poteri misteriosi: come poteva dimostrare meno di trent'anni quando avrebbe dovuti averne molti di più? E quanti di più?
    Si risvegliò sentendosi toccare la mano. Ero sollevato. Maledizione se lo ero. Se avesse superato quelle ore, forse c'erano speranze che sarebbe guarita, ma i suoi occhi, anche se stanchi e cerchiati, avevano riacquistato la scintilla che ricordavo quando la avevo conosciuta. Una scintilla combattiva e caparbia. Che donna incantevole e affascinante che era...
    Mi confessò di avermi riconosciuto, nonostante avessi messo su un bel po' di muscoli e ferocia, negli anni passati in mare. Ne ero immotivatamente felice. Ricordavo quell'aristocratica così bella ed elegante, ricordavo il senso di inappagamento che mi lasciava il ricordo di bambino sporco e solo. Ero cambiato, sì. Ero diventato ricco e temuto, avevo fatto tanta strada come progettavo. E no, non ero più tornato in patria. I miei piani di vendetta li avevo messi da parte, così come i ricordi dei miei genitori.
    Ma non era a questo che volevo pensare. Non era mia abitudine diventare sentimentale quando in ballo c'erano degli affari da portare a termine. Per le smancerie ci sarebbe stato il giusto spazio più avanti. Così come per scoprire il motivo della bellezza inalterata di Miss Morgan. Maschere d'argilla? Ma per favore...
    ”Facciamo che fingo di crederci e che per il momento non approfondirò la cosa. Ci sono argomenti più urgenti di cui dobbiamo discutere…”
    Lei parve confusa per qualche secondo, ma si riprese subito. Era anche intelligente, e non priva di risorse come sarebbe stato chiunque in una situazione simile.
    “So cosa volete sapere. Ma non ho tutte le risposte che cercate, solo una parte di queste...”
    ”Cominciamo con questa... perché quegli uomini incappucciati vi inseguivano? Li avete fatti incazzare parecchio!”
    ”Ho solo recuperato un oggetto che appartiene alla mia famiglia da generazioni. Loro se ne erano impossessati anni fa e a me è spettato il compito di riprenderlo”
    ”Tutto da sola?”
    Alzai un sopracciglio. Ero scettico che una nobildonna elegante e agiata girasse per il mondo senza nessuna protezione.
    ”No, ero con altre persone. C'è stato uno scontro con loro e solo io sono riuscita a salvarmi e scappare. Poi, non sapendo dove fuggire, ho trovato la vostra nave e mi sono nascosta. Non sapevo che eravate dei fuorilegge!”
    Quasi risi per lo stupore! Che coraggio, insultare chi poteva tagliarle la gola impunemente: era da sola, nessuno sapeva che si trovava in un punto impreciso dell'oceano, non era neanche in grado di difendersi... e aveva l'ardire di farmi la morale!
    Mi chiedevo fin dove sarebbe arrivata, se la avessi lasciata fare. Però mantenni il discorso su ciò che mi interessava veramente.
    ”Capisco... così siete la legittima custode della reliquia... e ora dove si trova questo oggetto prezioso?”
    ”Me ne sono liberata”
    Fece un gesto vago con la mano, quasi intendesse che la aveva gettata in mare. Feci finta di crederci, ma avevo un piano in mente. Così sondai il terreno.
    ”Quindi ora quali sono i vostri progetti?”
    Scosse la testa lentamente.
    ”Devo tornare a casa. Ho dei doveri che mi aspettano”
    La sua voce era tesa. Sapeva che avevamo ancora un conto in sospeso per via dei danni derivati dalla bella pensata di nascondersi sulla Jackdaw. Non le avrei dato la possibilità di andarsene via senza il mio permesso, ma questo lo avrei chiarito al momento opportuno.
    Mi avviai alla porta del magazzino.
    ”Domani sbarcheremo a destinazione. Tra poco vi porteranno da mangiare. Fidatevi, non sarà avvelenato. Dovete nutrirvi per rimettervi in forze”
    Sprangai la porta e mi dedicai all'attività preferita di noi pirati: la caccia al tesoro. Mentre Miss Morgan era incosciente, avevo già perquisito il magazzino senza trovare nulla che potesse essere l'oggetto per il quale erano morti i miei uomini.
    Di logica, andai a cercare nella stiva dove si era nascosta e gli incappucciati l'avevano trovata, in mezzo ai sacchi di granaglie e ai barili d'acqua. Mandai via gli uomini che stavano riposando perché volevo essere solo. Pochi minuti dopo, in mezzo alle casse di frutta, trovai l'oggetto tanto conteso: una semplice tavoletta di un materiale molto simile al vetro ma più leggero, con dei fili colorati che lo percorrevano come vene in un corpo umano. Lo fissai perplesso, ricordando le parole di Ah Tabai: niente oro, né gioielli. Eppure, aveva un valore, e notevole, se davo retta al mio istinto. Lo nascosi sotto la cappa e andai subito a metterlo al sicuro nei bauli del mio alloggio, dove solo io avevo accesso. Ero soddisfatto, finalmente. Sapevo di poter volgere la situazione a mio favore, nonostante tutto.


    Edited by Illiana - 22/6/2020, 10:45
     
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    :Nike:
    Erano passati pochi giorni da quando Edward mi aveva medicata e… interrogata. Sapevo perfettamente che ogni sua domanda era mirata e ben architettata per sapere, conoscere, scoprire. Non avevo avuto modo di comprendere l’uomo che mi ero ritrovata d’innanzi dopo ben quindici anni terrestri e che avevo lasciato nelle sembianze di un bambino, sì sconvolto, ma determinato a cambiare la sua condizione. E ci era riuscito, ma a che prezzo? Che tipo di persona era diventato… più mi arrovellavo sulle complicazioni del suo essere un pirata, del suo essere un fuorilegge, della sua mania, o meglio della sua “specialità” di trovare tesori e accaparrarseli, più mi rendevo conto che non aveva nessuna importanza per me e poi, mi soffermavo sui suoi gesti impacciati, che volevano essere delicati, mentre mi medicava le ferite e sul suo sorriso che avrebbe potuto illuminare l’intero universo fatto di stelle… ok, ero ben conscia di essermi innamorata del Capitano Edward Kenway, non ero il tipo che si nascondeva dietro bugie o verità edulcorate. Ero il Giudice Supremo di Giove ed ero il grado di riconoscere i sentimenti delle persone e ogni loro più intimo pensiero per essere capace di giudicare i loro animi e le loro azioni. Su di me, non sarebbe stato diverso. La cosa che però più mi sconvolgeva era il fatto che fosse successo in così poco tempo, pochissimi giorni appena e in condizioni davvero avverse. Ero rimasta sconvolta e stupita, da come avevo reagito di fronte a una missione che si era rivelata un pieno disastro: la tecnologia gioviana esposta ai terrestri, vittime del mio pianeta ed io, ferita a morte e prigioniera di una ciurma di pirati, eppure, avevo sentito il mio cuore sussultare e filare le trame di in sentimento assurdo e prematuro. Sebbene il buon senso mi invitasse ad oppormi con tutte le mie forze a queste sensazioni “decisamente fuori luogo”, non solo per le circostanze poco liete in cui erano nate, ma soprattutto per il ruolo che ricoprivo sul mio pianeta, io… non ne avevo nessuna intenzione. Il Giudice Supremo di Giove non poteva, in alcun modo e in alcun caso, innamorarsi, avere un uomo, avere una famiglia. Doveva essere ligio al suo compito senza “distrazioni esterne”. Ero sempre stata contraria a questa imposizione aberrante, ma non avevo mai avuto modo di manifestare il mio pensiero perché, fino a questo momento, non mi ero ritrovata innamorata persa di nessuno. Il fatto che non si trattasse di un gioviano, che vivesse in un altro mondo e che fosse un fuorilegge dichiarato, complicava un po’ le cose, ma non volevo pensarci adesso, non volevo focalizzare le difficoltà future, quando ancora il presente era così incerto e misterioso.
    Tornai alla realtà che mi ospitava e potei notare come tutto l’equipaggio fosse in fermento. Gli uomini erano eccitati e non perdevano occasione per festeggiare mentre raccoglievano vivande e provviste: si tornava a casa.
    Edward, poche ore prima mi aveva raggiunta nel magazzino di poppa, dove ancora mi trovavo “rinchiusa” e mi aveva informata che stavamo per giungere nella sua terra, il covo della sua gente, e lo aveva detto, sorridendomi compiaciuto. Non avevo compreso il motivo di tutta quella sua soddisfazione, di certo, si sarebbero trovati al sicuro e al riparo da concorrenti e inseguitori, ma cosa avrebbe mai potuto essere un rifugio piratesco, in confronto alla vastità e alla bellezza del mare aperto? L’avrei capito solo in seguito…
    […]
    Una volta che la nave attraccò al porto di Great Inagua, così si chiamava quel luogo, Edward venne a recuperarmi di persona. Ero ancora considerata una prigioniera, ma con certi “benefici”, così li aveva chiamati lui. Quello che sapevo era che, quando lui entrò e mi squadrò da capo a piedi, mi resi conto delle condizioni pietose in cui versavo. I miei abiti erano ridotti a brandelli e quel poco che ne restava era ricoperto di sangue secco; i miei capelli, inizialmente acconciati con una fitta treccia greca, erano ormai un groviglio ingovernabile, che lasciava sfuggire ciocche ribelli e intricate come nidi di uccello. Le ferite al volto stavano ormai guarendo e quella all’addome stava procedendo molto bene. Insomma nel complesso, potevo ritenermi fortunata ad essere ancora viva, ma al cospetto del Capitano, arrossii di imbarazzo per lo stato in cui mi trovavo.
    Mi alzai di scatto, con sguardo fiero, non volevo che lui scoprisse i miei pensieri. Ero una sopravvissuta, non avevo nulla di cui vergognarmi! Ripetei più a me stessa… il mio movimento brusco mi fece barcollare, preda di un potente capogiro ma la forte presa di Edward mi permise di non cadere.
    “Sto bene!” dissi stizzita e adirata perché il mio corpo ancora non rispondeva a dovere ai miei comandi.
    “Sì, certo… state da Dio!” incalzò lui con sarcasmo. “Non c’è alcun bisogno di fingere Miss Morgan. Adesso andremo nella mia casa e lì avrete l’opportunità di fare un bel bagno caldo e cambiarvi d’abito. Vi posso assicurare che dopo, vi sentirete decisamente meglio!”
    Ancora un po’ intontita, mi resi conto che mi aveva appoggiato sulle spalle la sua enorme palandrana. Io non potevo considerarmi di bassa statura, ma quel soprabito mi arrivava ai piedi e mi copriva abbondantemente le spalle e tutto il corpo.
