Mirror Dimension (Auditore's Doom)

Earth Prime

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    Annarita
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    Jordan
    Avevo deciso che lo avrei fatto, dovevo farlo.
    Mi muovevo piano, quatto quatto, leggermente piegato sulle ginocchia, lungo la siepe a nord che delimitava il grande giardino di villa Auditore. Stavo attento che nessuno mi notasse, ma il luogo in cui ero diretto era del tutto riparato da occhi indiscreti, perciò saremmo dovuti essere al sicuro.
    Una volta giunto in prossimità dell’accesso, mi acquattai ancora di più: il mio arrivo doveva essere una…
    “Sorpresa!” Non urlai, no, ma lo stesso riuscii a far prendere a mio fratello Ezio un colpo quasi mortale. Tutto assorto com’era di fronte al suo prezioso cavalletto in legno di ciliegio, ovviamente, non mi aveva udito arrivare e io ero riuscito nel mio intento.
    “Brutto figlio di…” La voce del mio fratellone era affannata e per poco riuscii a schivare un suo pugno armato di pennello: come diamine avrei potuto spiegare baffi di colore sul mio volto angelico?
    “Non dirlo, non dirlo, è anche tua madre!” lo imbeccai con un’occhiata truce, mentre mi avvicinavo e fissavo la sua tela. L’aveva cominciata da poco, ma già si cominciava a capire – anche grazie al disegno di base – il soggetto principale. “Stai davvero dipingendo Claudia? Oh, e adesso chi la sopporterà più… si pavoneggerà a vita!” mi lamentai sbuffando e poi, con un agile balzo, mi sedetti su una serie di pietre levigate che avevamo posto lì a mo’ di panchina.
    “Perché non dovrei dipingere nostra sorella? Almeno ho il vantaggio di avere una sua istantanea sempre con me, nella mia mente. Ogni angolo nascosto di questo giardino mi ha fatto da modello, ma mi sono stufato di dedicarmi solo alla natura…” Eccolo che ripartiva con le sue dissertazioni sull’ispirazione, sulla mancanza di soggetti utili, sulla sua volontà di potersi dedicare a questa passione alla luce del sole… se solo…
    “Potrei portarti altre fotografie… sì, sì, lo so, adori avere modelli ‘vivi” davanti, ma cosa ci possiamo fare se siamo figli di un padre dispotico e di una madre senza spina dorsale?” Il suo sguardo truce mi trafisse come una spada. Non gli piaceva quando esprimevo le mie opinioni così “alla leggera”, perciò mi aveva rimproverato un miliardo di volte, ma a me non importava. “È la realtà, lo sai anche tu. Ti sembra normale che abbiamo dovuto creare un rifugio per permettere a te di dedicarti a una tua passione? Per poterci riunire tutti senza che un suo tirapiedi ci stia appresso? Un luogo dove Claudia potesse nascondersi dai suoi pretendenti imposti? E nostra madre… non muove un solo dito per difenderci? Mentre Federico, se si azzarda a dire una sola parola, viene messo a tacere come se fosse l’ultimo dei suoi scagnozzi… pff, non zittirmi, so quello che dico e mi fa infuriare!”
    Ezio lasciò passare qualche minuto prima di rispondere alla mia arringa. Conosceva bene il mio cuore, così come io conoscevo il suo. Sapeva anche molto bene le angherie a cui io stesso ero sottoposto, anche se non mi ero menzionato nella lista delle ingiustizie subite. Non potevo, io in fondo non possedevo qualità particolari come i miei fratelli e, in qualche modo, ero davvero l’unico che il “grande” Giovanni Auditore aveva ragione a schernire: come poteva sopportare di aver generato un figlio tanto inutile? Ciò nonostante, non riuscivo a digerire che un grande artista come Ezio dovesse nascondere il suo talento; che una giovane donna, intelligente e bellissima come Claudia, non avesse la libertà di vivere la sua vita; che un ragazzo valoroso come Federico vivesse nella sua ombra più oscura, in cerca di approvazione.
    “Non farlo, non farlo, Pietruccio. Non pensare che tu abbia qualcosa in meno di noi, perché non è così.” La sua risposta non era quella che mi ero aspettato. Avevo previsto la solita predica conciliante, in cui cercava di riportarmi sulla retta via, invece…
    “Come hai fatto a leggermi nel pensiero?” gli chiesi allibito.
    “Perché sei mio fratello? Perché sei un libro aperto? Perché in quei tuoi occhi da cucciolo riesco a vedere il mondo che si nasconde dentro di te? E chissà per quanto sarà così…”
    Questa volta fu il mio turno di fissarlo di sbieco. Non capivo se fosse sarcastico o meno, aveva lo sguardo sulla tela, la mano che stringeva il pennello sotto il mento, la schiena era un po’ tesa ma non era una novità.
    “Occhi da cucciolo? Mi stai prendendo in giro?” gli chiesi con voce ironica, in attesa che si voltasse verso di me, sapevo che l’avrebbe fatto, faceva parte della sua naturale teatralità. Trascorsero i secondi, e poi i minuti, ma… nulla accadde. Riprese a dipingere. “Ezio… tutto ok? Ho la sensazione che tu mi stia nascondendo qualcosa e il tuo tono di prima non mi piace affatto. Vuoi davvero obbligare le mie giovani membra ad alzarsi, venire da te, e farti sputare la verità?”
    La sua risata divertita riempì quello spazio non troppo grande e mi lasciò di stucco.
    “Cosa avresti intenzione di fare, nanerottolo?”
    Oh, allora voleva la guerra?! Mi alzai in un lampo e con altrettanta velocità gli saltai sulle spalle, facendogli perdere l’equilibrio. “Ora ti do un bell’assaggio!” cominciai a strattonarlo e cascammo entrambi a gambe all’aria, i pennelli sporchi in grembo, schizzi di colori vari erano sparsi ovunque, addosso e intorno a noi… Non resistemmo un solo attimo e scoppiammo a ridere a crepapelle. Mi tenevo lo stomaco e le ciglia mi si riempirono di lacrime.
    In quel preciso istante, Claudia e Federico arrivarono al rifugio, trovandoci in quello stato pietoso non poterono fare a meno di seguirci nelle risate.
    “Avete intenzione di aiutarci o di continuare a ridere come dei babbei?” li spronai fintamente irritato, mentre tendevo una mano all’altro mio fratellone e regalavo subito dopo un sorriso a trentadue denti alla mia sorellona. Amavo i miei fratelli, erano tutto ciò che avevo, mi facevano sentire al sicuro, mi ricordavano ogni istante di avere un valore. Senza di loro, sarei stato solo un puntino insignificante in un universo governato dal caos.
    Li avrei tenuti sempre al sicuro e vicini a me, ecco la promessa che mi feci quel giorno.
    Avevo 15 anni e, col senno del poi, mi resi conto di quanto Ezio fosse stato abile e io ingenuo con quella sua simulata provocazione. Aveva distolto la mia attenzione da un concetto molto importante che, a mia insaputa, mi avrebbe cambiato la vita: la solitudine.


    Edited by KillerCreed - 6/8/2020, 17:19
     
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    “Sei silenziosa...” la voce di Federico mi arrivò alle orecchie bassa e calda, come sempre. Aveva tuttavia un tono apprensivo e dolce, che raramente lasciava trapelare con chi non fossero i suoi fratelli.
    Io dal canto mio stringevo il suo braccio e camminavo pensierosa, un'ansia crescente che mi attorcigliava le budella e la sensazione sempre più opprimente che la mia giovane e spensierata vita era vicino alla fine.
    "Sono solo pensierosa... dubito fortemente che avrò modo di rifiutare le nozze che nostro padre sta organizzando per me..." lo dissi alzando il mio sguardo fiero e puntandolo in quella di mio fratello.
    Era così orgoglioso e bellissimo nella sua tenuta da Sith, seppur sognavo per lui un futuro diverso che quello di essere il tirapiedi di nostro padre.
    “Lo impedirò. Non permetterò che tu vada in sposa a tal verme...” lo disse con la mascella contratta, quella che troppo spesso ero solita vedergli.
    "Vorrei solo vederti sorridere Federico... tu meriti di essere felice e spensierato, non l'uomo privo di sentimenti e triste in cui nostro padre ti ha trasformato!" mormorai fermandomi ed alzando una mano accarezzando il suo viso. Quella stessa mano che lui prese tra le sue e di cui baciò il dorso.
    “Lo stesso che io auspico per te sorella mia...”
    Ci guardammo sorridendoci, ma in noi c'era la malinconia e la certezza che tali speranze sarebbero state vane. Non esisteva felicità per gli Auditore, ma solo il violento e feroce volere di nostro padre e della sua folle fame di potere.
    Fu con quell'animo che raggiungemmo i nostri fratelli e grazie a loro, come sempre, finimmo per scoppiare a ridere per come li trovammo.
    “Avete intenzione di aiutarci o di continuare a ridere come dei babbei?” ci prese in giro Petruccio che velocemente raggiungemmo, e così insieme ad Ezio finimmo anche noi in una battaglia -senza esclusioni di colpi- tra pennellate e colore.
    Imbrattati, ma felici, stesi per terra, rimanemmo fino al tramonto. Fissavamo il cielo e sognavamo la nostra vita. Non avevamo paura di esprimere ad alta voce i nostri pensieri o i nostri desideri con la promessa di non permettere alla realtà di intaccare quei momenti di piena gioia. Momenti puri che, grazie a Dio, non erano mai stati intaccati dall'ingordigia, dalla violenza e dall'odio.

    Gli eventi non erano stati magnanimi con noi ed ogni volta che volevo sperare nella bellezza e nella speranza di raggiungerla, chiudevo gli occhi e ripensavo a quel nostro ultimo momento insieme. In quel giardino di rose e ginestre che ci aveva regalato il miglior tramonto della nostra vita. Federico ed Ezio, a distanza di poco tempo, erano morti uno dopo l'altro lasciando me e Pietruccio sempre più soli e sempre più uniti. Ma percepivo nell'aria il cambiamento, sapevo che presto anche io me ne sarei andata e per combattere la triste sorte che mi aspettava Pietruccio mi aveva proposto di fuggire con lui. Con attenzione e senza attirare l'attenzione avevamo iniziato a preparare il tutto, ma quando Petruccio mi trovò nella sua stanza ad aspettarlo, da ritorno da scuola, capì che qualcosa non andava.
    “Che cosa è successo?”
    "Papà ha congelato i nostri conti bancari e i documenti... sapeva quello che volevamo fare... non possiamo più andarcene!" lo dissi con l'esasperazione nella voce, ma una scintilla di luce c'era sempre nei suoi occhi. Di speranza. Ma tutto durò molto poco perchè nostro padre comparve sulla soglia della stanza. Scattai in piedi mentre mio fratello, come per sua natura, si parò davanti per proteggermi.
    “Sciocchi pensavate davvero che non me ne sarei accorto? Ammetto che liberarmi di te, buona a nulla, non mi interessa, ma tua sorella è merce preziosa!”
    “Non osare toccarla!
    “E chi me lo dovrebbe impedire? Tu?” lo chiese con una risata di scherno quando senza nemmeno muovere un dito fece volare Pietruccio dall'altra parte della stanza. Così forte, che sbattendo la schiena contro la libreria, questa gli cadde addosso bloccandolo.
    Io feci per lanciarmi su di lui con l'intento di aiutarlo, ma i poteri di mio padre prima e la sua mano sul mio braccio poi, me lo impedì.
    “Il Presidente del Clan Bancario Intergalattico ti ha chiesto in sposa ed io non mi farò sfuggire l'occasione, è un alleato fondamentale e questa unione renderà l'Impero forte!”
    "L'Impero! Solo di questo ti importa, di lui e di quel bamboccio che hai preferito ai tuoi figli!" lo dissi sprezzante e per questo guadagnandomi uno schiaffo di rovescio che non solo mi fece cadere a terra, ma mi ruppe anche il labbro.
    I miei occhi si fissarono in quelli di Petruccio, mentre allungando una mano ne accarezzai le dita. Sapevamo entrambi che non ci saremmo mai rivisti e quando mi sentì trascinare ne ero certa.
    Qualcuno alle mie spalle mi aveva preso per la vita e dopo avermi tirata in piedi insieme a qualcun'altro, tenendomi uno per un braccio ed uno per un altro, mi portarono via contro le mie richieste. Erano due redivivi, gli scagnozzi in erba di mio padre.
    "NO LASCIATEMI! NON CI VOGLIO ANDARE! TI ODIO PADRE, RICORDATELO TI ODIO! SPERO CHE TU SOFFRA! TI ODIO! NO NO LASCIATEMI! MADRE MADRE VI PREGO AIUTATEMI... NO NO NO PIETRUCCIO!" urlai come un ossessa, come una persona che stava venendo trascinata al patibolo. Sentì Petruccio urlare, lo vidi sforzarsi di liberarsi, ma non ci fu nulla da fare.
    Da quel giorno non rividi più la mia casa, l'unica famiglia che mi era rimasta. Quel giorno morì la mia innocenza, le mie speranza, la mia fiducia nel domani e nelle persone. Quel giorno Claudia Auditore morì.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 5/8/2020, 21:54
     
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    Ho freddo. Non riesco a vedere nulla. È buio pesto e non sento più le mani, né i piedi. Tremo fin dentro l’anima, per tante ragioni, ma nessuna di queste è riconducibile al gelo che mi ha tolto ogni sensibilità.
    Viaggiamo da ore, forse giorni, ho perso la cognizione del tempo. Tempo che non ha più un significato da quando le mie dita hanno sfiorato, per l’ultima volta, quelle dell’unica persona cara che mi era rimasta al mondo. Claudia, la mia Claudia. L’avevo persa, ne ero certo. No, non sarebbe morta, Giovanni Auditore non l’avrebbe permesso, anche se so che lei avrebbe preferito di gran lunga questo epilogo per la sua giovane vita.
    Per quanto mi riguarda? Non ho più alcuna certezza. Sono chiuso in un cubicolo di metallo tanto angusto da togliermi il respiro, solo alcune fessure sulla sommità permettono all’aria di entrare, anche se non è sufficiente e inspiro con affanno. Sono stato trasportato come un pacco postale, cambiando più volte mezzo. E di nuovo ho perso ogni riferimento… solo il gelo mi impedisce di perdere coscienza, di lasciarmi andare all’oscurità; ok, forse non è solamente quello. Dentro di me continua ad ardere una piccola fiammella, minuscola, quasi invisibile: speranza?
    Sono uno sciocco, il solito ingenuo che cerca sempre di scovare il lato positivo anche in un vaso di scorpioni velenosi. Mi sento come se quegli stessi scorpioni mi abbiano punto ancora e ancora, mentre il loro veleno si diffonde dentro di me, lasciandomi debole ma dannatamente lucido. Attendo l’oblio come una liberazione, ma tarda ad arrivare e io sono sempre più stanco… di lottare, di ricordare, di sperare. Voglio cancellare ogni cosa, voglio che tutto finisca, voglio dimenticare la mia breve e stupida esistenza…
    Mi rendo a malapena conto che ci siamo fermati, che il “pacco” in cui sono rinchiuso viene prelevato e trasportato. Dalle strette feritoie vedo una luce argentata e fiocchi di ghiaccio si incuneano abili, fino a raggiungere il mio viso. Apro la bocca, con l’assurda voglia di placare la sete che mi divora, ma la richiudo subito: che senso ha prolungare l’agonia?
    Mi sento calare giù, nella profondità di una terra ghiacciata e inospitale, forse ho capito dove siamo ma non oso pronunciarne il nome neppure coi pensieri. Tanto… non sarebbe cambiato nulla. A un certo punto, dalle fessure inizia a filtrare quella stessa terra e stranamente sospiro. È sollievo? Di certo non è paura. Non mi copro il viso con le braccia, lascio che il terriccio mi ricopra per intero fino ad annullare qualsiasi lama di luce.
    È finita. È davvero finita. Non ci sarà più sofferenza e ingiustizia, neanche i ricordi torneranno a tormentarmi. Potrò riposare nelle viscere di un luogo di cui non si conosce neppure l’esistenza, ciò nonostante, percepisco questa tomba come la più dolce che avessi mai potuto desiderare.
    Qui avrei riposato in pace, finalmente libero.


    :Jordan:
    Terrigenesi. Fino a cinque anni fa non avevo la più pallida di cosa questa parola significasse, di cosa fosse in grado di generare, di quanto avesse potuto cambiare la mia intera esistenza. Sì, perché, la tomba di metallo e ghiaccio non aveva ospitato a lungo le mie spoglie. Al contrario, solo poche ore dopo, era stata scardinata e portata in superficie. Un fortissimo terremoto aveva sconvolto la profondità della terra per permettermi di ritornare alla vita. Non poteva essere stato un caso, ma ancora ero in cerca della reale motivazione per la quale il mio Maestro aveva deciso di salvarmi.
    Solo adesso, mentre guardavo la sua espressione immobile, sfioravo il suo profilo fin troppo giovane per gli anni che aveva vissuto, mi ritornava in mente il tempo trascorso assieme. Era stato un Jedi, ma non solo. Aveva dedicato tutta la sua vita all’alchimia e allo studio della terrigenesi, un fenomeno rivoluzionario che – se usato con la dovuta arguzia – avrebbe potuto causare ingenti cambiamenti, di certo innovativi. A causa di questi esperimenti era stato esiliato dalla Confraternita, ma ciò non gli aveva impedito di continuare gli studi. Dopo decenni, però, tutti i suoi sforzi e sacrifici avevano trovato una realizzazione: me.
    Ancora faticavo a ricordare quei primi momenti in cui il sangue aveva ripreso a irrorare le vene, il respiro a ossigenare i polmoni, il cuore a pulsare tanto forte da sembrare un tamburo di guerra. Erano stati istanti surreali, ma assurdamente magnifici.
    Fin da subito avevo capito che qualcosa era cambiato, anzi no, tutto era completamente diverso!
    Il mio corpo pareva aver aumentato la sua massa muscolare, un’energia ultraterrena mi formicolava sotto pelle, l’udito e la vista erano potenti come non lo erano mai stati.
    Quando ero riuscito a liberarmi dai detriti che mi ricoprivano, mi ero reso conto di essere ancora sul pianeta di ghiaccio, mia presunta ultima destinazione. Ma non avevo freddo, non più.
    Solo dopo aver vagato per alcuni metri avevo incontrato colui che mi aveva risvegliato: Altaïr Ibn-LaʼAhad. Si era presentato, mi aveva spiegato ogni cosa e portato con sé.
    Il mio mentore, la mia guida, il padre che non avevo mai avuto. Adesso era di fronte a me, le palpebre serrate, i lineamenti sereni, a breve si sarebbe finalmente ricongiunto alla Forza e io gli sarei stato accanto fino all’ultimo.
    Quei cinque anni erano stati un dono prezioso, mi avevano permesso di crescere, addestrarmi, conoscere il mio corpo e le mie nuove capacità. Avevo persino conosciuto l’amore paterno: Altaïr, con le sue parole di conforto, era riuscito a tirarmi fuori dal baratro dell’insicurezza e a indicarmi la via, imprimendo in me la sua stessa tenacia.
    “Non ti dimenticherò mai…” mormorai appena, mentre le sue spoglie si sublimavano davanti ai miei occhi lucidi, trasformandosi in pura energia, fondendosi di nuovo alla Forza dell’universo. Lui sì che ne era degno. Io? Avrei lavorato per diventarlo.
    […]
    Mi guardo allo specchio per un tempo infinito. “Mi riconoscerà?” mi domando nervoso, mentre con le dita disegno il mio profilo sulla superficie riflettente. Gli zigomi alti, la mascella importante, il naso scolpito, la fronte ampia. Le mie iridi di cioccolato si sono trasformate in pezzi di vetro cristallizzato; la pelle olivastra adesso è levigata e bianca come la neve; i capelli, un tempo quasi neri, ora sono molto chiari. Non sono gli anni passati ad avermi cambiato, ma la terrigenesi e le prove che mi sono ritrovato ad affrontare.
    Poi sorrido. E tiro un sospiro di sollievo. Quello no, non è cambiato, così come non è cambiato l’amore che ho per lei. È tutto ciò che mi resta al mondo e io manterrò la promessa fatta tanto tempo prima: la terrò al sicuro e al mio fianco, per sempre.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 6/8/2020, 20:02
     