    “È meglio che vi copriate, Miss Morgan. Non ho nessuna intenzione di dare a qualcuno dei miei, un motivo per trasgredire le nostre regole…” disse sorridendo da un lato, come se non fosse del tutto serio, ma neppure del tutto ironico.
    “Non mi sembra ci sia qualcosa ‘da vedere’! Ma vi ringrazio per la gentilezza, l’apprezzo molto!” risposi, sottolineando con sarcasmo il mio stato, lieta, però, di poter indossare qualcosa che mi “proteggesse” da occhi indiscreti, come uno scudo contro l’intero universo; che poi, questo qualcosa fosse suo e portasse il suo intenso profumo di sandalo e patchouli era molto meglio.
    “Non vi rendete conto di molte cose, Miss Morgan, quasi non sembrate di questo mondo, semmai ne esistano di altri…” affermò scoppiando in una sonora risata. “Andiamo.”
    Mi scortò fuori dalla nave personalmente e mi condusse su una carrozza di legno pregiato con rifiniture dorate. Due magnifici cavalli bianchi erano assicurati al cocchio, pronti per essere spronati a partire da un ligio cocchiere. Non aveva abiti tipici di quel ruolo, ma era vestito da pirata. Scambiò uno sguardo d’intesa con Edward e dopo che anche lui si sedette al mio fianco, partimmo alla volta del covo.
    […]
    Il tragitto fu lungo e non poco tortuoso in alcuni tratti, in cui ci trovammo in piena giungla. Incontrammo parecchie casette immerse nel verde e tutti gli abitanti della zona, rivolgevano saluti riverenti al Capitano Kenway. Era più che evidente che fosse un uomo importante in quel luogo e che tutti lo rispettavano.
    “Vi conoscono tutti… siete un fuorilegge dei mari, eppure, vi trattano come un Signorotto locale” dissi con espressione stranita. “Senza offesa, ovviamente!” aggiunsi. Sapevo che la mia constatazione non era del tutto “positiva” in apparenza, ma ero davvero ammirata e stupita allo stesso tempo.
    “Diciamo che la mia fama in mare è giunta alle loro orecchie e di conseguenza mi sono creato delle ottime relazioni! Non sono il loro Signore, lungi da me, ma mi rispettano e questo mi basta!” mi rispose di nuovo compiaciuto. “Ecco, siamo arrivati nella mia proprietà!” concluse eccitato.
    Mi guardai intorno e non vidi altro che giungla, fino a che non si aprì un passaggio nel verde brillante della vegetazione e come aver attraversato un varco incantato, mi ritrovai catapultata in un altro paesaggio, totalmente differente dal primo, pur ritrovando il bosco sullo sfondo.
    Un’enorme villa coloniale si stagliava in lontananza ed era circondata da un giardino immenso, che assomigliava più a un parco. La flora era variegata, ma le palme e le piante esotiche la facevano da padrone. Misi la testa fuori dal finestrino della carrozza, estasiata. Non avevo mai visto nulla di tanto maestoso. Vi era persino una grande fontana in marmo nel patio di fronte l’entrata.
    “Ma voi… chi siete veramente!?” chiesi, non avevo altre parole più intelligenti da dire. Mi ero fatta un’immagine ben diversa di lui. Edward il bandito, Edward il terrore dei mari… ma non avrei mai potuto immaginare tutto questo sfarzo. Una vita fiabesca, una vita civile lontana dall’oceano!
    Lo udii sghignazzare, mentre mi aiutava a scendere dalla vettura con le ruote. Mi sentivo un po’ stordita, e non solo per le ferite che ancora mi infastidivano, quanto anche per tutto ciò che mi circondava. Mi girava la testa e approfittai del suo invito per appoggiarmi al suo braccio. Le mie mani fuoriuscivano a malapena da sotto le lunghe maniche della palandrana, ma mantenni ferma la mia presa, forse fin troppo.
    “Vi sentite bene?” mi chiese Edward, portando la sua mano sulla mia. “Forse è meglio se andate a riposare un po’. Avete passato dei giorni stressanti e vi voglio in forma, visto che dovremo ancora discutere di parecchie cose, Milady.”
    “Di cosa dovremmo parlare ancora? Vi ho detto tutto quello che sapevo su ciò che è successo!” La mia voce era ferrea ma con un pizzico di non curanza. Non volevo pensasse che l'argomento mi innervosiva, altrimenti avrebbe scoperto che mentivo, o almeno che non avevo detto tutta la verità. Odiavo propinare menzogne, ma cosa avrei potuto raccontare ad un terrestre di tutta quell’assurda situazione? “Salve, mi chiamo Nike e arrivo da Giove. Hai presente quella tavoletta che gli incappucciati volevano sottrarmi? È solo un oggetto che contiene il sapere supremo. Nulla di che, insomma…” Era semplicemente assurdo, la verità sarebbe stata un disastro e poi… come mi avrebbe guardata, sapendo che ero un'aliena? Al pari di un mostro? Adesso ero una “prigioniera con benefici”, ma ai suoi occhi ero comunque Miss Morgan, la donna che gli aveva salvato la vita. Niente da fare… La realtà dei fatti l’avrei dovuta seppellire con il mio silenzio.
    “Ma non si tratta di un interrogatorio, questa volta” E mi sorrise entusiasta. Mi sarei mai abituata a quelle sue imboscate di ilarità? Ogni volta che rideva e mi mostrava questo suo lato ironico, a mio avviso molto sensuale, io perdevo un pezzetto di ragione e lo depositavo in fondo alla mia anima, vicino al cuore.
    “Come preferite. Adesso, ho solo bisogno di una bagno caldo!”
    “Ho fatto preparare una camera per gli ospiti, alcune donne del paese ci aiutano con la gestione della casa. Potrei chiedere a Consuelo di darvi una mano a sistemarvi, siete ancora debole… Ma ricordate, siete ancora mia prigioniera, Miss Morgan, vi terrò d'occhio” E mi guardò con un pizzico di serietà.
    Arrivarono due uomini, erano dell’equipaggio, e si occuparono dei cavalli e della carrozza, senza attendere istruzioni. Sembrava che tutti sapessero cosa fare. Poi, una donna si avvicinò in silenzio, sorridendo fin troppo apertamente.
    “Buongiorno Consuelo, è tutto pronto per Miss Morgan?” chiese con tono amichevole.
    Lei lo rimirava con occhi sognanti e rapiti… era chiaro avesse una bella cotta. Sapevo perché tutto ciò mi infastidiva, ma non volli dare adito ai miei sentimenti più istintivi. Dovevo metterli da parte e concentrarmi sulle cose che avessero realmente un senso. Fu quando guardò me con iridi di fuoco, che tutti i miei buoni propositi andarono a farsi benedire e dichiarai mentalmente guerra a quella sconosciuta, che aveva l'ardire di sfidarmi, anche senza parlare. Temeva forse che fossi una minaccia?! Non aveva idea di con chi aveva a che fare!
    “Certo. È lei la signor…”
    “Faccio da sola, Edward. Non ho bisogno di alcun aiuto. Mi conoscete bene…” la interruppi, rispondendo alla sua precedente affermazione, come se lei non fosse mai intervenuta, e poi, guardai Consuelo dritta in faccia. Non credevo di essere un tipo che si sperticava in simili giochetti di potere, soprattutto con un uomo di mezzo, ma quel silenzioso braccio di ferro mi aveva stuzzicata e non mi sarei tirata indietro. La ragazza mi osservò di sottecchi senza rispondere apertamente. Questa sua “non reazione” mi diede la conferma che il suo amore fosse segreto e a senso unico.
    “So bene quanto sarebbe inutile oppormi. Non mi ascoltereste comunque. Vi scorterò fin nei vostri alloggi e poi andrò a sbrigare alcune questioni che reclamano la mia presenza.” mi disse circondandomi le spalle con un braccio, poi ci avviammo.
    Per mia natura, mi sarei opposta a tanta gentilezza, soprattutto per via di quegli impegni che aveva nominato, ma notare di sfuggita il volto paonazzo della donna, non aveva prezzo. Nike 1 – Consuelo 0.
    La villa era enorme quanto quasi l'esterno. I pavimenti erano in parquet e le pareti ricoperte di arazzi colorati e impreziositi da ricami d'oro, dei divisori in legno intarsiati suddividevano gli ambienti e creavano un contrasto con le mura bianchissime e le piante esotiche che facevano da ornamento.
    “Non pensavo che un pirata potesse possedere una dimora così sfarzosa!” dissi mormorando, più a me stessa, non mi aspettavo realmente una risposta, ma Edward non si fece attendere.
    “Sono ricco, ho la possibilità di avere i tesori più rari e ricercati. Perché non godere direttamente di questa bellezza!? I fuorilegge non ne hanno diritto?” intervenne con aria pomposa.
    Io non risposi, semplicemente avevo un altro concetto di bandito, di delinquente. Su Giove non esisteva tutto questo e non avevo alcun termine di paragone. Sul mio pianeta regnava moderazione e sobrietà. Qui, mi sentivo un pesce fuor d'acqua ed Edward l'aveva sicuramente intuito, visto come continuavo ad ammirare ciò che mi circondava con aria trasognata.
    “Siamo arrivati. Entrate pure e fate come se foste a casa vostra. Non in senso letterale, ovviamente. Rammentate il mio avvertimento. Non tradite la mia fiducia, Miss Morgan.” E incatenò i suoi occhi cristallini ai miei.
    “Tutto ciò che voglio è ripulirmi dal sangue secco, cambiare le fasciature e gli abiti. Mi sento ancora troppo debole per sfidarvi. Non avrete nulla da temere, per il momento. Vi ringrazio per le premure” dissi condendo le mie parole di ironia, alla sua stessa maniera. Gli sorrisi enigmatica prima di entrare nella stanza e chiudermi la porta alle spalle.
    […]
    Quel bagno caldo mi aveva rigenerata e avevo potuto notare con soddisfazione che le ferite stavano guarendo bene, segno che delle medicazioni costanti e attente potevano fare miracoli sul mio corpo.
    La stanza era enorme e avevo trovato tutto il necessario per rimettermi in sesto. Non per ultimo avevo indossato un abito trovato nello spogliatoio diviso dal resto della camera da un separé. Era lungo e di fattezze morbide che giocavano con le mie forme. Blu cobalto che sfumava fino al nero raggiungendo l'orlo. Splendido. Avevo lasciato i lunghi capelli naturalmente ondulati liberi sulle spalle e fermati da un semplice fermaglio a forma di farfalla sul lato destro. Avevo bisogno di semplicità, di comodità…
    Afferrai il soprabito che Edward mi aveva prestato prima di scendere dalla nave, con tutta l'intenzione di trovarlo e restituirglielo.