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    :Claudia:
    “Mia adorata, ti prego vieni a conoscere il nostro illustre ospite. Jordan Mahkent. L'uomo del mistero dell'Impero!”
    Ogni volta che mio marito mi presentava con la sua falsa premura io alzavo un sopracciglio, ignoravo le sue moine e molto spesso anche i suoi ospiti. Tutti lo invidiavano, per la sua giovane moglie, per la sua immensa ricchezza e per il suo status, mentre io mi crogiolavo dietro quella finta sicurezza che negli anni avevo imparato a costruire come un'armatura.
    Non era facile venir constatemene abusata, picchiata ed umiliata, ma ero diventata brava a coprire i miei lividi ed indossare i miei migliori sorrisi. Più suadenti degli eleganti e procaci abiti che indossavo.
    "Incantata. Mio marito non fa che parlare di Voi..." dissi non curante, con finto perbenismo ed interesse, mentre quell'uomo dagli occhi magnetici mi faceva un baciamano galante e sincero.
    “E come non farlo? Grazie a quest'uomo il colpo di stato della Confederazione ha avuto successo quanto la nascita dell'Impero... poco più di un estraneo in parlamento è divenuto un Senatore di peso inestimabile...”
    Lui accavallò le gambe e sereno sorrisi quasi commosso ed a disagio per così tante attenzioni e fu questo a incuriosirmi. Le fossette che si era formate, al suo sorriso, erano così familiare. Ma il terrore di aggrapparmi ad una speranza mi destabilizzò. Non potevo permettermelo non quando sapevo che le uniche persone che amavo erano morte.
    "Sono solo un uomo che ama fare ciò che crede giusto..."
    "Io credo solo che sia assai capace... ma ora parliamo d'affari. Prego spostiamoci nel mio ufficio... ah... Claudia... tu occupati della cena, stasera avremo ospiti!" mi alzai appena i due lo fecero ed assentì infastidita a quell'ordine mentre li guardavo allontanarsi. Jordan mi voltò e mi sorrise e nuovamente il mio cuore si scaldò, crederci voleva dire soffrire ed io non potevo permettermelo.
    Scossi dunque il capo, trattenni le lacrime e mettendo su la mia miglior maschera di cera mi allontanai per eseguire l'ordine che mi era stato impartito.

    Stretta in un'elegante e leggera vestaglia di raso nero, mi stavo pulendo il sangue che dal labbro rotto sgorgava in un gesto che purtroppo mi era assai familiare. Tuttavia quella notte ci fu qualcosa di diverso. Una mano mi bloccò e prendendo dalla mia il batuffolo di cotone, con delicatezza e gentilezza si occupò delle mie ferite.
    Io cercavo di trattenere le lacrime, mentre gli occhi gonfi di pianto e botte faticavano quasi a rimanere aperti. I polsi erano escoriati per via delle corde e Jordan si prendeva cura di me trattenendo l'ira.
    "Sorella mia se solo tu mi permettessi di occuparmi di lui..." mormorò fuori di sé.
    Era passato solo un mese dal nostro primo incontro e non c'era stato giorno che per un motivo o per l'altro lui mi cercasse ed io facessi lo stesso. Tanto ci avevamo messo per rivelarci e finalmente dopo anni sentirmi di nuovo viva. Felice.
    I nostri incontri erano divenuti sempre più frequenti oltre che ben nascosti, mentre io venivo a sapere della sua intera vita. Del suo cambiamento e della sua crescita. Tanto lo avevo ascoltato, felice dell'uomo forte che era diventato, quanto io non gli avevo mai rivelato nulla della mia misera esistenza. Del mio violento matrimonio.
    Ma quella notte non ce l'avevo fatta. Non ero riuscita a superare l'ennesimo abuso da sola e quando mio marito se ne era andato sbattendo la porta, ricordandomi quanto inutile fossi, io l'avevo chiamato. Ed ora me ne pentivo.
    Era livido, mentre io piangente non facevo altro che guardarlo e di disegnare i suoi tratti così differenti, ma sempre pieni d'amore e speranza.
    "Ti ho appena ritrovato, non voglio perderti... Non preoccuparti per me..." gli dissi quasi con fare materno. Un sorriso sincero, seppur sofferente, mentre i suoi tocchi leggeri e gentili mi parevano la migliore della medicine.
    "Sai benissimo che posso difendermi..."
    "Ma il tuo piano ne risentirebbe... Non temere, sono sopravvissuta per anni, ce la posso fare..." lo tranquillizzai.
    Tutto mi aveva raccontato, di come si sarebbe conquistato la fiducia della Confederazione, come si sarebbe appropriato poco per volta del loro potere, come si sarebbe liberato di loro e di come poi avrebbe creato la sua Società Segreta, una che si ispirava ad un'antico Ordine estinto da secoli... di come avrebbe distrutto l'Impero e portato la pace, la serenità e giustizia per tutti. Quello valeva più della mia singola vita.
    Lui mi guardò contrito, sapeva che non poteva contraddirmi. Sapeva che avevo ragione e così, molto semplicemente si alzò ed avvicinandosi alla giacca che in fretta e furia aveva gettato sul mio letto e dalla tasca ne tirò fuori un cristallo kyber che poco dopo porse nelle mie mani.
    "Ti ho spiegato ogni cosa delle Terrigenesi. In te scorre sangue Ibrido... quando ti sentirai pronta... usalo... salva te stessa"
    Abbassando lo sguardo sul cristallo lo guardai con una nota di timore. Sapevo cosa l'aveva salvato, cosa l'aveva reso diverso e seppur non lo giudicavo. Seppur ai miei occhi era sempre il mio amato Petruccio, non credevo sarei stata forte abbastanza per tutto quello. Avevo combattuto così tanti anni contro quella prigionia e quell'orrore che la mia mente ormai si era arresa all'idea che non esisteva vita diversa da me se non quella.

    Vivere con quell'uomo, fin dalla mia giovanissima età, era stato sinonimo di soprusi ed abusi. Poco importava il mio carattere fermo e deciso, potevo rispondergli ed affrontarlo come ero solita fare, ma quando poi si trattava di combattere fisicamente contro di lui non riuscivo mai ad avere la meglio. Dunque quando quella notte per l'ennesima volta venni picchiata, per l'ennesima volta vidi il mio viso tumefatto ed il mio fisico livido, decisi che ero stanca.
    La tappezzeria bordeaux del salottino rendeva l'atmosfera ancora più cupa, con il capo schiacciato contro il tappetto del salotto, cercavo di riprendere aria seppur le costole incrinate me lo impedivano. Il caminetto scoppiettava ed il mio tentativo disperato di arrivare all'attizzatoio per usarlo come arma di difesa pareva vano. Mi trascinavo sul pavimento disperata, ma la presa sui capelli del mio "amato" marito me lo impedì. Li strinse forte tirandomi il capo all'indietro.
    "Sei solo una lurida puttana, mi hai capito? Ma ora ti faccio vedere io quali sono i tuoi doveri di moglie!" mi sputò addosso, prima di lasciarmi andare. Lo percepì fare qualche passo indietro e probabilmente armeggiare con la cintura, mentre io mi frugai nel reggiseno e ne tirai fuori il cristallo kyber, lo tenevo sempre vicino da quando mio fratello me lo avevo dato e senza pensarci troppo lo buttai nel caminetto. Fissai le fiamme nella disperata speranza che qualcosa accadde. Continuai a trascinarmi verso le fiamme, non importandomi quanto pericoloso fosse, e fu quando percepì che le stesse mi stavano avvolgendo che una scarica di energia mi fece sentire diversa.
    L'addome non mi faceva più male, come il viso e mi sentivo forte. Tanto che quando mi tirai indietro ed incontrai lo specchio al di sopra del cammino sorrisi stupita dal mio viso perfettamente sano. Alla mia pelle diafana perfettamente liscia, così come percepì chiaramente il mio amato marito alle mie spalle terrorizzato. Vidi il suo sguardo e voltandomi lo affrontai.
    "C-Cosa... C-Cosa... Strega!" mi urlò contro, ma io non risposi. Immobile lo guardai inflessibile, mentre percepì lentamente le fiamme del caminetto iniziare ad avvolgermi. Non bruciavano, anzi pareva quasi mi facessero il solletico. Osservai come si avvilupparono alle mie braccia, quasi come eleganti bracciali e poi alzando lo sguardo lo puntai su mio marito. Gli occhi erano scintille infuocate, che esplosero in un incendio quando alzando le mani feci sì che il fuoco si scagliasse contro l'uomo di fronte a me.
    Quello urlò disperato, mentre io chiudevo gli occhi libandomi del suo dolore.
    "Le tue urla sono un suono delizioso... ricordi? Me lo dissi durante la nostra prima notte di nozze, quando mi strappasti la mia innocenza!" nell'ultima parte della frase la mia voce si era fatta più dura e malevola. Mentre lui piagnucolava, lui mi supplicava di smetterla.
    "Finalmente sai come ci si sente... supplicare sapendo che non servirà a nulla... è interessante come il fuoco ti stia uccidendo lentamente... sai che non hai scampo, ma al contempo sai che ogni tuo tentativo di ribellarti sarà inutile... ho vissuto così ogni singolo giorno della mia vita... avvolta da fiamme che non potevo fermare... percependo il dolore e non potendo far nulla per impedirlo..." gli urlai addosso frustrata e non smettendo di avvolgerlo con il mio fuoco, almeno fin quando non divenne un tizzone irriconoscibile. Un carbone di nulla.
    Richiamai a me le fiamme che assorbì e oltrepassandolo con non calanche, sollevandomi l'elegante vestito, raggiunsi il corridoio e poi la porta. Ma prima di uscire, feci un passo indietro e tornai a guardarmi allo specchio. Notai che i capelli erano perfetti ed anche il trucco e per questo mi passai una mano sulla bocca per sbavare il rossetto e lo stesso feci agli occhi. Sciolsi l'acconciatura ed arruffai i capelli.
    "Perfetta!" mormorai con un sorriso e poi alzando le mani lasciai che il fuoco iniziasse ad ardere il legno della casa. Uscì dalla stessa e la osservai finalmente distruggersi, finalmente bruciare come avevo solo osato sognare.

    Il funerale era stato maestoso. Tutti si erano preoccupati di farmi le loro condoglianze, mentre io da perfetta vedova avevo recitato la parte in modo così convincente che tutti non facevano altro che dispiacersi per me, ma al contempo rimanere impressionati dalla mia forza d'animo. Dopo la morte di mio marito avevo accettato, con riserbo, il suo ruolo. Avrei guidato io il Clan Bancario e lo avrei fatto cercando di non venir meno a tutto ciò che grandiosamente mio marito aveva creato. L'Impero stesso mi fornì tutto il suo appoggio, il mio caro padre che adesso mi teneva in considerazione come mai prima.
    "Mi hai commosso, lo ammetto oggi alla giunta per un attimo ho creduto che stavi dicendo sul serio!"
    Jordan alle mie spalle era seduto sull'elegante poltrona del nostro salotto. Dopo la mia devastante vedovanza avevano comprato una casa per noi e lì vivevamo ben lontani da sguardi indiscreti. Lo avevo presentato per l'uomo che era, per l'immagine che si era creata e come colui che mi aveva salvato dall'incendio causato dai ribelli e da cui ero sopravvissuta per puro caso. In realtà io avevo chiamato Jordan poco dopo il mio atto e lui fiero mi aveva aiutato per creare una storia convincente. Così tanto che la compassione per ciò che mi era successo ed il suo atto eroico avevano convinto l'Impero a lasciarmi la guida del Clan Bancario ed anzi insistendo affinché lui mi aiutasse in tale difficile guida.
    Eravamo di ritorno proprio da tale incontro e niente poteva andar meglio di così. Per questo sorrisi radiosa attraverso lo specchio guardando mio fratello e poco dopo voltandomi per guardarlo direttamente in volto.
    "Cosa posso farci sono un'attrice nata!" ironizzai raggiungendolo e dopo essermi tolta gli eleganti guanti di seta, prendere la coppa di vino che lui mi offrì.
    "Io dico di brindare al nostro primo passo verso il cambiamento... Oggi il Clan Bancario e domani il resto delle gilde dei Separatisti! Conquisteremo i cuori dei loro leader, li faremo unire alle nostra causa e finalmente cacceremo l'Impero. Un Nuovo Ordine di pace e prosperità nascerà e tu... mio amato fratello nei sarai il fautore!" dissi fiera con il calice alto, lui sorrisi emozionata e commosso, ma poi dolcemente aggiunse "E a noi sorella mia, affinché più niente e nessuno possa dividerci!"


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 7/8/2020, 13:09
     
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    Annarita
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    Le note mi avvolgevano lente e armoniose. Mi sussurravano parole di conforto, di successo, di traguardi. Il mio cuore batteva forte mentre le dita sfioravano i tasti e davano vita a una melodia coinvolgente. Non sapevo se fosse merito della terrigenesi, ma suonavo da pochi anni eppure sembrava che lo facessi da quando ero venuto al mondo. Era sempre stato uno dei miei sogni proibiti, uno di quei desideri che era meglio tenere sepolti se si voleva sopravvivere, un’inclinazione che non avevo mai avuto la possibilità di sviluppare. Fino a quando, un giorno, ero tornato a vivere… lontano da ogni coercizione. Erano trascorsi davvero pochi anni, eppure a me sembravano molti di più. Forse perché ero riuscito a compiere imprese epiche? Perché ero riuscito a ritrovare mia sorella? Perché finalmente potevamo condurre un’esistenza libera secondo la nostra volontà?
    La musica si fece più intensa, le mani si muovevano più veloci, anche i battiti accelerarono… mi capitava spesso quando mi lasciavo travolgere dai ricordi, ma questa volta non lasciai che l’epilogo fosse il medesimo delle altre: mi costrinsi a rallentare di nuovo, ad assaporare la rotondità di note piene e calde, allontanando le spigolosità e il dolore: era tutto passato ormai.
    Ero talmente concentrato in questo tripudio di emozioni che non mi accorsi subito del sopraggiungere di Claudia, come spesso accadeva, rimase ad ascoltarmi in silenzio e solo quando il mio sguardo si posò su di lei, mi decisi a ritornare alla realtà, la nostra realtà.
    “Sai, in fondo non mi dispiace che il mostro sia ancora vivo, potrò ucciderlo con più gusto solo per non averti permesso di suonare fin dalla tua giovane età. Hai un dono senza pari…” La sua voce ammirata, ma anche addolorata, mi mise in imbarazzo come spesso accadeva. Con mia sorella potevo tornare a essere il Petruccio che amava, senza bisogno di recite o maschere. Non sapevo come reagire ai complimenti, ma se davanti al mondo ero il generoso, il grandioso, il benefattore, colui che avrebbe cambiato il mondo grazie al suo ingegno, con Claudia restavo sempre… me stesso.
    “Lo sai, ho sempre voluto imparare a suonare il pianoforte, ma secondo me la terrigenesi ci ha messo del suo…”
    “Mi hai sempre detto che la terrigenesi sfrutta un principio importante: si àncora a qualcosa che c’è dentro colui su cui va ad agire; un lato del carattere, un talento, un dono, una capacità nascosta. Poi, li amplifica, li muta per renderli più utili, potenti, magnifici. Ma se dentro di noi non ci fosse stato nulla su cui attecchire, non credo che saremmo qui… Altaïr ti ricorderebbe le stesse cose!” Eccola la mia Claudia, continuava a rimproverarmi per quel minuscolo residuo di insicurezza che mi portavo dietro da un’infanzia “difficile”, ma con lei non sapevo mentire. Ero felice di averla al mio fianco, anche se non ci avrebbe mai creduto, era il mio appiglio nella tempesta. Nei momenti di dubbio mi appoggiavo al suo pensiero, all’idea di rivalsa che avevo sviluppato per vederla finalmente realizzata. Non credevo nel sentimento della vendetta, ma l’avrei consumata con estrema delizia solo per ripulire la mente di Claudia dai molteplici ricordi dolorosi che continuavano ad affliggerla.
    Mi abbracciò da dietro la schiena, mentre mi accingevo a ricoprire i tasti e ad alzarmi per offrirle un drink.
    “E’ tua, vero? La melodia intendo…” Annuii con semplicità e lasciai che mi stringesse forte, prima di rimettermi in piedi e guidarla verso il divano di velluto bordeaux e oro. Le passai un bicchiere di cristallo con dentro un ottimo liquore alla ciliegia, quello che preferiva.
    Continuai a crogiolarmi nella dimensione di serenità che mi avvolgeva ogni volta che suonavo e che avevo mia sorella accanto. Anche se, ero conscio, che avremmo dovuto parlare di lavoro… era venuta anche per questo. Sospirai, versandomi due dita di whiskey e raggiungendola sul sofà.
    “Ti vedo soddisfatta. Immagino che l’incontro con l’ultima gilda separatista sia andato a buon fine” chiesi, tornando a essere il Jordan Mahkent compito e pragmatico di cui tutti avevano bisogno, compresa Claudia.
    “Esatto! Ormai sono rimasti davvero in pochi fedelissimi all’Impero. Il malcontento dilaga tra tutti quelli che hanno ricevuto promesse mai esaudite, coloro che hanno deciso di seguirci ricoprono i posti più importanti nel potere politico, economico e sociale. Ormai possiamo dirlo ad alta voce senza timore che svanisca…”
    “Il nuovo Ordine è ormai nato e presto sarà così radicato che potremo finalmente rieleggere un Senato e distruggere l’Impero. Voglio vedere Giovanni Auditore e il suo tirapiedi in ginocchio…” L’ultima frase la mormorai soltanto, ma vidi Claudia scuotere il capo e sorridere. Le avevo letto nel pensiero, ancora.
    “Smettila di sghignazzare, solo che lo vuoi anche tu. E poi… non ti sembra un po’ troppo acceso quel rossetto? Chi dovevi ammaliare questa volta? Mister Manson non è poi così attraente, o sbaglio?” la stuzzicai, un po’ per cambiare discorso e risollevare il mio umore che tendeva a incupirsi, un po’ per toccare un argomento che mi stava particolarmente a cuore.
    “Decisamente no, Mister Manson, con il suo doppiomento e il ventre simile a una mongolfiera, è l’essere più lontano dalla definizione di ‘attraente’. Tuttavia, come ogni laido che si rispetti va matto per le giovani donne con un certo sex appeal… Diciamo solo che mi sono divertita un po’ a farlo impazzire e così ho ottenuto il suo consenso con più celerità del previsto!” Mi fece l’occhiolino, rivolgendomi uno sguardo provocatorio. Io sbuffai. Sapeva bene che questo suo atteggiamento non mi andava a genio, ma non perdeva occasione per buttarcisi a capofitto.
    “Claudia, le argomentazioni che portiamo sul piatto sono molto più che sufficienti per convincere questa gente a passare dalla nostra parte. La tua bocca dipinta di rosso e quella scollatura sono un di più inutile… A parte che riusciresti a confondere le idee di un uomo anche in vestaglia e appena sveglia… perché ti ostini a fare questi giochetti?” La mia non era un’arringa di rimprovero, né la mia voce portava biasimo. Al contrario, Claudia sapeva bene quanto la rispettassi e desideravo che lo stesso rispetto lo rivolgesse a se stessa.
    “Fratellino, sono sempre stata trattata come un oggetto. Prima di scambio, poi di piacere, adesso però che sono tornata padrona della mia mente e soprattutto del mio corpo, ho deciso che li utilizzerò a mio piacimento… anche giocando se mi va…” Mi sorrise ancora. Era così tra noi, riuscivamo a parlare di tutto, anche se i punti di vista non sempre coincidevano.
    “Come vuoi! Però, vedi di non soffrire ancora, altrimenti ti rinchiudo in un sotterraneo e butto via la chiave…” Provai a imitare uno sguardo minaccioso, alzando un sopracciglio e buttando fuori un tono che doveva essere intimidatorio. Claudia gettò indietro la testa e si aprì in una risata cristallina, una di quelle che adoravo e mi ripagavano di tutto il tempo perso.
    “Non riusciresti a convincermi nemmeno se ti vedessi con delle catene in mano…” prese in giro il mio tentativo di minaccia e mi trascinò con la sua ilarità. Dopo qualche attimo di sghignazzi, ci asciugammo gli occhi lucidi e ci fissammo con un’intensità senza fine. Fu lei a dare voce a nostri pensieri. “Insieme, sempre insieme, libereremo questo mondo…”
    Eccome se lo avremmo fatto. Giustizia, equità, ordine, sarebbero state le parole chiave che avrebbero segnato il nostro futuro e noi saremmo stati i pionieri di questo epocale cambiamento. Ormai l’ingranaggio era in movimento… adesso non ci restava che guardare dove ci avrebbe portati.
     