    Mentre mi aggiravo per i corridoi dell'immensa villa, scrutando con curiosità ogni dettaglio etnico o esotico, udii delle voci in sottofondo. Provenivano da una sala poco distante. Senza farmi notare mi avvicinai e mi sporsi da un piccolo spiraglio di uscio lasciato incautamente aperto. Ciò che vidi mi mise in allerta: Edward stava parlando con il capo degli incappucciati. Questi era in catene, anche se pareva versare in buone condizioni. I due stavano conversando a voce sostenuta.
    “Vuoi dirmi cos’è quell'oggetto che volevate sottrarre alla donna sulla mia nave. È strano e non assomiglia a nulla che abbia già visto prima.” disse Edward con un pizzico di esasperazione.
    “È qualcosa di molto raro e prezioso anche se non è fatto d'oro massiccio” lo rimbeccò l'altro. “È considerata una reliquia di immenso valore, ci sono molti altri oggetti simili, ma so che tu non te ne faresti nulla... A te interessa un altro tipo di ricchezze e credo di poterti dare quello che cerchi. Però, dobbiamo fare un patto!”
    All’udire quelle parole mi si gelò il sangue nelle vene e strinsi così forte le mani sulla stoffa della palandrana che quasi non sentii più le dita. Edward aveva ritrovato la tavoletta gioviana sulla nave. Edward la custodiva. L'uomo incappucciato sapeva che vi erano molti altri oggetti gioviani sulla Terra e forse altri siti. Dovevo saperne di più… dovevo trovare il modo per riprendermi la tavoletta e andarmene da lì. Pensa Nike, ragiona. La prima cosa da fare era passare inosservata e non farmi scoprire. Edward non doveva in alcun modo sapere cosa avevo scoperto o avrei perso il mio vantaggio, lo stesso che lui credeva di avere nei miei confronti.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 22/6/2020, 16:36
     
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    :Edward:
    ”A te interessa un altro tipo di ricchezze e credo di poterti dare quello che cerchi. Però, dobbiamo fare un patto!”
    Strinsi i pugni, tentando di mantenere il tono civile.
    ”Cominciamo finalmente a ragionare... cosa hai in mente?”
    ”A ovest di Caracas si trova un forte navale spagnolo, molto ben protetto”
    Annuii risoluto. Tutti conoscevano il forte di Punta Guàrico.
    ”Il comandante Fernandez è noto per il suo amore per le ricchezze. Da tempo accumula nei forzieri lingotti d'oro, pietre preziose e sete pregiate. Avrà raccolto un tesoro pari a quello della corona inglese. E proprio per questo, a difenderlo ha più di un centinaio di soldati. Quella struttura è pesantemente vigilata e armata. Non è semplice distruggere le fortificazioni e anche superate quelle, una volta sbarcati bisogna vedersela con tutta la guarnizione di soldati. È una missione suicida...”
    ”Non proprio, se si conosce un passaggio segreto da usare nottetempo”
    Distolsi i pensieri da visioni di guerra e piani di distruzione che avevo accarezzato molto spesso. C'era qualcosa che non mi quadrava, sospettoso come ero.
    ”Ma a voi cosa importa? Io non spartisco il tesoro con nessuno”
    ”L'oro è secondario; molto spesso i suoi uomini fanno incursioni nei villaggi, uccidendo vecchi e bambini e stuprando le donne. Fernandez e i suoi sodali devono morire per le colpe di cui si sono macchiati”
    ”Ah, la vostra fissazione di salvare il mondo. Non a tutti interessa la libertà che vi appassiona, sapete? Ho liberato dalle catene uomini che mi hanno maledetto per averlo fatto”
    ”E' vero, capitano. Sembra che solo i più forti e coraggiosi riescano a percorrere questa strada. Siete voi, siamo noi. Siamo pochi, ma se fossimo di più, riusciremo a convincere anche i più timorosi che vale la pena combattere per un mondo senza vincoli né leggi, se non quelle che sono dettate dalla nostra coscienza”
    ”Amen” Tagliai corto. ”Con queste informazioni ti stai ricomprando la tua libertà, e potrai farne ciò che vuoi, solo... non pensare di imbrogliarmi. Se lo farai, io me ne accorgerò, e nessuno mi impedirà di toglierti quello che ti sto concedendo ora. Inoltre, la reliquia rimarrà a me: h bisogno di rifarmi della perdita di quel convoglio spagnolo!”
    Ah Tabai mi tese la mano.
    ”Dovrai pazientare e attendere il momento giusto, ma hai la mia parola che quelle ricchezze diventeranno tue e dei tuoi uomini”
    (...)
    Il pomeriggio dopo scrutavo il verde intenso e variegato della vegetazione tropicale, appoggiato alla balaustra della terrazza antistante la villa, come se mi trovassi sulla tolda del mio brigantino a scrutare l'oceano infinito.
    Avevo liberato Ah Tabai, alla fine. Mi ero convinto della sua onestà, apprezzando soprattutto il vigore con cui proclamava le sue convinzioni. Parole elevate che ispiravano una società che cercavamo di creare grazie alla Repubblica dei Pirati.
    Udii dei passi leggeri e veloci avvicinarsi, che riconobbi senza indugio. Consuelo. Attirai la sua attenzione continuando a guardare dall'alto la baia dove era attraccato al sicuro da tempeste e attacchi nemici la Jackdaw.
    Dulzura, prendi dai bauli nel boudoir l'abito di seta verde e fallo avere a Miss Morgan”
    Silenzio da parte sua. Mi girai a fissarla inquisitorio. La sua espressione era vuota, stolida: non aveva capito e dovevo essere più chiaro, forse...
    ”Quello con la scollatura profonda e senza maniche, che ti piace tanto, ricordi?”
    ”Quello?”
    Ecco di cosa si trattava... lo capii dal tono amareggiato e polemico. Piantai gli occhi nei suoi, accompagnando la mia risposta con un sorriso tirato di avvertimento. Sbagliava a pensare che poteva pretendere qualcosa dal sottoscritto solo perché me la portavo a letto. Non mi facevo imprigionare così facilmente da un paio di occhi ambra e una bocca seducente.
    ”Consuelo, forse è meglio che tu stasera torni a casa da tuo marito. Gli sei mancata molto, in questi giorni. Ma non prima di fare quello che ti ho chiesto...”
    (...)
    Avevo organizzato la serata con idee ben chiare. Volevo far colpo su Miss Morgan e una cena sontuosa era l'ultimo tassello che avrei aggiunto al mio piano. Uno dei primi era stata la carrozza che ci era venuta a prendere per portarci alla villa, la mia casa da tre anni a questa parte. Era diventata mia nel 1715, dopo aver ucciso un trafficante di armi francese, Du Casse. La carrozza era una mania inutile e pretenziosa, ma avevo dato ordine agli uomini che lavoravano per me che i cavalli venissero accuditi con ogni attenzione.
    Sapevo che non sarebbe stato semplice far colpo su una donna aristocratica abituata da tutta la vita a comodità e lusso, ma ero sicuro dei miei mezzi, e seguendo il suo sguardo rapito e stupito davanti ai tesori che riempivano alla rinfusa le stanze della villa ne avevo avuto conferma e piacere.
    Le avevo riservato la camera più ampia e lussuosa, che non usavo mai in quanto ne preferivo un'altra per lo scorcio sulla baia che offriva.
    Con la medesima intenzione indossai gli abiti alla moda che avevo sottratto al comandante di un galeone, realizzati con stoffe pregiate e senza troppi fronzoli e ricami: brache di seta, camicia in lino e giacca in broccato; lasciai da parte pistole e spade, una volta tanto.
    Per la cena, il cuoco di bordo che si occupava dei miei pasti quando eravamo a terra si era procurato con molta efficienza un sacco di ostriche, piccole tartarughe, conigli e frutta fresca. Quando diventò buio, feci accendere nel salone dove avremo mangiato tutte le candele e preparare la tavola con una tovaglia bianca, piatti di fine porcellana, calici di cristallo e posate d'argento. Tutto frutto dei miei bottini e di quello che era diventato mio dopo aver ucciso il precedente proprietario. Ero molto fiero di me stesso.
    Quando la feci chiamare, attesi il suo arrivo con impazienza. Volevo vedere l'effetto su di lei di tutto quello che avevo preparato, ma quando entrò, fui io a rimanere impreparato dal suo arrivo. L'abito di seta la rendeva incredibilmente bella, sembrava fatto apposta per esaltare la sua pelle dorata, così strana per le nobildonne che di solito si vantavano di averla diafana. I capelli raccolti in una semplice acconciatura e tenuti fermi da un pettine d'avorio che le avevo fatto avere insieme all'abito le lasciavano scoperte le spalle. La scollatura ampia sottolineava generosamente il décolleté e la schiena. Era un abito molto audace, che non tutte avrebbero portato con la sua stessa disinvoltura. Lo avevo scelto per il colore che si intonava allo smeraldo dei suoi occhi e per la curiosità di vedere se lo avrebbe davvero indossato. Avevo avuto la mia risposta: Miss Morgan non era una donna come le altre e io la avevo desiderata dal momento in cui l'avevo riconosciuta, nella stiva della Jackdaw.
    Fui molto cortese e amabile con la mia ospite, utilizzai argomenti interessanti per intrattenerla, esibii in ogni modo possibile il mio fascino. Alla fine della cena, mi alzai, invitandola a fare altrettanto.
    ”Venite Miss Morgan, ho un regalo per voi”
    La guidai verso la stanza del tesoro, toccandole la pelle nuda della schiena con la mano. Non si ritirò né diede segno di averne fastidio.
    Attraversammo alcune stanze in penombra ed entrammo nella mia sala preferita, dove stivavo gli oggetti strani e preziosi di cui ero venuto in possesso: armi ingemmate più di messinscena che per la battaglia, armature intarsiate, quadri, tappeti, statue di marmo bianco, candelabri e volumi rilegati in pelle. Su una mensola, una serie di boccette di vetro colorato erano coperte da una ragnatela delicata. Ne presi una a colpo sicuro: la avevo sempre tenuta da parte e ora capivo il perché.
    ”Quando veniste alla prigione, mi colpì il profumo che portavate. Allora non lo riconobbi, ma era un estratto di vaniglia e orchidea. Ho indovinato?”
    Aprii la bottiglietta e versai alcune gocce del liquido profumato sul suo polso, usando il tappo di vetro. Tenevo la sua mano e non la lasciai se non per risalire lentamente il suo braccio, distribuendo la traccia umida e fragrante. Mi rispose con voce tesa, bassa, sensuale.
    ”Sì, avete indovinato. È il profumo che preferisco”
    Sorrisi. Era giunto il momento che aspettavo da giorni. Mi piegai lentamente verso di lei.
    Avvenne una cosa che non mi sarei mai aspettato. Con sicurezza, Miss Morgan mi prese il viso tra le mani, e mi baciò per prima. Fu ardita, determinata ed esigente come lo sarei stato io. Ero scioccato e piacevolmente impressionato. Nessun altra mi aveva colpito come fece lei.
    Le altre donne assecondavano i miei desideri e l'umore del momento, sia quelle che pagavo, sia le brevi storie che soddisfacevano i miei bisogni. Ma l'iniziativa era sempre la mia, il controllo era mio, i tempi li stabilivo io.
    Con lei invece iniziammo quasi una contesa, una sfida a chi resisteva di più, a chi osava di più, una tensione e un desiderio fisico che consumammo con impazienza, liberando quello che si era accresciuto in tutta la serata.
    Le sue mani arrivarono ai miei vestiti, mi sfilò con vigore la giacca e sciolse i lacci della camicia con destrezza. Il suo vestito volò via in pochi secondi, mi parve di sentire cedere la stoffa preziosa con uno secco strappo, invece che slacciarsi.
    Quante ore passammo insieme? Sinceramente, persi il senso del tempo molto velocemente, totalmente preso da lei.
    Quando alla fine, nel mio letto, stavo per addormentarmi, tra la veglia e il sonno, diedi voce mormorando a quello che più mi stupiva di tutto l'accaduto. Il suo corpo era giovane, senza traccia di decrepitezza: ”Ma voi... chi siete... veramente?”
    Le stesse identiche parole che aveva usato con me solo il giorno prima. Lei aprì gli occhi, che quasi splendettero nel buio della stanza. Non ottenni risposta, ma solo un bacio lasciato con le sue labbra morbide.
    (...)
    L'indomani mattina mi svegliai di buonumore, con i ricordi della sera prima che allettavano ancora i sensi e i desideri. Allungai un braccio. L'idea di possederla appena sveglio, di avvicinarmi a lei mentre dormiva e di sorprenderla con le difese abbassate mi eccitava parecchio.
    Spalancai gli occhi, balzando a sedere sul letto quando la mia mano sfiorò solo le lenzuola. Indossai velocemente i pantaloni, mentre sulla bocca affioravano copiose una sequela di maledizioni.
    Quella vipera! Aveva finto tutto per poter avere modo di cercare la reliquia indisturbata e sparire subito dopo. Ma con chi credeva di avere a che fare? Non lo aveva ancora capito?
    Non ero così stupido da tenere vicino a me un oggetto così importante, neanche se ben nascosto e protetto come nella villa. Anche se amavo circondarmi delle conquiste più appariscenti e particolari che trovavo, i tesori più preziosi non li custodivo nella villa, ma in un nascondiglio segreto nella foresta, di cui solo io ero a conoscenza.
    Attraversai a piedi scalzi il salone, mi sentivo una furia spaventosa addosso. Si credeva furba...


    Edited by Illiana - 8/7/2020, 15:38
     
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    Percepire quel profumo vanigliato e floreale mi catapultò nel passato, a quando usavo “indossare” la fragranza che sfiorava la mia pelle in quel momento. Rividi il sole caldo di Bristol, il porto affollato e… Edward bambino, vittima di un signorotto prepotente. Lui se lo ricordava, non poteva trattarsi di una coincidenza, lui aveva serbato una nitida memoria di me e di quanto era accaduto all’epoca. Mi beai della sensazione di compiacimento che mi pervadeva. Non ero il tipo che si illudeva con gesti banali e numeri da galantuomo, ma non potevo negare che la serata organizzata da Edward, avrebbe fatto perdere la testa a moltissime donne, ammaliandole con i suoi modi gentili e plateali. Uno splendido vestito di seta, una cena tanto variegata e fine, da concorrere con i banchetti di corte. Mi aveva condotta qui, nella sala dove custodiva i suoi bottini, le sue conquiste. Ero estasiata, mi sentivo emozionata come una bambina che vede quelle meraviglie per la prima volta, oggetti di ogni genere e tipo, armature, argenterie, antichi volumi, un imponente tesoro al mio cospetto. E in effetti era vero, ma non ero più una bimba.
    Brividi intensi mi percorsero la pelle e pervasero il mio corpo, quando lui sparse una goccia di profumo partendo dal polso e spostandosi sul braccio.
    Non vi era nulla di razionale in quel momento, i miei sensi erano inebriati dalla gentile essenza e dalla presenza virile del Capitano Kenway. Fremevo, ma non come quelle fanciulle d’altri tempi che si struggono in attesa del bacio del loro amato, io, sentivo una certa impazienza che mi contorceva lo stomaco, una passione improvvisa che mi aveva imprigionato il petto e quando lo vidi avvicinarsi al mio volto, intento a donarmi quel bacio da sogno, io lo anticipai, gli presi il viso tra le mani, lo guardai intensamente nei suoi occhi color del mare e poi lo baciai… le mie labbra si unirono alle sue, non vi era alcuna delicatezza o riguardo, c’era solo urgenza di poter assaggiare il suo sapore e ciò che percepii mi lasciò, per l’ennesima volta, estasiata. Sapeva di sandalo e patchouli, sapeva di maschio, sapeva di buono… e allora credetti di perdermi.
    Mi afferrò con decisione tra le sue braccia e mi portò nella sua enorme stanza, della quali mi persi tutti i dettagli, troppo occupata ad ammirare lui, che impregnava ogni mio pensiero e ogni mio battito. Si liberò con impazienza del pregiato abito di seta che mi aveva regalato, strappandolo leggermente. Io lo spogliai con tanta rapidità da stupirmi io stessa di quanto fossi esperta a maneggiare gli abiti di quell’epoca, ma nulla ci avrebbe fermati fino a che la nostra passione non sarebbe stata consumata.
    Sapevo bene che lui non era innamorato di me, sapevo bene che era un fuorilegge e che una nostra “probabile relazione” sarebbe stata un disastro, se non una catastrofe, ma non era questo il momento per pensare, per razionalizzare, no… non ne avevo nessuna voglia, non quando sentivo il calore del suo corpo sul mio, e l’umido della sua lingua esplorare la mia pelle, lasciando scie infuocate che sarebbero rimaste lì come maschi, a sempiterna testimonianza del mio cedimento e allo stesso tempo del mio sentimento per lui.
    Gli avvolsi la vita con le mie cosce snelle e tornite e lo agganciai a me, gli afferrai gli avambracci con le mie dita frementi, non sarebbe potuto fuggire ora, semmai lo avesse voluto, quella notte sarebbe stata nostra, non esisteva Giove, la Terra, pirati, reliquie o battaglie, solo io, lui e queste lenzuola profumate di vaniglia, orchidea, sandalo e patchouli…
    I nostri respiri si fusero tanto quanto le nostre labbra… Le lingue giocavano e i denti artigliavano con delicata determinazione. In un tempo che pareva dilatarsi a dismisura per darci l’opportunità di bearci l’uno dell’altra, anche i nostri corpi si fusero come lava incandescente e volarono verso liti lontani di piaceri sconosciuti. Non avevo mai provato nulla di simile e questo mi terrorizzò e mi eccitò allo stesso tempo.
    Solo quando i nostri sensi furono ebbri di piacere e il mio cuore gonfio di un sentimento così chiaro e cristallino da farmi quasi paura, restammo distesi e stremati fra la biancheria stropicciata del letto. Lui era bellissimo… coi capelli scarmigliati e il volto rilassato, gli occhi semichiusi e un leggero sorriso a incurvare le sue labbra finemente cesellate.
    “Ma voi... chi siete... veramente?” Avevo usato parole identiche quando avevo appreso della sua immensa ricchezza e della posizione che si era fatto negli anni in cui eravamo stati lontani. Ma sapevo che nel suo caso, quella domanda, aveva implicazioni ben più importanti e sconosciute… Aveva esplorato ogni singolo centimetro del mio corpo, aveva certamente notato la perfezione della mia pelle e l’assenza di rughe…
    “Ebbene sì, caro Edward, non sono umana, ma questo non posso rivelartelo!” pensai contrita.
    Mi appoggiai su un gomito per osservarlo meglio nella sua espressione rilassata. Non dissi nulla, ma mi limitai a baciarlo di nuovo, con lentezza, con tutta la delicatezza che avevamo ignorato durante le ore appena trascorse. Gli accarezzai il petto e poi vi appoggiai il volto per trovare un po’ di pace, per dare tregua al mio cuore impazzito, regolandolo con il ritmo più quieto del suo. Non sapevo cosa sarebbe accaduto dopo, ma adesso avevo bisogno di me e di lui così… a un passo dall’incoscienza e inconsapevoli delle differenze che ci avrebbero potuto allontanare.
    […]
    Avevo perso la cognizione del tempo, ma sapevo che la notte era agli sgoccioli e che le prime luci dell’alba stavano facendo capolino all’orizzonte. La stanza era scarsamente illuminata, ma era sufficiente per farmi orientare e muovermi senza urtare il mobilio o altri oggetti. Era mio interesse non svegliare Edward, ancora profondamente addormentato al mio fianco. Lo guardai ancora una volta, ammaliata dai suoi lineamenti marcati, ma non potevo soffermarmi quanto avrei voluto. Avrei voluto baciarlo ancora una volta, ma anche questo era impossibile. Non avrei avuto l’occasione di fare ciò che avevo in mente, se si fosse svegliato… dunque, a malincuore, mi staccai da quella magnifica visione e dopo aver indossato nuovamente l’abito di seta verde, abbandonato sul pavimento, uscii dalla stanza senza far rumore.
    Mi diressi con passo felpato ma spedito verso la sala del tesoro. Era lì che Edward, mi aveva detto, conservasse tutti i bottini delle sue incursioni. La tavoletta doveva essere da qualche parte. Avevo scoperto che era nelle sue mani e per quanto amore provassi per lui, come Giudice Supremo di Giove, non avrei mai potuto consentire che cadesse in mani terrestri, inesperte e profane. Dovevo trovarla e poi… sarei dovuta fuggire, andare lontano da qui e trovare un modo per tornare sul mio pianeta. A quel pensiero il mio cuore perse un battito e una fitta al petto mi lasciò senza fiato. Non volevo andare via, ma dovevo!