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    Ad ogni singola Gilda dei Separatisti, che denaro e forze avevano donato all'Impero, dallo stesso il nulla avevano ricevuto. Sciocchi che con sogni di gloria avevano contribuito ad un colpo di stato che a nulla era servito. Giovanni Auditore li aveva traditi e nulla mi parve più familiare di quella situazione con una grande e sostanziale differenza: mio fratello.
    Al suo fianco avevamo lavoro per portarli al nostro fianco e quando ciò era successo, i molteplici studi che io e Petruccio avevamo portato avanti negli anni su un antico Ordine che un tempo, ben prima degli Jedi, avevano portato ordine e giustizia ogni dove, diedero i loro frutti. Era stato mio fratello a confidarmi che, negli anni di distanza, aveva saputo di questo Ordine -ormai dimenticato- da Altair ed affascinato aveva promesso di ricostruirlo. Era ammaliato dai loro valori di giustizia e virtù ed io lo fui altrettanto quando condivise con me le loro storie.
    Non molto tempo prima del nostro ultimo reclutamento avevamo trovato indizi che, attraverso una tortuosa caccia al tesoro, ci avevano portato a recuperare un'antica pergamena con uno strana filastrocca:
    "12 sono le Chiavi dell'antico Tempio
    come i Titani
    coloro che danno l'esempio
    e dell'Ordine si fanno Capitani
    Gli Eletti, leali e potenti,
    dagli Dei discendono
    del gran messaggio sono mittenti
    e con una sola voce dal tutto trascendono "

    Da delle coordinate poste sulla stessa eravamo giunti alla prima Chiave e successivamente a tutte le altre, venendo a conoscenza dell'origine Eterna di tale Ordine. Titani che avevano eletto Ibridi che dovevano fare le loro veci sul mondo, dominando come Dei... Chiavi che ancora oggi erano capaci di trovare i discendenti di tale Eletti e che a dire di Jordan sarebbero stati messi a capo delle Gilde. A loro sarebbe concesse la Terrigenesi e sempre e solo a loro un posto d'onore nella sala consiliare segreta. Alleati perfetti per lealtà ed abilità ed in effetti così fu.
    Nei lunghi anni passati ai loro anni amicizie ed alleanze si erano strette, avevamo visto le famiglie gli uni delle altre crescere ed anche alcuni amori erano nati. Tuttavia i nostri piani, precisi e calcolatori, si trovarono a fare i conti con la follia dell'Impero. Nulla di attento c'era nelle loro mosse tanto che il loro continuo desiderio di spezzare gli equilibri, di forzare la Forza e di volere più del concesso aveva fatto sì che il Cosmo iniziasse a collassare. Fu devastante scoprire, con certezza, che la nostra Dimensione stava morendo.
    "Sei certo Henry?" chiesi. Le mani incrociate sotto il mento e i gomiti ben piantati sul grande tavolo di legno massiccio intagliato con lo stemma Templare.
    Accanto a me Jordan che tanto aveva insistito per un tavolo tondo affinché nessuno potesse sentirsi superiore ad altri, nemmeno lui che di fatto era il nostro leader. La nostra guida.
    “In circostanze normali troverei offensiva la tua domanda, ma in questo caso mi duole accertare ciò che vi ho appena riferito..."
    Sospirai pesantemente e lo stesso fecero tutti gli altri che si guardarono tra loro apprensivi. Henry aveva capacità telepatiche di portata incredibile e se quello che aveva letto proveniva direttamente dalle profondità di Giovanni Auditore non c'era rischio di temere che fosse sbagliato.
    Voltandomi percepì la frustrazione di Petruccio. Era un pezzo di ghiaccio, apparentemente inflessibile ma dentro di lui ribolliva. Era la constatazione che per l'ennesima volta nostro padre aveva distrutto i nostri desideri e qualsiasi suo sforzo e tentativo era stato vano. Non avremmo avuto il tempo per trasformare quella realtà, per dar vita ad un sogno a cui anni lavoravamo.
    “Jordan credo che sia opportuno che tu dica qualcosa!" esclamò una Paula sempre fin troppo poco sensibile. Lei e suo marito Lawrence sedevano per quale strano motivo a quella tavola. Ottimi combattenti, ma pessimi strateghi. Parlavano sempre a sproposito e perdevano sempre un'occasione per stare zitti.
    Li fulminai con lo sguardo prima di prendere la parola.
    "Non c'è altro da dire... la seduta è tolta..."
    “Ma Milady..."
    "No Steven non aggiungere niente. Vi faremo sapere appena ci saremo consultati!"
    Tagliai corto. Alcuni di loro parlottavano ed altri se ne andarono a capo chino, tutti erano nervosi ed agitati. Tutti tranne Henry che, prima di andarsene, mi raggiunse. Il suo portamento algido faceva a gara con Jordan che in disparte era ancora seduto pensieroso sul suo scranno.
    “Sai benissimo qual è l'unica cosa da fare vero?"
    "Ovviamente solo che credo sarà difficile convincerlo!" esclamai senza nemmeno bisogno di voltarmi.
    Avevo uno strano feeling con quell'uomo, come lui con me. Credo che mi considerasse spietata e lucida al suo livello e per questo mi portava un rispetto diverso. Lui, a differenza degli altri, non mi temeva.
    "Gli altri non approveranno..."
    “Sarà fatto!" rispose unicamente. Si sbilanciò in un ghigno, il massimo che era solito concedere e si allontanò. Henry aveva letto nella mia mente ed aveva immediatamente concordato con me, se qualcuno dei nostri alleati avrebbe tentato di impedire a me e Jordan di fare il necessario lui si sarebbe occupato di toglierli dal nostro cammino.
    Con una mano sul cuore presi un respiro profondo e raggiungendo mio fratello gli poggiai le mani sulla spalle. Solo allora sembrò destarsi allungando una delle sue sulla mia.
    “Giovanni Auditore per l'ennesima volta è riuscito a distruggere ogni cosa..." pronunciò quelle parole con ira. Mi parve quasi di percepire la stanza gelare intorno a noi, mentre una leggera nebbiolina usciva dalle sue labbra e la sua pelle diveniva liscia e vitrea.
    "Non è detto o meglio..." mi corressi spostandomi di lato affinché mi guardasse in volto "... non è detto altrove. Dobbiamo guardare in faccia la realtà fratello e tu, meglio di me, sai che qui non c'era speranza, ma altrove sì..."
    Calcai con la voce su quella parola perchè lui sapeva benissimo di cosa parlavo. Henry non ci aveva riportato solo quell'informazione, ma anche qualcosa in più. Un mezzo che nostro padre aveva utilizzato per assicurarsi una via di fuga, una seconda possibilità per l'Impero. Certo quella notizia così importante non l'aveva condivisa con gli altri, ma lo aveva fatto mentalmente con me e Petruccio. Lo stesso che tornando normale mi guardò con occhi sbarrati.
    Scuoteva il capo, conosceva l'identità di ciò che gli stavo suggerendo come era consapevole fosse l'unica soluzione, ma per l'ennesima volta il suo cuore, fin troppo puro, lo frenava.
    "Non c'è altro modo e lo sai..."
    Lo dissi con estrema calma, mentre guardandolo alzarsi di scatto non potei che rimanere immobile a guardarlo affranta. Rovesciò una sedia ed urlò dallo sconforto, ma poi fece cadere le braccia lungo i fianchi e passandosi una mano tra i capelli mi guardò.
    “Lo odio! Lo odio con tutto il mio cuore Claudia!"
    "Lo so..." affranta mi alzai per raggiungerlo, odiavo vederlo così. Odiavo non poter far nulla per placare il suo dolore.
    “Oltre alla nostra famiglia è riuscito a distruggere anche questo mondo... ho lottato così tanto ed ora? Ora dobbiamo abbandonarlo. Tutto ciò che abbiamo costruito, i nostri alleati, il nostro ordine, la nostra casa!"
    Assentì ed avvicinandomi gli presi il volto tra le mani.
    "Fa male lo so, ma... non è tutto perduto. Henry ci ha dato conferma che esiste un mondo dall'altra parte... uno che possiamo raggiungere..." gli feci notare prendendolo per mano e voltandolo verso il grande specchio presente nella stanza.
    "Una dimensione speculare alla nostra. Pensaci forse lì i nostri fratelli sono ancora vivi... lì i Templari non sono più solo una leggenda... una Dimensione che rischia di essere distrutta da nostro padre e noi possiamo salvarla... è la Terra Promessa... dove i nostri sogni possono ancora germogliare!" dissi speranzosa specchiando i miei occhi nei suoi di ghiaccio. Ero alle sue spalle e vedevo nettamente un sorriso più sereno e deciso farsi largo sul suo viso granitico.
    Ero la sua roccia. Mi ero ripromessa di esserci sempre, di sorreggerlo e sospingerlo. Credevo in lui e nella sua visione e quando a volte se lo dimenticava io ero lì a ricordarglielo.
    Sorrisi di rimando e lo strinsi forte in un abbraccio dolce.
    "MAI ascoltami bene, MAI permetteremo ai nostri sogni di morire!"
     
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    Annarita
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    Claudia aveva ragione: il nostro mondo stava morendo ma noi non saremmo morti con lui. Non potevamo permettere che un folle come nostro padre ci rovinasse nuovamente la vita, togliendocela del tutto. Non potevo permettere che anni di duro lavoro per avere la mia vendetta, per darne una alla mia Claudia, per riportare l’ordine laddove il caos imperava andassero in fumo, trascinandosi dietro tutti noi. No, non sarebbe mai accaduto, non fino a quando avrei avuto respiri e battiti nel mio petto. Avrei “spostato” le nostre mire, avrei studiato un altro mondo, me ne sarei innamorato e poi… lo avrei fatto mio. Avevo i mezzi per farlo e non mi sarei fatto alcuno scrupolo… ma prima? Avevo una missione importante da compiere: sferrare il colpo mortale all’Impero e distruggere mio padre.
    […]
    Il mio piano stava procedendo nel migliore dei modi.
    Con grande fatica, grazie ai vari contatti ai diversi livelli instaurati negli anni, Claudia ed io eravamo riusciti finalmente a scoprire il punto debole dell’Impero di Giovanni Auditore. Non che fosse stato facile, avevamo dovuto scavare, ammaliare, comprare, ma nessuno è incorruttibile, non in questo mondo almeno. La Nave Madre dove mio padre aveva installato la sua base di controllo custodiva quel punto debole, il “faro” che guidava i suoi soldati redivivi grazie a una pietra potentissima chiamata Brahmasta. Grazie al mio braccio destro, Henry King, telepate di alto livello, avevo fatto in modo che questa vitale informazione arrivasse ai Ribelli… sarebbero stati il mio diversivo perfetto. Avrei sfruttato il caos causato dal loro attacco per avvicinare mio padre e toglierlo di mezzo. Ma non era tutto, non mi interessava solo distruggere l’Impero, a dirla tutta era l’ultimo dei miei pensieri, il mio scopo era quello di raggiungere gli antichi Monoliti, anch’essi custoditi sulla Nave Madre.
    I Ribelli avrebbero combattuto fino alla morte per distruggere Brahmasta e disattivare i redivivi, così facendo avrebbero messo in ginocchio il potere dittatoriale che da anni li vessava, mentre Claudia ed io avremmo attivato il Monolite dello Spazio e avremmo abbandonato il nostro mondo per una sua versione speculare. Ero eccitato, quasi come un bambino che aspetta di sapere che gusto avrà una caramella mai provata, ma dovevo arginare tutta la mia aspettativa, dovevamo compiere un passo dopo l’altro.
    Claudia, Henry ed io ci muovevamo cauti in mezzo ai corridoi affollati, molte persone vestite di gran gala correvano e urlavano in preda al panico. L’attacco ribelle era avvenuto durante uno dei soliti ricevimenti in cui Giovanni Auditore ostentava tutta la sua opulenza, ma non lo biasimai, conoscevo molto bene la sua necessità di essere invidiato e la sua volontà di mostrarsi sempre superiore. Erano state invitate le personalità più in vista dei poteri forti, non potevamo certo mancare. Tutto calcolato.
    Nessuno badava a noi, nessuno si accorgeva che ci muovevamo nella direzione opposta agli hangar che contenevano le navicelle di salvataggio, quelle che – in teoria – avrebbero dovuto portare in salvo tutti quei laidi leccapiedi. Con un cenno del capo ordinai a Henry di coprirci le spalle, mentre prendevo per mano Claudia e la guidavo verso il Salone Centrale ormai vuoto. La festa, malamente interrotta, aveva lasciato dietro di sé scie di cibo e calici in frantumi. Mia sorella camminava quasi in punta di piedi per evitare di rovinare l’orlo della meraviglioso abito color porpora che le avevo regalato per l’occasione. Io invece mi muovevo deciso e il suono echeggiante di cocci fracassati al mio passaggio pareva il preludio di ciò che sarebbe accaduto. Puntai il mio sguardo sull’Imperatore, attorniato dai suoi fedelissimi consiglieri e dalla guardia reale formata da altri schifosi redivivi; il bastardo che aveva ucciso Federico però non era presente. Non fu difficile farli fuori, non dovemmo stropicciare neppure i nostri costosi indumenti; li sbaragliammo uno a uno, creando un pericoloso vuoto attorno al nostro obiettivo. Sembravamo delle furie a occhi esterni, ma non avevamo neppure il fiatone: i nostri poteri scorrevano liberi, seguendo il nostro volere, bruciando e congelando, sventrando e sferzando, in una sorta di macchina da guerra dagli ingranaggi perfettamente sincroni.
    Una volta solo, messo in un angolo, Giovanni afferrò una inutile pistola per difendersi ma Claudia fece sì che si liquefacesse tra le sue dita provocandogli ustioni molto estese. Il metallo si era fuso alla pelle, ma ero certo che fosse solo l’inizio.
    “C…Claudia… cosa diavolo stai facendo…? E lei, signor Mahkent, si è fatto convincere da questa puttanella a vendicarla per tutte le malefatte subite? Immagino quanto avrà frignato mentre glielo prendeva in bocca!” La sua voce sprezzante mi fece venire il voltastomaco. Consapevole di stare guardando in faccia una morte certa, aveva scelto comunque parole di scherno per esprimersi. Non risposi, lasciai a Claudia il suo momento di gloria, di rivalsa, io semplicemente avrei osservato e sarei intervenuto al momento opportuno con il mio carico di dolore e rancore.
    “Devo dire che non sei cambiato affatto, paparino. Riesci a farti riconoscere persino in punto di morte… Non hai nessun rimorso? Ovvio, certo che no, chi non ha anima non può provare rimorso…” Claudia mi sorprese, avevo immaginato che si sarebbe accanita, che avrebbe sfogato su di lui tutta la sua ira, tutti gli anni di abusi e soprusi che quell’essere le aveva causato. Ero sicuro che le parole ingiuriose con cui ci aveva accolti avrebbero scatenato la sua furia… ma così non fu. Me ne compiacqui da una parte, ma dall’altra arrivai a una conclusione terribile: qualcosa dentro di lei si era spezzato per sempre e anche la sua anima era irrimediabilmente compromessa. La osservai avvicinarsi a nostro padre, mentre gli orli dei suoi abiti iniziavano a bruciare lentamente; lo fissava dritto negli occhi adesso terrorizzati, con le fiamme che si riflettevano nelle sue iridi brillanti ricche di disprezzo ma anche di un affilato divertimento.
    “Abbiamo aspettato tanto questo momento e mi dispiace di non provare la soddisfazione che avevo immaginato. Sai, ho trascorso notti insonni progettando ogni più dettagliata tortura… ma tu, tu non meriti neppure questo. Sei un essere inutile, immondo, dovresti semplicemente bruciare come un topo di fogna.” Mi ero avvicinato a passo lento, fino a mettere la mia mano sul braccio di lei. Lo strinsi piano e lei capì. Fece un passo indietro, non prima di avermi dato una leggera carezza su una guancia. Solo allora fece languire le fiamme…
    “Ecco, lo sapevo, te la sei scopata e adesso pensi che per vivere felici e contenti devi far fuori il suo paparino che tanto l’ha fatta soffrire, eh? Signor Mahkent, mi dispiace per lei, ma si è accaparrato un articolo scaduto, di terza, anzi no, quarta mano!” E rise, rise in maniera sguaiata, nonostante il dolore che provava dovesse essere immenso. Riusciva comunque a infangare, sporcare, distruggere. Aveva ragione Claudia, un essere senza anima non poteva fare altro…
    “Il tuo amichetto dov’è? Ti ha lasciato senza protezione nonostante i Ribelli alle porte?” Avevo parlato per la prima volta da quando eravamo entrati nel Salone e la mia voce mi parve strana, troppo bassa, troppo calma. Volevo sapere dove fosse Alexios, anche lui doveva pagare per aver ucciso nostro fratello. Tutti gli attori principali, colpevoli della nostra sofferenza, avrebbero pagato con la vita.
    “Quel perdente? È stato informato male, signor Mahkent, non ho bisogno di lui per proteggermi…” Una smorfia comparve sul mio volto, percepii una presenza al di là del portone d’entrata, ma era esitante. No, non ci avrebbe interrotti, non se avessi continuato a far parlare quella feccia.
    “Ah no? E allora per quale ragione lo hai portato al tuo fianco? A causa sua è Federico ha perso la vita… Per la tua approvazione avrebbe fatto di tutto, per vedere un solo barlume di benevolenza nei tuoi occhi avrebbe dato ciò che non possedeva…” E un barlume di qualcosa lo vidi nei suoi occhi, in quel preciso istante, ma non era benevolenza. Forse iniziava a capire, ma non per questo frenò la sua lingua biforcuta.
    “Federico era un debole, dava troppa importanza agli affetti ed è per questo che è morto. Alexios invece era un perfetto guscio da plasmare, non aveva il mio sangue, non pretendeva nulla da me. La sua rabbia lo ha reso un burattino nelle mie mani. Ha distrutto per intero la Confraternita degli Assassini e io non ho dovuto alzare neppure un dito…”
    Mantenni ancora una calma a dir poco invidiabile, non comprendevo come riuscissi a non far divampare l’ira che avrebbe dovuto sobbollire nelle mie vene. Diedi la “colpa” al ghiaccio che vi scorreva dentro. Non ero ancora pronto ad accettare che anche la mia anima forse era irrimediabilmente compromessa.
    “Quindi non sa che sua figlia è ancora viva… che hai tentato di farla uccidere dai tuoi scagnozzi, ma che qualcuno è riuscito a portarla in salvo anticipandoti?” Posi una domanda strategica, con un tono addirittura casuale, mente passeggiavo di fronte al suo corpo in ginocchio. Poi, mi beai delle reazioni che vidi e percepii. Giovanni Auditore mi fissò sorpreso, non si capacitava di come fossi venuto a conoscenza di informazioni tanto riservate; invece, la presenza oltre il portone smise di respirare e, come avevo previsto, non intervenne in soccorso dell’Imperatore. Henry lo aveva fatto avvicinare perché aveva previsto la mia reazione: che figlio di puttana geniale! Quel tipo riusciva a inquietare persino me con la sua mente diabolica e io non potevo definirmi un principiante. Così come lo aveva lasciato avvicinare, Henry gli permise di allontanarsi, con ogni probabilità l’avrebbe seguito e fatto fuori. Come dicevo, tutti dovevano pagare, ingannati o meno, erano tutti colpevoli.
    La domanda di mio padre interruppe il corso dei miei pensieri, doveva aver visto il sorriso sinistro che era comparso sul mio volto.
    “Chi sei tu?”
    Claudia scoppiò a ridere. La sua fu una risata profonda, quasi liberatoria.
    “Finalmente, padre, ecco un quesito degno di nota, forse il primo che esce da quella bocca ripugnante!”
    Presi un respiro profondo prima di stracciare il velo dell’ignoranza.
    “Petruccio. Sono Petruccio.” Non pronunciavo il mio nome da anni, persino Claudia non mi chiamava più così per paura di tradirsi in pubblico e io… l’avevo quasi dimenticato. Ciò nonostante, non potevo cancellare tutto il dolore che si nascondeva dietro quelle poche lettere. Gli occhi sgranati di Giovanni non mi diedero alcuna soddisfazione, proprio come Claudia poco prima non ne aveva provata alcuna nel torturarlo. Era giunto il momento di chiudere un cerchio e lo avrei fatto con un marchio indelebile.
    “S-sei m-orto. Ti ho f-fat-to uccide-re… non p-puoi es-sere tu!” Gli lasciai qualche attimo per comprendere, elaborare, giungere alle conclusioni più ovvie. Balbettava. Il grande Imperatore balbettava di fronte alla consapevolezza che quel figlio tanto inutile, quella palla al piede, quell’essere senza spina dorsale aveva tramato nell’ombra per sconfiggerlo, tutti i colpi bassi ricevuti dalle gilde, tutti i dissapori nati improvvisi in seno al suo Consiglio, erano stati orchestrati da quel figlio inutile… no, non doveva essere facile accettarlo. Questa, forse, fu la vera prima vittoria di tutta la serata. Ma il tempo per gioirne era ormai arrivato agli sgoccioli… dovevamo andare.
    Lo afferrai per la gola, strinsi le dita ossute intorno al suo collo, respirai a fondo e lasciai che il mio potere fluisse in lui. La mia pelle si trasfigurò diventando ghiaccio puro e impenetrabile, ma anche la sua cambiò lentamente. Si congelò dall’interno, gli organi smisero di funzionare ma non così velocemente. Feci in modo che l’aria sparisse dai suoi polmoni piano piano, che il cuore continuasse a pompare a un ritmo sempre più lento, che il suo cervello continuasse a elaborare dati e a vedere immagini fino all’ultimo istante. Quando abbandonai sul pavimento il suo corpo ormai senza vita, Claudia ed io fissammo due iridi immobili al cui interno era rimasta intrappolata una tremenda conclusione: era stato ucciso dagli stessi figli che lui aveva sempre trattato come nullità, che aveva ucciso in maniera crudele… il primo nel corpo e la seconda nell’anima. La vita sapeva essere una vera bastarda, non credete?
    Strinsi la mano di Claudia e le rivolsi un sorriso radioso. Adesso potevamo davvero ricostruire la nostra vita da zero, senza più zavorre, in un altro posto, in un altro mondo. Giustizia era stata fatta.
     