    Edward era pur sempre un pirata, io una gioviana con un gravoso compito sulle spalle, che futuro ci sarebbe potuto essere per noi? Non avevo tempo per arrovellarmi, per quanto avessi voluto sedermi lì, su un comodo divano e ragionare su come avrei potuto far funzionare quella storia, trovare una soluzione all’impossibile. Non escludevo che lo avrei fatto in futuro, ma in quel momento, era impossibile.
    La sala era come l’avevo lasciata, tra i fumi della passione, la notte precedente… per un attimo mi distrassi, poi scossi la testa e tornai di nuovo al presente. “Concentrati, Nike!” mi dissi decisa.
    Tutto era al suo posto, ma era chiaro che la tavoletta gioviana non era in bella vista. Non era una reliquia da esporre pur considerandone l’immenso valore.
    Iniziai ad aprire alcuni cassetti, qualche armadietto e stipetti più grandi, ma nulla… non era da nessuna parte.
    Le luci diurne stavano intensificandosi, quando iniziai a temere che Edward l’avesse nascosta da qualche altra parte. Non potevo restare, la casa a breve si sarebbe risvegliata e anche il Capitano, mi avrebbero scoperta…
    Non finii di formulare quel pensiero che dei pesanti passi si fermarono dietro di me.
    “Eccolo, non ho scampo! Preparati Nike!” pensai esasperata. Avevo sperato di fare tutto in sordina e svignarmela, ma avevo fatto male i conti oppure Edward era stato più sospettoso di quanto mi fossi aspettata.
    “Sei qui!” Non era una domanda, ma la chiara constatazione di un fatto.
    Mi voltai e me lo ritrovai a pochissimi passi da me, abbigliato solo coi pantaloni, i capelli “perfettamente” scapigliati, il petto e le spalle imponenti in bella mostra e se non fosse stato per la burrasca che popolava il suo sguardo, mi sarei distratta volentieri dalla sua collera.
    “Sì, sono qui. Non sei sorpreso, vedo!” Altra costatazione di fatti.
    “Piccola bugiarda arrivista. Hai finto tutto questo tempo solo per poter trafugare un oggetto, hai violato la mia casa, la mia fiducia, la mia ospitalità per poi fuggire come una ladra!” Sembrava un fiume in piena e pur conoscendo le mie ragioni, più che legittime, non potei fare a meno di sentirmi ferita, ma non gli avrei concesso di notarlo, di vedermi vulnerabile ed esposta. Io non avevo finto un bel niente… i sentimenti che provavo per lui erano reali, tangibili come pietre preziose, ma era per lui che non avevano alcun valore.
    “Ma senti chi parla! Tu conoscevi la storia di quella reliquia e l’importanza che aveva per la mia famiglia. Ho addirittura rischiato la mia vita per recuperarla e tu cosa fai?? La trovi e te ne impossessi senza nessun riguardo!?” Adesso ero io la tempesta che teneva testa alla sua.
    “Non provare nemmeno a farmi sentire in colpa! Per la tua preziosa reliquia ho perso i miei uomini, il mio bottino e i miei piani sono andati in fumo!” incalzò, alzando di più la voce e le vene sul suo collo si gonfiarono pericolosamente.
    “Scusa tanto se ‘ho scombinato i tuoi piani’. Non era nei miei farmi accoltellare e venire a sanguinare a morte sulla tua nave… Non avevo idea fosse la tua nave. Non avevo idea di dove fosse finito quel ragazzino di quindici anni fa… e poi, eccoti che spunti dal nulla! Non era affatto premeditato!” risposi con un pizzico di acido sarcasmo.
    “Come osi?! Ti ho salvato la vita e portata nella MIA casa, è così che mi ringrazi?!”
    “Eccolo, il buon samaritano… Se salvarmi dalla morte non era nelle intenzioni del pirata che sei, allora perché lo hai fatto? Per poi rinfacciarmelo?! No, aspetta… me lo DOVEVI! Anche io ho salvato te, e per di più, in tempi non sospetti, quando non c’erano reliquie e tesori da trafugare… IO non avevo secondi fini all’epoca, ma tu… chi mi dice che non mi hai curata solo per saperne di più su quell’oggetto misterioso?” La collera ormai mi aveva invasa e non ero più in grado di trattenere ogni singolo pensiero velenoso. Di norma non mi “approcciavo” in questo modo alle discussioni, ma lui con le sue pretese era in grado di farmi perdere il senno.
    Il suo volto trasfigurò e l’ira divampò in maniera più evidente, semmai fosse stato possibile.
    “Ti consiglio di andare via…” iniziò con una voce bassa e gutturale, come un vulcano pronto ad esplodere. “Fuori dalla mia proprietà!” Il tono sempre più alto. “Non voglio qui dentro, ladruncole ambiziose, che sperano di ingraziarsi il padrone per poi fare il bello e il cattivo tempo!” Adesso quasi urlava. Gli occhi sgranati…
    “Bada bene, Capitano Kenway. Qui, l’unico fuorilegge sei tu… puoi circondarti di cose meravigliose, di una casa sostuosa, ma ricordati che tutto è effimero e la ricchezza materiale poco importa di fronte alla bellezza dell’anima. Ho pensato ci fosse qualcosa di buono in te, almeno ripensando al bambino determinato e deciso che ho salvato quindici anni fa… ma mi sbagliavo. Ciò che ti importa sono solo i tesori e i tuoi bottini!” Avrei voluto urlare al suo pari per sfogare così tutta la mia cocente delusione, e darmi poi della pazza per continuare a provare simili sentimenti per un delinquente del mare. Invece, parlai quasi in un sussurro, con i pugni stretti e la mascella contratta, ma mai abbassando la testa. Il mento in su a sfidare la sua ira.
    Poi, una fragorosa risata rimbalzò tra le quattro mura della stanza. Una risata pesante, di scherno, che scorticò ancora di più la mia anima.
    “Chi ti aspettavi che fossi, Miss Morgan? Il paladino della giustizia giunto in tuo soccorso? Ho il mio codice, la mia morale personale, ma sono un pirata e mi vanto di esserlo con tutto ciò che ne consegue!” Le sue parole non lasciavano spazio a fraintendimenti, ma perché in fondo al mio cuore, continuavo a sperare? “Stupida illusa…”
    “Va’ via da qui, e sii rapida, prima che mi penta di questa mia decisione!” Era tornato al suo tono rauco e minaccioso, ma non temetti un solo istante per la mia incolumità, percepii però un pezzetto di cuore incrinarsi…
    “Non vado via per farti piacere o perché tema che possa farmi del male… Lo faccio perché le uniche due cose che potrebbero trattenermi sono ormai irraggiungibili!”
    “La tavoletta gioviana e… il tuo amore” non dissi però ad alta voce.
    Prima ancora di attendere una sua risposta, mi allontanai da quella sala in cui restavano incastonati sentimenti inconfessabili.
    Non sarei più tornata in quella casa e non avrei più rivisto il Capitano Kenway. Almeno questo era ciò che la ragione mi suggeriva…Avrei dovuto ignorare il cuore che invece scalpitava del tutto contrariato della mia decisione.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 6/7/2020, 10:59
     
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    :Edward:
    L'Havana, 1723
    Quando sbarcai dalla nave del mio amico pirata, Edward Thatch, le banchine della città mi accolsero caotiche e rumorose come sempre. Ero già stato diverse volte qui, per motivi che inizialmente avevano a che vedere con i miei obiettivi di predatore di tesori mentre altre, quelle più recenti, con quello che ero diventato, poco alla volta, negli ultimi anni.
    Non avevo ancora smesso di navigare i mari, di amare farlo per prendermi un minimo della ricchezza che spettava di diritto a tutti gli uomini liberi, ma ora molto spesso i miei viaggi avevano scopi lievemente diversi.
    Sempre e comunque alla ricerca della libertà ma non più solo per me, la mia ciurma e i compagni con cui avevo condiviso molte scorrerie.
    Se ripercorrevo con la mente il mio passato, il cambiamento mi sembrava così naturale e logico... Ah Tabai, il Mentore degli Assassini Caribici, aveva saputo coinvolgermi nella sua lotta in maniera furba.
    L'attacco al forte spagnolo di Punta Guàrico si era rivelato un successo straordinario. Il bottino fu talmente soddisfacente da tenere la Jackdaw per molti mesi alla fonda a Great Inagua, mentre noi pirati spendevano in donne, liquori e partite ai dadi le ricchezze che avevamo depredato dai forzieri militari.
    Nell'immediato non mi ero accorto di alcuni cambiamenti che poi sarebbero apparsi fondamentali, nel corso della mia vita.
    Quando l'oro aveva cominciato a scarseggiare e la noia ad aumentare, Ah Tabai si era presentato sull'isola, con una nuova invitante missione a cui partecipare, consistenti ricchezze da depredare e un obiettivo da eliminare. E un'altra, e un'altra ancora.
    Fino a che Adéwalé mi comunicò la sua decisione di lasciare le scorrerie per unirsi definitivamente alla Setta degli Assassini. Non la presi bene, lo ammetto. Ci separammo a male parole, salvo poi riavvicinarci nel corso delle missioni successive.
    Poco alla volta, il Credo che professavano quegli uomini cominciò ad assumere un significato anche per me. Aveva ragione il Mentore, non eravamo tanto dissimili. Anche se sfruttai il motto - ”Nulla è reale, tutto è lecito” - per ripulirmi un po' la coscienza, con il tempo mi resi conto quanto onore portasse, e quanto stava diventando significativo per me.
    Mi unii anche io agli Assassini, alla fine, anche se non abbandonai il mio equipaggio e il ruolo che avevo per loro. Sempre di onore e di responsabilità si trattava, ma misi tutta la determinazione che avevo speso unicamente nel conseguire ricchezze, nel combattere i Templari e i loro principi marci e corrotti.
    La mia ossessione per quelle si era lievemente placata con il tempo e con un accumulo tale che mi sarebbero servite diverse vite per dilapidarlo.
    Negli anni precedenti, quando ancora la bandiera nera mi rappresentava in toto, insieme alle loro ricchezze avevo privato della vita numerosi rappresentanti dell'Ordine. Avevo scoperto che Du Casse fu il primo di questi, e poi tanti altri lo avevano seguito nella tomba. Avevo scoperto il nome di altri appartenenti alle file dei nostri nemici, e in certi casi, quei nomi avevano rappresentato una piccola sconfitta, un'incrinatura nei miei ricordi che bruciava troppo per soffermarmici a lungo.
    Era una lotta senza quartiere, dove bisognava guardarsi le spalle anche mentre si dormiva. Era pure un gioco, che soddisfaceva il mio amore per il rischio così come lo faceva la pirateria.