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    :Claudia:
    Le parole di Giovanni non mi stupivano quanto il suo stile sempre scurrile e terribilmente osceno. Era risaputo la considerazione che mi avesse e probabilmente di ogni essere di sesso femminile. Avevo perso il conto delle donne con le quali aveva tradito mia madre e di come lei debole lo aveva permesso, come aveva permesso ogni tipo di abuso e sopruso sui suoi stessi figli. Grazia aveva voluto che io stesso le avevo tolto la vita per poterle dare un minimo di dignità a fronte della sua debolezza, ma non avevo provato lo stesso piacere e la stessa soddisfazione nel fare lo stesso con mio padre. Colui che adesso osservavo con sguardo vitreo, il capo piegato da un lato e i pugni stretti.
    Sentì le mani di Jordan sulle mie spalle ed il suo alito ghiacciato accarezzare la mia pelle fino a giungere alle mie orecchie con tono dolce e preoccupato <b>“Te ne prego sorella mia... non permettere che le sue parole ti entrino dentro... tu NON sei quello che dice... tu SEI di più... vali di più..."
    Fu fantastico come ogni volta le sue parole riuscivano a cambiarmi. Quando tornai a guardarlo infatti sorridevo serena e la mia mano accarezzò i suoi tratti duri, ma che nascondevano una dolcezza infinita.
    "Sei sempre così premuroso... dolce... gentile. Tu sei la mia purezza!" conclusi prima di intrecciare la mia mano con la sua ed insieme proseguire, nel caos della guerra, verso il nostro obbiettivo finale. Il tutto non prima di inginocchiarmi sul cadavere di quel verme e dopo avergli tolto l'anello che indossava infilarlo io stessa all'anulare di mio fratello.
    Con quello avrebbe potuto comandare i Monoliti, con quello avremmo potuto raggiungere la nostra meta finale e da lì iniziare una nuova vita. Ciò che non mi aspettai, tuttavia, una volta giunti nella stanza che custodiva le reliquie fu trovare Henry a terra ferito gravemente. Poco lontano da lui il cadavere del lacché di nostro padre.
    "Henry oh mio Dio... sei ferito..." esclamai notando l'ovvio, mentre inginocchiadomi di fronte a lui misi una mano sulla sua ferita che non smetteva di sgorgare sangue. La spada laser aveva causata una terribile emoraggia, una che nonostante tutto non gli faceva perdere la sua freddezza ed imperturbabilità.
    “La mia sopravvivenza non era prevista nel piano e questa ferita è troppo grave... Dovete andare, questa nave esploderà a momenti..." io non parlai, ma voltandomi verso mio fratello -in piedi dietro di me- lo guardai confusa. Ce ne saremmo davvero andati abbandonadolo? Era chiaro che avevamo previsti di abbandonare ogni nostro alleato, ma Henry era arrivato fin lì. La mia indecisione si fece maggiore quando sentì qualcosa scivolare sul mio dito, ove un tempo avevo la fede. Era l'anello di Alexios, gemello di quello di Giovanni, per usare i Monoliti.
    “Andate e riportate Ordine!" disse fiero, mentre lui e Jordan si scambiarono un cenno d'intesa. Mio fratello attivò il Monolite dello Spazio e poi porgendomi la mano mi invitò ad andare, cosa che feci solo dopo averlo obbligato ad aiutarmi a prendere Henry. Lui poteva non volerlo, ma io e Jordan eravamo sempre stati i primi a premiare la fedeltà tanto quanto punivano il contrario. Saremmo davvero venuti meno ai nostri principi?
    Quella domanda silenziosa splendette negli occhi di ghiaccio di Jordan che aiutandomi fece così che tutti e 3 raggiungemmo, indenni, la Dimensione Specchio.

    Ciò che avevamo trovato dall'altra parte ci aveva scombussolato quanto emozionato. Venivamo da un mondo iper tecnologico, ove viaggiare tra pianeti era normale quanto interagire con razze di ogni tipo e gilde che, a mo di clan, comandavano l'universo. Un unico Senato intergalattico comandava ed invece lì tutto era così piccolo. Ogni cosa sembrava ridotto al minimo.
    Non c'era una grande conoscenza dello spazio, ogni razza viveva sul suo pianeta e la Terra era un'isola felice. La tecnologia non era un granché ma il resto era bellissimo. Immense aree verdi incontaminate, animali e poi una ricchezza di culture, arte, letteratura, musica... maggiore alla nostra. La storia sembrava un'incredibile romanzo tanto che credevo che una vita intera non mi sarebbe bastata per conoscerla tutto... era maggior di quella che l'intero spazio da cui proveniva custodiva.
    Tuttavia i primi giorni non furono facili. Il Monolite ci aveva sputato fuori in un luogo desolato tra i boschi. Lì trovammo presto rifugio in un capanno abbandonato e a fatica ci prendemmo cura di Henry trovando aiuto nel medico del piccolo borgo vicino. Montereggioni si chiamava. Avevamo raccontato che eravamo turisti che durante una scampagnata nella natura erano stati attaccati da animali selvatici e questo era bastato affinché Henry venisse trasportato e ricoverato nell'ospedale di Firenze.
    Fu in ospedale che io e Jordan, come meri mendicanti e ladruncoli da quattro soldi, ci trovammo a rubare mangiare e vestiti mentre appuravano il da farsi. Usavamo la struttura come "casa" ben attenti che nessuno lo capisse.
    Andavamo spesso in città e la biblioteca era divenuta la nostra migliore amica, ci passavano giorni e notte e spesso rubavamo i libri portandoceli a "casa". Volevamo apprendere il maggior di cose possibili su quel luogo e la sua storia e due cose ci colpirono: la storia longeva dei Templari e la presenza di un famiglia Auditore nel Rinascimento italiano.
    Fu lì che ritrovammo i nomi della nostra famiglia, i nostri stessi nomi e capimmo che quella era la nostra versione speculare. Lì nostro padre, per ovvie ragioni, era stato un grand'uomo e per un attimo fui tremendamente gelosa della mia doppelganger e della vita che aveva avuto, meno della fine tragica di mio fratello. Nulla avevamo trovato di Ezio e Federico e questo un po' ci sconfortò. Erano vissuti così tanto tempo prima che non avremmo avuto modo di incontrarli, ma confidavo che almeno lì avevano avuto una vita ricca e bellissima.
    Questo portò me e Jordan a volerne sapere di più ed infiltrandoci in un gruppo di turisti visitammo Firenze sulle orme dei Medici. Ascoltammo con interesse e poi quasi con fare casuale, ma curioso, chiedemmo informazioni sugli Auditore. La guida non sapeva molto se non che era stata una famiglia borghese assai importante, che addirittura aveva avuto a che fare con i Medici e che probabilmente erano stati uccisi per questo perchè forse sapevano qualcosa sulla congiura dei Pazzi ed avrebbero potuto tentare di fermarla. Ci mostrò la casa che la famiglia aveva a Firenze, attualmente in vendita, e ci confidò che aveva anche una villa di delizia poco lontano nei pressi di San Gimignano.
    Tornati al nostro rifugio, passando ogni giorno a controllare come stesse Henry che via via migliorava, iniziammo dunque a studiare meglio la Congiura dei Pazzi e lì ci venne l'idea. Usando i nomi risalimmo ai discendenti ed una famiglia attirò la nostra attenzione: gli Uberti.
    L'ultimo discendente era senza eredi. Niente mogli. Fratelli o figli. Ma in compenso era schifosamente ed esageramente ricco. Avevamo appena trovato la nostra gallina dalle uova d'oro.
    Ci bastò scoprire dove abitasse, studiarne le abitudini, ed infine entrare in azione.
    Tornava a casa dall'ufficio ogni giorno alle 18. Si faceva la doccia. Accendeva la tv. Alle 19.30 cenava. Alle 20 la domestica lasciava la casa. Questo tutti i giorni tranne il venerdì che la domestica lasciava la casa alle 19 ed alle 19.30 arrivava il fattorino per portargli pizza. Quella era la nostra occasione che non mancammo di prendere.
    Fu facile per Jordan stordire il ragazzo, prenderne il posto, entrare in casa e sottomettere l'uomo per poi farmi entrare.
    Le minacce e i nostri poteri non ci misero molto a terrorizzarlo d'accettare di scrivere il falso testamento che gli dettammo, per poi ucciderlo senza remore subito dopo. Io mi occupai di dar fuoco alla casa e far sì che il testamento, per quanto bruciacchiato, sopravvivesse...
    Passarono due giorni prima che, da un cellulare che avevamo rubato ed il cui numero avevamo lasciato nella memoria del cellulare di Uberti, suonasse. Prefisso Firenze.
    Sorrisi guardando Jordan, mentre entrambi eravamo seduti accanto al letto di Henry ancora in coma, quando risposi: "Klar? Hvem snakker?"
    “Ehm... Hello, I'm Notary Giorgo di Stefano, I'm calling you from Florence. Italy. Speak Italian?"
    "Oh sì certo mi dica... mi perdoni ma sono stupita da questa chiamata..."
    “Lo immagino Signorina... Abbiamo trovato questo numero nel cellulare del mio cliente Marco Uberti... Mi risulta che siete suoi cugini dico bene? Jordan e Claudia Manhkent?"
    "Alla lontana, certo. Non ci sentiamo da anni... sa nostra madre ha sposato un norvegese e viviamo qui... da piccoli venivano in Italia ogni tanto a passare l'estate e ci siamo visti una volta o due, ma... perchè me lo chiede?"
    “Perchè mi spiace informarla che vostro cugino è morto..."
    "Oh mio Dio"
    “Le mie più sentite condoglianze. Tuttavia vostro cugino ha redatto una testamento, che custodiva nella sua casa, in cui vi ha inclusi come suo eredi universali. Vi devo dunque chiedere di raggiungere Firenze quanto prima!"
    "Ehm... sì... ok... io...io... avviserò mio fratello... mi può mandare a questo numero l'indirizzo del suo studio?"
    La mia voce tremava e singhiozzava, mentre salutando il notaio chiudevo la telefonata soddisfatta.
    “La migliore attrice di sempre..." la voce debole di Henry colse di sorpresa me e Jordan, lieti di vedere che si fosse svegliato.
    “Ti sei svegliato giusto in tempo... abbiamo molto lavoro da fare!"
     