    In questo inizio di estate, le sorti della guerra tra le due parti erano particolarmente incerte. Di colpi ne avevamo inferti da una parte e dall'altra, anche abbastanza importanti, ma i Templari avevano appena scoperto e distrutto il nostro covo qui a L'Havana, e il loro fiato era sempre più vicino al nostro collo. Avevano in programma un colpo bello grosso, ed era per questo che anche noi avevamo deciso di mirare al loro cuore.
    Il Governatore di Cuba era un ricco spagnolo di nobili origini, con una villa maestosa e gigantesca, circondata da alte mura e da un giardino che pareva la foresta stessa tanto era ampio; la grande dimora era un simbolo della diseguaglianza sociale che impestava il mondo, e faceva sfigurare le casette bianche, povere e fatiscenti, che si stringevano alle stradine di terra battuta. I suoi beni già consistenti erano aumentati a dismisura con il commercio di schiavi e pietre preziose, e nei sotterranei della dimora conservava un'immensa fortuna.
    Le guardie spagnole che pattugliavano costantemente il cancello d'entrata e i viali del parco privato difendevano quei tesori ma soprattutto la vita del suo abitante: Laureano Torres y Ayala, Governatore e Gran Maestro dell'Ordine nelle Indie Occidentali.
    Tirai il cappuccio bianco sul viso, per nascondere la mia identità e confondermi nel gran viavai della città; volevo fare un giro di ricognizione intorno alle mura di cinta. Notai diversi buchi nella sorveglianza, un gioco da ragazzi approfittarne con il favore dell'oscurità. La mia vittima era lì dentro, e la avrei scovata e uccisa a tempo debito.
    Per far passare il tempo prima del momento opportuno, decisi che mi sarei procurato altre informazioni andando in una delle taverne affollate dai soldati spagnoli; avrei approfittato anche di uno dei numerosi e frequentatissimi bordelli, dove lavoravano prostitute non solo creole ma anche bianche, con gli occhi chiari, quelle che preferivo e sceglievo immancabilmente quando le trovavo.
    Dalle chiacchiere delle guardie ubriache e origliando le confessioni dei clienti delle ragazze riuscii a ottenere nuove preziose informazioni. A dispetto degli apparenti punti deboli della sua abitazione, mi sarei dovuto preoccupare della guardia del corpo del Governatore, un bestione minaccioso soprannominato El Tiburòn, lo Squalo, per la sua pericolosità.
    Quella sera si sarebbe svolta nella tenuta del governatore un ricevimento in onore di un politico di alto profilo, Governatore delle Bahamas, ma anche appartenente allo stesso Ordine che Ayala dirigeva. Woodes Rogers. Se erano insieme, stavano di certo complottando qualcosa, ma l'aspetto migliore era che avrei potuto ucciderli entrambi senza troppa fatica.
    Mi infliltrai durante i festeggiamenti, culminanti con i fuochi d'artificio, sfruttando le fitte ombre in mezzo alle piante e la grande confusione dei numerosi ospiti. Mi avvicinai poco alla volta, senza fretta, alla villa immensa, circondata da un patio molto ampio illuminato da lanterne e fiaccole. Attesi. Anche questo avevo imparato negli anni. L'avventatezza era un lusso che mi concedevo meno di frequente, da quando ero Assassino. Osservavo ben nascosto i movimenti delle pattuglie e l'andirivieni della schiavitù che si affannava a non far mancare a quei ricchi viziati vino, rum, cibo. Infine, la mia pazienza ricevette il giusto compenso. Notai il Governatore staccarsi dagli ospiti insieme ad un uomo più giovane, dalla faccia deturpata da una profonda cicatrice, e dirigersi verso un piccolo salotto all'aperto, deserto, accompagnato da un gigante formidabile. Lo Squalo. Nonostante il caldo soffocante, indossava un'armatura di tutto rispetto, completa di elmo, parabracci, corazza e numerose armi pesanti.
    Passai in mezzo ai cespugli come un'ombra, le lame pronte a scattare.


    Edited by Illiana - 9/7/2020, 09:29
     
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    Finalmente un’altra giornata di udienze penali si era conclusa. Era un periodo molto intenso, come se tutti i delinquenti di Giove si fossero impegnati a darmi una marea di grattacapi. Domani sarebbe stato il giorno dedicato alle udienze civili. I cittadini del mio pianeta avevano l’opportunità di incontrarmi e farmi presente le loro rimostranze e richieste. Come Giudice Supremo era parte del mio ruolo prendermi a cuore le problematiche dei miei sudditi, ma non lo facevo solo per “lavoro”. Mi compenetravo e mi immedesimavo in ogni singola persona che veniva a chiedere un mio consiglio e non era affatto semplice, considerando che ero impegnata in questo tipo di “attività” ormai da secoli. Anche con i futuri detenuti non ero da meno. Nonostante il Codice Penale gioviano imponesse una disciplina ferrea: ad ogni reato coincideva una pena, senza nessuna eccezione, io facevo le cose a modo mio, come sempre. Non era mio costume incontrare gli imputati, ascoltare i loro difensori e accusatori e poi emettere una sentenza fredda e cinica. Ero solita intrattenermi con loro, capire le loro intenzioni, le loro motivazioni e creare una connessione che mi consentisse, attraverso il mio potere di Giudice, di comprendere il loro cuore.
    Moltissimo tempo prima avevo capito che non tutto era sempre solo bianco o nero, che esistevano delle sfumature di grigio in mezzo che mi consentivano di impartire delle condanne più giuste e più eque rispetto alle colpe commesse.
    Questo mio atteggiamento “sopra le righe” faceva infuriare i tre sacerdoti del Tempio, che con i loro modi ossequiosi e falsi non esitavano a farmi notare le mie mancanze nel seguire il protocollo e le regole a cui avrebbe dovuto attenersi un Giudice Supremo, Conte di Giove.
    Io, però, non mi curavo di loro, imponevo la mia visione e potevano fare ben poco per osteggiarmi.
    Ero stata strappata alla mia famiglia fin da bambina, perché ritenuta degna di svolgere il ruolo più bramato, più importante a cui un gioviano potesse mai ambire. Mi avevano formato nel Tempio per i miei doveri e i miei incarichi, lontana dagli affetti e con l’imposizione di non potermi mai più creare una famiglia in futuro. Non era una via che avevo scelto, ma l’avevo accolta con grande onore e diligenza, perché sapevo che moltissime vite gioviane sarebbero dipese dalle mie decisioni, appese al filo del mio giudizio.
    In un primo momento, non avevo ben compreso le rinunce a cui andavo incontro, ma dopo centinaia di anni, avevo preso atto del fatto che la mia vita fosse ricca di doveri e nessun diritto personale. Nike al servizio del pianeta. Nike contessa di Giove, Nike Giudice Supremo e mi ero fusa con questa cultura millenaria che mi aveva invasa fin nel profondo, al tal punto da non desiderare altro.
    Ma non ero solo questo. Vestivo anche i panni di Guerriera, ed era il ruolo in cui potevo sentirmi più libera di esternare la mia vera personalità, senza costrizioni o regole imposte dai Sacerdoti, troppo legati alle tradizioni.
    Ero perfettamente addestrata e padroneggiavo poteri molto potenti. Perciò partecipavo a missioni congiunte con le Guerriere degli altri pianeti, ma non solo… avevo il “diritto-dovere” di organizzare incursioni a protezione e sviluppo di Giove, proprio come avevo fatto moltissimo tempo prima, quando mi ero recata sulla Terra a supervisionare i lavori di ricerca degli esperti gioviani…
    Un profondo moto di tristezza mi pervase, rallentai il passo ma non mi fermai, mentre mi dirigevo al Porto delle Nuvole. Non mi ero neppure resa conto di star andando proprio lì… capitava quasi tutti i giorni. Dopo aver svolto le mie mansioni quotidiane, mi perdevo in pensieri lontani e camminavo…
    Avevo congelato i ricordi in quei lunghi anni, da quando non avevo più messo piede sulla Terra. Non volevo cedere alla delusione e alla malinconia, ma il mio corpo e la mia mente, inconsciamente ricordavano fin troppo bene e mi portavano al Porto, il luogo più “simile” ai posti che avevo visitato e vissuto. Non c’era acqua salata, ma banchi di nebbia tanto densa da sembrare solida e galeoni che parevano a tratti ancorati e a tratti sospesi.
    Ero in procinto di vedere la banchina, quando udii dei passi concitati raggiungermi, mi voltai, seccata da quell’interruzione. Erano dei momenti in cui desideravo stare da sola.
    “Giudice Supremo… Un comunicazione urgente dal Pianeta Terra diretta a lei” mi informò un messo del Tempio. “Sono in attesa di una sua risposta in tempo reale.”
    Il mio cuore perse un battito e… non potevo proprio impedire alla mia anima di reagire ogni volta che avevo notizie dalla Terra, nonostante fosse diventata ormai una procedura standard da oltre ottant’anni.
    “Andiamo…” risposi con una strana ansia nel petto, voltandomi a guardare per un’ultima volta il Porto delle Nuvole.
    Solo dopo pochi minuti mi trovavo nell’ampia sala delle Comunicazioni. Era attrezzata di ogni tecnologia necessaria a mantenere i contatti con gli altri Pianeti del nostro Sistema. In qualità di Guerriera e di Giudice avevo bisogno di essere costantemente informata di tutti i fatti che riguardavano il mio mondo e quello delle altre Guerriere.
    Uno schermo olografico si aprì davanti ai miei occhi e mi trovai di fronte il Gran Maestro dell’Ordine dei Templari delle Indie Occidentali. Non era nulla di nuovo, nell’ultimo periodo, ci confrontavamo spesso con lui, per gestire la missione che gli avevo assegnato: ossia di recuperare il maggior numero di oggetti gioviani rimasti sulla Terra e trafugati da profani terrestri. Solo lui e pochi altri della sua stretta cerchia erano a conoscenza della verità e della nostra natura aliena, ma dopo la disastrosa missione che mi aveva vista protagonista sul Pianeta Blu, avevo preso la decisione di assoldare altri “del posto” per portare a termine questo lavoro.
    L’unica nota stonata in quella visione, però, era che Laureano Torres y Ayala era steso su un letto, ferito all’addome. Curanti e aiutanti andavano avanti e indietro e quando la connessione con me fu stabilità li fece andare tutti via.
    “Giudice Supremo…” iniziò a parlare, nonostante la ferita non pareva stesse troppo male. “Ho delle notizie sensazionali da riportarle.”
    “Bene, parla!” risposi con una certa impazienza di capire cosa fosse successo.
    “Sono stato attaccato nella mia stessa dimora da un membro della Setta degli Assassini. Volevano farmi fuori, fa tutto parte delle nostre schermaglie. Noi attacchiamo loro e viceversa. Evidentemente, dopo che abbiamo sgominato il loro covo qui a L’Avana, volevano fare il colpo grosso, distruggendo il Gran Maestro. Ma non è andata secondo i loro piani. Tramite alcuni informatori sono venuto a conoscenza dell’agguato e mi sono tenuto pronto. Per fortuna ero super protetto, altrimenti ci avrei davvero rimesso la vita. Quel farabutto è molto astuto…”
    Ascoltai tutta la storia con poco interesse… Non avevo voglia di sorbirmi i suoi racconti su quanto era stato bravo e previgente, ma una morsa allo stomaco mi aveva costretta a stare attenta fino alla fine.
    “Sono lieta che non hai riportato ferite gravi… Ma perché mi stai informando di questo evento? Come hai detto tu, sono cose che succedono abitualmente, siamo in guerra!” risposi infastidita dal suo tergiversare e dall’angoscia che mi attanagliava.
    “Questa volta lo abbiamo catturato. Di solito riuscivano a fuggire, sono molto abili a muoversi nell’ombra, ma questa volta avevo un piccolo esercito con me e lo abbiamo fatto prigioniero. In questo momento è sotto torchio. Contiamo di farci dare più informazioni possibili relative alle altre reliquie e cercare conferma per una soffiata ricevuta da un informatore. Forse abbiamo individuato un altro covo di quei delinquenti! Potremmo trovare altri reperti gioviani” affermò tronfio e soddisfatto del suo operato.
    “Benissimo… vediamo cosa ne viene fuori. Come si chiama l’Assassino che avete catturato?” sputai quella domanda, trattenendo il respiro. Nella mia esperienza precedente ne avevo conosciuto uno solo – Ah Tabai – e successivamente avevo chiesto di tenere d’occhio la Confraternita, ma non avevo ricevuto informazioni dettagliate perché si muovevano come spettri…
    “Edward Kenway. Un ex pirata che è entrato nella setta pochi anni orsono. Ci ha dato davvero filo da torcere, ma adesso è finita!”
    Eccola la risposta tanto temuta, ecco la conferma alle mie nefaste sensazioni. Quel maledetto tarlo dubbioso aveva eroso la mia mente e adesso era stato accontentato.
    Il mio volto era fatto di cera… gli occhi fissi e le labbra immobili. Non dissi nulla, spensi la comunicazione olografica e mi lasciai cadere sulla poltrona dietro di me.
    Pensavo furiosamente… Non potevo restare con le mani in mano, lasciando che uccidessero Edward. Era strano pronunciare mentalmente il suo nome, era troppo tempo che non lo facevo più e caddi preda di un terrore folle. Non poteva morire… eravamo distanti, lui probabilmente si era pure dimenticato di me, ma io no. Per quanto ci avevo provato non ci ero riuscita.
    Dovevo trovare un modo per salvarlo, senza mettere a repentaglio l’alleanza con i Templari, loro mi servivano e servivano la causa di Giove.
    “Pensa, Nike. Pensa!”
    […]
    Con un agile balzo scavalcai le mura perimetrali della villa di Torres e atterrai facilmente sull’erbetta curata del giardino sul retro. Era buio e le fiaccole illuminavano solo punti strategici. Seguii la parete fino a raggiungere l’entrata secondaria. Alcune guardie stavano facendo il giro d’ispezione e sarebbero tornate a momenti.
    Mi intrufolai con passo felpato e proseguii sicura all’interno per raggiungere le segrete dell’imponente magione.
    Avevo passato ore a spulciare tutti i documenti e le informazioni che avevamo raccolto sui Templari da quando avevamo stretto la nostra alleanza. Si devono conoscere i nemici, ma anche gli amici. Avevo scovato la planimetria della villa del Gran Maestro e l’avevo memorizzata per intero. Avevo un piano ben congeniato. Nessuno mi avrebbe visto entrare… per l’uscita sarebbe stato un po’ più complicato, ma utilizzando le fogne sotterranee avremmo avuto un ottimo vantaggio. Molte variabili però avrebbero inciso sulla riuscita della mia strategia e la più importante fra tutte era: le condizioni di salute di Edward. Sperai con tutto il cuore di trovarlo vivo innanzitutto, e poi che fosse almeno in grado di camminare. Non avrei mai potuto trascinarlo di peso, sarebbe stato un suicidio, ma dovevo tentare.
    La cosa più importante adesso era giungere nelle carceri senza essere vista, più tardi avrebbero dato l’allarme e più tempo avrei avuto per agire.
    Utilizzando un passaggio segreto nella parete riuscii a raggiungere i sotterranei con relativa facilità. Qui, sapevo esserci almeno due uomini di guardia nell’anticamera che avrebbe portato poi direttamente alle celle. Potei udirli parlare esagitati e adirati.
    “Gli abbiamo fatto la festa a quel farabutto e ancora non vuole togliersi quel risolino insolente dalla faccia” disse uno.
    “Non caveremo nulla da quello lì, è muto come uno spettro… non importa quante volte e quanto forte lo colpiamo, lui non cede!” aggiunse l’altro rassegnato. “Va’ ad informare i piani alti dei nostri ‘progressi’. Il Gran Maestro attende notizie” ordinò colui che doveva essere il più alto in grado. Udii il sottoposto sbuffare sommessamente e allontanarsi. Mi appiattii alla parete e mi nascosi in un anfratto.
    Perfetto! Era la mia occasione.
    Mi avvicinai alle spalle della guardia rimasta, era seduto ad una scrivania e quindi arrivava perfettamente alla mia altezza, lo agguantai ferina per il collo. Strinsi forte usando una tecnica infallibile, fino a che non perse i sensi. Non mi aveva vista, non aveva idea di chi l’avesse attaccato.
    Perquisii l’uomo alla ricerca delle chiavi delle celle, ma non aveva nulla con sé, allora ispezionai la stanza circostante e mi trovai ad aprire un armadietto di medie dimensioni. Vidi degli abiti e delle armi, ma ciò che più colpì fu un profumo familiare che raggiunse le mie narici e le cellule olfattive, riportandomi a tempi lontani e tristi.
    Sandalo e patchouli… non era molto intenso ed era mischiato all’odore del sangue e di chiuso, ma lo recepii con chiarezza, ormai era marchiato nella mia mente.
    Dovevano essere gli effetti personali di Edward, non c’erano dubbi. Afferrai con cura il suo camicione e non resistetti alla tentazione di odorarlo. Profumava di lui e del dolore che aveva sopportato. Mi riscossi dal torpore e finii di recuperare la sua roba, mi caricai di due pistole, due sciabole e una lama collegata ad uno strano congegno a scatto.
    Non c’era molto tempo!
    Mi avvicinai alla porta che dava in uno stretto corridoio e appese a un chiodo vidi un grosso mazzo di chiavi. Lo agguantai e mi diressi nel piccolo passaggio dove vi erano le celle. Non c’erano altri prigionieri, quindi Edward aveva agito da solo. Meglio così… nell’ultima angusta cella lo vidi. Senza neppure pensare mi affannai, un po' impedita dai numerosi oggetti che trasportavo, ad aprire la serratura arrugginita ed entrai con irruenza. Lo spettacolo che mi si parò d’innanzi mi gelò il sangue nelle vene e le armi e gli abiti che tenevo fra le braccia franarono al suolo, al pari del mio cuore, solo che quest’ultimo si frantumò in minuscoli pezzi.
    Edward era incatenato per i polsi e assicurato alla parete di roccia maleodorante e piena di muffa. Indossava i calzoni ed era a torso nudo. Era ricoperto di sangue e fu difficile stimare la gravità delle sue ferite, ma riuscii a distinguere numerosi tagli, contusioni, lacerazioni e ustioni.
    Inorridita da una simile visione, incurante di ciò che avrebbe potuto pensare o dire mi avvicinai a lui e gli presi il viso tra le mani. I suoi lunghi capelli erano madidi di sudore e sangue, glieli scostai e lo guardai dritto in faccia. Avevo bisogno di vedere i suoi meravigliosi occhi blu, ma le sue palpebre erano semichiuse e l’incoscienza incombeva maligna sui suoi sensi.
    “Edward, Edward mi senti? Ma cosa ti hanno fatto…” Quell’ultima frase, che non era una domanda, parve una formula magica, perché lo portò ad aprire gli occhi e così facendo schiuse la porta verso il blu cobalto dell’oceano che tanto amava.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 9/7/2020, 20:46
     
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    La porta della cella si aprì, e nella confusione che avevo in testa, maledissi quei due bastardi. Se ne erano appena andati, avevano appena finito di perdere il loro tempo con me, perché tornavano? Erano sempre più incazzati perché non ottenevano nulla da me, nulla che potesse soddisfare il loro padrone, ma eseguivano degli ordini e ogni giorno si accanivano fino a che non erano stanchi. Stanchi di ricevere i miei insulti e scherni, stanchi di colpirmi.
    La cella era ricavata dalla roccia, non c'erano finestre. Non potevo misurare il tempo che avevo passato qui, mi potevo regolare solo con le loro “visite”. Quindi era già passato un giorno? Forse ero svenuto per ore, ma non ne avevo nessuna certezza.
    Avevo bisogno di riposare, andassero alla malora. Non li avrei degnati di considerazione, che mi risvegliassero con una secchiata d'acqua come al solito... almeno mi sarei lavato via il sangue e il puzzo che mi sentivo addosso.
    Sentii rumori indistinti, poi un tocco gentile sul viso. Non capivo, avevo troppo caos in testa.
    “Edward, Edward mi senti? Ma cosa ti hanno fatto…”
    Aprii gli occhi, a fatica, incuriosito. Non poteva essere lei, anche se non avrei mai dimenticato la sua voce.
    Quando la vista si schiarì, lo sbalordimento fu tale che fu come ricevere un colpo allo stomaco. Irrigidii i muscoli di riflesso, alzando la testa di scatto. Fu una visione, o almeno lo pensai per qualche secondo, mentre osservavo quel viso dai lineamenti perfetti, ancora, sempre perfetti. Le sue labbra tremavano per un'emozione che non afferravo.
    Quello che provavo, anche se non avrei saputo giustificarlo neanche mi avessero torturato per altri mesi interi, era il desiderio che mi colpì, violento. Avrei voluto baciarla, ad ogni costo e condizione, anche se nel contempo mi avesse piantato un coltello nel cuore. Mi sarei perso nei suoi occhi, e avrei voluto tornare volentieri a quell'unica notte che avevamo trascorso insieme, quando tra di noi non c'era tutto quello che c'era ora.