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    Annarita
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    :Henry:
    Non ero morto. Non ancora almeno. Ma il fatto che avessi riaperto gli occhi, che avessi riconosciuto una finestra inondata da un temporale, che fossi riuscito a muovere le dita dei piedi erano chiari segni che la mia vita non era più in pericolo. Queste furono le prime deduzioni che si presentarono alla mia mente, mentre con la lingua tentavo di umettare le labbra secche e le mie iridi saettavano in lungo e in largo percorrendo una stanza – d’ospedale, era chiaro, ma così antiquata da risultare quasi finta – del tutto sconosciuta. Provai a spostare un braccio e non era andata tanto male, ma delle flebo e alcuni elettrodi mi impedirono di andare oltre. Era notte. La notte mi rendeva quieto, mi permetteva di respirare e di lasciare liberi i pensieri che, di solito, restavano ben ingabbiati in una logica ferrea creata dalle circostanze in cui ero sempre vissuto. La mia vita. Che strano concetto doveva essere adesso. Non sapevo dove fossi, né come ci fossi arrivato. Mi aspettavo di morire, ma non era accaduto. Avevo atteso la mia culla di morte, ma era rimasta ostinatamente vuota. Ero stanco. Sì, ecco, questa era una delle poche certezze che avevo in questo momento, sarei potuto tornare a dormire un po’, solo un altro po’. Fissai i rivoli d’acqua rigare la superficie della finestra e mi estraniai, tornando in una rassicurante oscurità.
    […]
    I giorni passarono, così come le settimane, e io fremevo per tornare in azione. Non ero mai stato un tipo da letto, né per ozio, né per piacere. Gli ozi e i piaceri erano appannaggio dei debosciati che non avevano alcuno scopo nella loro esistenza. Io avevo da fare, un gran da fare.
    Quando avevo riaperto gli occhi per la seconda volta, avevo trovato accanto a me Claudia e Jordan. Ciò che mi avevano raccontato aveva dell’incredibile, ma non per i motivi che si potevano immaginare. Ero vivo perché Claudia aveva voluto che sopravvivessi. Era stato Jordan a confidarmelo, con un’incredulità che sapeva di sospetto e sorpresa. Ma io non ne avevo ancora compreso il motivo. Ero una pedina sacrificabile, avrebbero dovuto proseguire senza di me, questo era il piano. Per questa ragione, dopo essere stato ferito dal leccapiedi di Giovanni Auditore, avevo creduto che la mia fine fosse ormai inevitabile. Il capolinea era ormai giunto. E invece no. Il fatto che neppure Jordan ne capisse il motivo era emblematico, oppure semplicemente non era disposto a confessarlo. Io, però, dovevo scoprirlo. Era diventato un pallino fisso, una sorta di tarlo che mi toglieva concentrazione e disciplina e no, non era da me.
    Nonostante i medici mi avessero raccomandato assoluto riposo, non ne potevo più di stare sdraiato o seduto, così quella mattina avevo deciso di alzarmi di mia iniziativa e andare verso la finestra dalla quale avevo visto diversi cieli sereni e alcuni temporali. In questa dimensione tutto sembrava rallentato, moderato… antico, persino il ritmo dell’incedere delle persone pareva seguire un ritmo tutto a sé. I tramonti erano dolci, così come le albe. I trasporti erano più o meno moderni, ma al pari dei nostri erano dei veri pezzi di antiquariato. Il cibo però era molto più buono. Non esistevano pillole e liofilizzati, ma il pane, l’olio, la pasta, le olive – quanto mi piacevano le olive? –, il vino, i pomodori. Non avevo assaggiato tutto questo per merito del servizio ospedaliero, ma solo grazie alla solerzia di Claudia. Una volta al giorno, riusciva a portarmi un pasto completo, ricco di sapori e sorprese di cui avevo perso quasi memoria. Anche nella nostra dimensione esisteva il cibo solido, ma per comodità si tendeva a ingerirlo solo nei grandi banchetti. Ecco cosa osservavo al di là di questo vetro: la gente, le macchine, la natura, vite frenetiche eppure ovattate in una routine lontanissima da quella a cui ero abituato. Sembravo uno scienziato al cospetto di esperimenti interessanti e la smania di toccarli con mano mi stava divorando… ma prima… prima doveva capire “perché” mi trovavo qui. Mi aggrappai all’asta della flebo, le gambe erano ancora malferme, perciò la presa si fece più salda sul metallo. Fu allora che udì la porta aprirsi e il famigliare odore di rosa e zenzero mi giunse alle narici: Claudia.
    La sua visita giornaliera era stata la mia di routine. I primi tempi, quando a malapena riuscivo a tenere le palpebre alzate, divorato dalla febbre, l’avevo percepita muoversi solerte per inumidirmi le labbra, per tamponarmi la fronte madida di fatica, infilare le dita tra i miei capelli, vezzeggiandoli con movimenti ritmici e ipnotici. Erano gesti inconsueti, fin troppo intimi, ai quali lei si concedeva certa che io fossi in preda al delirio della febbre. E così era, ma nulla mi era sfuggito. Tuttavia, non avevo osato dirle nulla, non dopo essermi piano piano ripreso, non dopo che lei era tornata a comportarsi “quasi” come prima. Era chiaro che non desiderava esporsi oltre misura, ma come potevo dimenticare il fatto che ero ancora vivo solo perché lei lo aveva voluto? Non ero bravo con i sentimenti, facevano parte di una educazione, di una cultura, di una dimensione a me totalmente estranea. Ma si trattava davvero di qualcosa del genere? Oppure stavo immaginando tutto?
    La vidi sgranare gli occhi per la sorpresa nel vedermi in piedi. La sua bocca dipinta di rosso rubino si trasformò in una “o” perfetta, poco prima di portare le mani proprio a coprire quella “o”. Che strana espressione aveva, il suo sguardo era scintillante e il suo corpo si mosse di slancio verso di me.
    “Sembri stare molto meglio!” mi disse con un torno particolare, non riuscivo a decifrare le vibrazioni che lo coloravano. “Ma non è forse troppo presto per alzarti?” chiese poi, mentre un’ombra di dubbio le offuscava le iridi luminose.
    “Mi sento bene, ma se continuo a stare sdraiato non recupererò mai le forze. L’emorragia interna è ormai totalmente riassorbita, gli organi hanno ripreso le loro funzionalità, adesso devo ritornare a muovermi per permettere ai muscoli di fare lo stesso…” spiegai, con la mia solita voce atona, priva di inflessioni, pragmatica. Poi tossicchiai un po’, non parlavo mai così tanto e la gola era subito diventata arida. Almeno credevo fosse per quello. La osservai spostare il peso da una gamba all’altra, dondolarsi un po’, puntare il pavimento col tacco a spillo, torcersi le dita in gesti nervosi. Era strana, era vicina, ma inquieta. “Sai per caso quando mi faranno uscire da qui?” chiesi, un po’ per spronarla, un po’ per toglierla da un impaccio che non riuscivo a inquadrare. Lei ne sembrò lieta e colse la palla al balzo.
    “Oh, ancora qualche giorno e poi ti sposteranno nel Reparto di Fisioterapia per la riabilitazione…”
    “Non c’è bisogno, quella la farò da solo. Vorrei solo andare via da qui al più presto…” dissi sincero, gettando un altro sguardo oltre la finestra, con il chiaro desiderio di essere già lì fuori. “E poi, abbiamo tante cose da fare, giusto? Posso essere d’aiuto!” specificai, tornando a guardarla subito dopo. Incrociai i suoi occhi scuri e cercai di penetrare i suoi pensieri, ma alla fine mi ritrassi. Non era così che avrei dovuto capire. Era assurdo per me farmi di questi scrupoli, ma c’era qualcosa che mi impediva di andare oltre.
    “Hai ragione! Farò in modo che ti diano le dimissioni al più presto e… potrai tornare a casa, sai la villa Auditore è un vero gioiello, non vedo l’ora di poterla mostrare…” E via così, un fiume di parole, di descrizioni, di entusiasmo. E io rimasi lì a fissarla, ipnotizzato, assurdamente perso in quella voce e in quel gesticolare esagerato.
    “Perché?” chiesi, tutto a un tratto. Claudia si bloccò di colpo, come se fosse stata addirittura schiaffeggiata. “Perché mi hai salvato la vita?” rincarai, come se la prima domanda fosse caduta nel vuoto, anche se sapevo benissimo che così non era stato. Eccola di nuovo quell’espressione smarrita che mai le avevo visto addosso, quel torcersi le mani, preda di un disagio sconosciuto. Ma non potevo davvero attendere ancora.
    “Non ne ho idea…” mi rispose dopo attimi infiniti, in un unico sospiro, arresa di fronte a una realtà che neppure lei comprendeva.
    Alzai un braccio e con un dito disegnai il profilo delle labbra dischiuse, dello zigomo perfetto, fino a soffermarmi sulla sua tempia liscia. Un tocco leggero, molto simile a una piuma che sfiora e non invade. E dovette percepirlo come tale, perché le sue iridi tornarono a incatenarsi alle mie… il disagio, solo una nota stonata sullo sfondo.
    “Sei una persona speciale, Claudia. Hai sangue freddo da vendere e la lucidità di una eccellente stratega. Ti ammiro per ciò che sei e sono onorato di poterti essere utile, di poter lavorare di nuovo al tuo fianco.” Era inutile continuare a indagare su un qualcosa che era ancora da definire, su un qualcosa di amorfo, senza colore, né nome. Tuttavia, era giusto che la mia riconoscenza e la mia lealtà arrivassero a destinazione senza alcuna ombra a offuscarle.
    Gli occhi umidi di Claudia, però, mi confusero.
    “Ne-ssuno… nes-suno mi aveva mai det-to cose del genere…” farfugliò in sillabe stentate. Speravo fosse una cosa positiva, ve l’ho già detto che non ci so fare con le emozioni, vero? Ma la verità no, quella era il mio pane quotidiano e non l’avrei negata per nulla al mondo.
    “Portami via da questa stanza e ti dimostrerò con i fatti le mie parole…” La fissai determinato, pronto a mantenere le mie promesse come non lo ero mai stato. Era lei a meritarlo prima di ogni cosa. Poi, sarebbe venuto tutto il resto.
     
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