    Sfilai il viso dalle sue mani. Non era il momento di giocare: non ero così istupidito da cadere nei loro tranelli.
    ”Miss Morgan! Alice... tra tutte le persone, non sei certo chi mi aspettavo di vedere! I tuoi compagni ti hanno mandato qui per provare in altro modo ad ottenere informazioni? In effetti, potrebbe anche funzionare, con te...”
    Il tono era pesantemente canzonatorio e sarcastico. La vidi scuotere la testa lievemente, addolorata.
    “Edward, sono venuta per liberarti, non voglio che ti uccidano!”
    Mossi le braccia di quel poco che me lo consentivano le catene.
    ”Allora, liberami...”
    Alice si mise subito a provare le chiavi, per trovare quella che apriva i lucchetti che mi imprigionavano. Strinsi i denti, cercando di capire il senso di quello che stava succedendo; le emozioni fortissime che si erano scatenate al vederla non avevano nulla a che fare con la debolezza della tortura, ciononostante ero davvero ad un passo dal perdere conoscenza, stremato. Avevo bisogno di riprendermi.
    Quando fui libero, scivolai sul pavimento. I muscoli delle gambe erano irrigiditi dalla posizione che avevano tenuto per giorni interni. A carponi raggiunsi il secchio di legno colmo d'acqua. Bevvi lunghi sorsi malgrado sapesse di marcio, poi usai quella che rimaneva versandomela addosso, per togliermi lo sporco che avevo accumulato. L'acqua penetrò nelle ferite ancora aperte, facendomi rabbrividire dal dolore. La mano di Miss Morgan mi toccò il braccio.
    “Dobbiamo andare...”
    Mi rialzai a fatica, e Alice mi avvicinò la casacca, porgendomela sulle braccia come fosse un vestiario sacro. Questo era anche quello che vedevo nel suo sguardo: solennità, orgoglio, fierezza.
    Mi fece uno strano effetto, quel momento. Indossai i miei abiti, rabbrividendo nuovamente per il dolore del tessuto che strofinava la pelle martoriata.
    ”Quei maledetti, quei bastardi. Hanno in mente qualcosa, ma non ho capito cosa volessero sapere...”
    Legai la fascia rossa degli assassini alla vita, assicurai le cinghie dei foderi, delle cinture. Inserii le pistole, anche se scariche, nel loro posto. Infilai le lame ai polsi, le sciabole e... mi bloccai, fissando Alice. ”Hai preso tutto?” Lei annuì.
    ”Manca la cerbottana!” Quasi urlai. L'arma che mi aveva donato Ah Tabai, fabbricata dai guerrieri della sua tribù, decorata con simboli tipici della loro cultura. Perché la avevano presa, e non si erano interessati per esempio alle mie lame celate? Rogers, quando era presente ai miei interrogatori, la teneva in mano...
    Improvvisamente, tutto cominciava ad avere un senso. Il Governatore, un templare anche lui ovviamente, non si era più fatto vedere da qualche giorno. La collera, l'inquietudine mi diedero vigore: mi precipitai fuori dalla cella, con Alice che mi seguiva.
    Percorremmo uno stretto corridoio, raggiungemmo una stanza dove intravvidi una guardia riversa. Inarcai un sopracciglio per lo stupore: Miss Morgan aveva davvero combattuto per arrivare da me...
    Lei mi superò per indicarmi l'entrata di un passaggio segreto che avremmo dovuto usare per fuggire, ma la presi per un braccio e ci nascondemmo in un anfratto buio. Non era ancora il momento di andarmene da lì. Avevo udito dei passi avvicinarsi, e quando furono più vicini scattai per bloccare con il corpo una delle due guardie che si erano prese cura di me in prigione. Gli misi un braccio sul collo, premendo con fermezza.
    “Guarda un po' la vita! Ti ricordi che avevo giurato di ricambiare le tue carezze, prima o poi?”
    Aumentai la pressione “Ora stammi a sentire, perché non ho più voglia di scherzare. Dove è il Governatore Rogers? Se non me lo dici immediatamente, ti schiaccio la gola e puoi dire addio alla vita!”
    ”Non è più qui... è partito giorni fa... per lo Yucatàn...!”
    Premetti ancora fino a che gli occhi del bastardo stavano per uscirli dalle orbite. Lo lasciai solo quando mi accorsi che non poteva più rispondere. Crollò a terra, ed io mi appoggiai al muro per non andargli dietro.
    “No, non l'ho ucciso, anche se se lo sarebbe meritato, quel farabutto...”
    Sputai fuori all'occhiata stupita di Alice. Ero cambiato, anche se non di molto. Una volta, avrei ammazzato per molto meno, ma ora il Credo mi imponeva di non uccidere gli innocenti, e quel soldato, anche se era un vile meschino, aveva eseguito solo degli ordini.
    Avevo scoperto il piano dei templari: dopo l'Havana, stavano cercando altri covi degli Assassini; la mia arma poteva rivelare loro dove si trovava quello di Ah Tabai, e Rogers era già partito in spedizione per attaccarlo e sterminare gli assassini. Dovevo fermarlo.
    E non potevo permettermi passi falsi. Alice era una templare, una di loro. Per quale motivo mi avesse tirato fuori da questa situazione difficile, non avevo tempo di capirlo. Non potevo neanche lasciarla indietro, in modo che potesse andare a riferire l'accaduto al Gran Maestro, per quanto in tutto questo ci fossero diverse cose che non tornavano.
    Eppure, negli anni in cui avevo raccolto informazioni e cacciato i templari, molto spesso era venuto fuori il suo nome. Sulle prime avevo creduto ad un coincidenza, ma poi gli indizi erano aumentati, e reliquie simili a quella che ancora custodivo a Great Inagua erano diventate la posta in gioco della guerra tra noi e i nostri nemici. Ah Tabai mi aveva raccontato come erano andati i fatti che avevano fatto incrociare le nostre strade: la avevano sorpresa in un sito dei Precursori, intenta a sottrarre gli oggetti che vi erano custoditi.
    Cosa avrei dovuto fare con lei? L'unica mia scelta era di portarmela dietro, e vedere come si sarebbe comportata. Attraversammo velocemente il passaggio segreto, chiudendolo dietro di noi.
    Mentre mettevamo della distanza tra noi e la villa del Governatore, cercavo freneticamente di architettare un piano di azione. La preoccupazione serviva da molla per andare avanti e per ignorare il dolore delle ferite. Dovemmo fermarci e nasconderci molto spesso, durante la fuga, per evitare le guardie spagnole che pattugliavano le strade. Potevano non riconoscermi, ma non volevo rischiare.
    Il tempo giocava a mio svantaggio. Dovevamo sbrigarci prima che scoprissero che il loro prigioniero si era volatilizzato.
    Con profonda rabbia, il mio corpo, per una volta tanto, non riusciva a stare al passo con la mia strenua volontà. Trovai un androne buio e mi appoggiai al muro, per riprendere fiato. La gola mi bruciava come se stessi respirando fuoco.
    ”Non puoi continuare così. Devi riposarti...”
    ”NO!” Il monosillabo sembrò un ringhio. Il furore mi restituì l'impeto. La afferrai per le spalle, le mani strinsero in maniera spasmodica. Vennero fuori tutto il mio accanimento, la mia paura, ma anche i sentimenti che tenevo da parte, troppo pericolosi in quel momento.
    ”Lo sai dove stanno andando i tuoi alleati? A distruggere il nostro covo a Tulum! Adéwalé si trova lì e anche Ah Tabai! Devo fermarli, o non me lo perdonerò mai! Hai capito?”
    Dovevo sembrare un diavolo, gli occhi spalancai, le labbra tirate sui denti, il tono incalzante e carico. Eppure, lei non si mosse di un millimetro, e il suo sguardo possedeva una calma così assoluta da donarmi la speranza che sarebbe andato tutto bene, in qualche modo.
    Rimanemmo qualche secondo immobili, poi lei parlò in modo pacato.
    ”Lasciami, mi stai facendo male”
    Invece di ubbidirle, la attirai a me e la baciai. Avevo bisogno di farlo più di ogni altra cosa. Più dell'acqua per placare la sete o delle cure sulle ferite. Era un desiderio irriducibile, forte, molto più presente e palpabile di quello che avevo provato anni prima per lei. Come se fosse cresciuto ed esploso in quell'esatto istante. A quel punto, la lasciai andare. La testa mi girava, avevo il fiato grosso e la debolezza era di nuovo incombente.
    ”Dobbiamo muoverci”
    Arrivammo alle banchine del porto che quasi barcollavo, ma stringevo i denti per non crollare. La Queen Anne's Revenge, la fregata di Barbanera, era ancora lì. Tatch, con il tricorno decorato con lunghe piume nere, mi avvistò dal ponte, attirò la mia attenzione e mi raggiunse sulla banchina. Squadrò me e Miss Morgan, senza dire una parola.
    ”Tatch, amico mio, ho bisogno di un passaggio urgente per Tulum, è una questione di vita o di morte!”
    ”Kenway, che cosa è successo? Non so quali affari ti abbiano trattenuto per giorni a L'Havana, ma non hai per niente un bell'aspetto!”
    ”Puoi aiutarmi?”
    Tatch annuì lentamente, poi però puntò il mento verso Alice.
    “Ma come la mettiamo con la donna? Lo conosci il nostro codice per quanto riguarda le femmine a bordo...”
    Mi umettai le labbra. Lo conoscevo bene, quel divieto, ma sapevo anche che era prevista un'eccezione.
    “Sai quali erano gli affari che avevo qui? Erano per lei. Dovevo andarmi a riprendere... mia moglie!”
    In quel momento, in lontananza, proveniente dalla villa del Governatore, arrivarono i rintocchi della campana d'allarme. La mia sparizione era stata notata.
    ”Aye... vedo...”
    Mi gettò un'ultima occhiata, arricciando la bocca. Non era stupido, aveva scoperto subito la bugia, e in un momento di tranquillità, quando lo avremo avuto, gli avrei riferito come era davvero andate le cose. Ma per la stima e il rispetto che c'era tra noi, aveva deciso di stare al mio gioco davanti al suo equipaggio.
    Mentre risalivamo tutti e tre per la scaletta, si girò per sibilarmi, allusivo: “Puoi usare il mio alloggio, temporaneamente. Per rimetterti a posto o per fare quel che ti pare. Penso che fino a stasera non ne avrò bisogno...”
    Poi, appena messo piede a bordo, cominciò a urlare ordini per salpare immediatamente.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 12/7/2020, 13:43
     
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