New Templars Order Origins

Earth Prime

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    :Claudia:
    Avere Henry a casa era una gioia paragonabile a poter finalmente trasferirci a Villa Auditore, mentre i lavori proseguivano. Avevamo già preso possesso dell'appartamento in città, a Firenze, che tuttavia era stato pronto subito per il trasferimento, mentre la mia voglia di vivere fuori in campagna, tra il verde e la pace proseguiva.
    Io e Jordan avevamo comprato il rudere ed avevamo avviato i lavoro affinché venisse restaurata e portata ai vecchi splendori, non ristrutturando, ma bensì facendo una ricostruzione conservativo oltre che un restauro in piena regola.
    Con indosso un semplice vestito rosso a pois bianchi osservavo i lavori da sotto la larga falda del mio cappello di paglia. Gli occhiali da sole cat eye ed un ventaglio per farmi aria, mentre con il naso all'insù guardavo con emozione il momento in cui lo stemma di famiglia veniva sollevato e rimesso sul fronte della villa.
    Stavo sorridendo emozionata, quando voltandomi sorrisi radiosa ad Henry che mi stava venendo incontro. Mani dietro la schiena ed il suo solito sguardo imperturbabile. Non c'era bisogno di parlare, non quando mentalmente poteva annunciarsi e poteva dirmi che aveva portato a termine la prima missione che gli avevo affidato una volta tornato in forma.
    “Claudia lei è Ingvild. Miss Somerman sono felice di presentarle Miss Claudia" la sua voce atona era delicata ed elegante, mentre io allungavo la mano e stringevo quella della donna di fronte a me.
    Non era molto alta e portava i lunghi capelli grigi acconciati in due eleganti trecce sul capo. Era vestita in modo semplice con un abito a fiori ed un cardigan color bosco. Era assolutamente una vecchietta adorabile, ma ero certa che Henry avesse cercato anche altre qualità.
    "Sono certa che Henry l'abbia messa a conoscenza di ciò che stiamo cercando..." dissi cordialmente camminando al suo fianco, mentre ci incamminavano all'interno della villa ove operai e addetti delle belle arti ci passavano accanto non badando a noi. Henry ci seguiva, un passo indietro.
    “Mister King è stato preciso circa le qualità necessarie per poter adempiere al ruolo di capo governate e posso assicurarle che io le possiedo. So essere discreta, leale ed attenta. Avrò cura di assumere il personale ed assicurarmi che facciano il loro lavoro, qui e a Firenze, con la discrezione di cui avete bisogno"
    La sua voce carezzevole non nascondeva un tono sadico che apprezzai molto e feci presente ciò voltandomi verso Henry dietro di me e sorridendogli in quel modo radioso che solo con Jordan erano solita fare.
    "Non immagina quanto sono lieta sentirlo Ingvild. Sa io e mio fratello, ma anche Henry, saremo molto presti a breve e necessitiamo qualcuno di assoluta fiducia a cui affidare le nostre case e la loro gestione!" dissi con calma e gentilezza non prima che l'architetto ci raggiungesse e lì fece l'errore più grande che avrebbe mai potuto fare.
    “Miss Claudia mi spiace disturbarla, ma avrei bisogno della sua attenzione per..." non fece in tempo a finire di parlare che già avevo visto Henry tirare fuori un accendino. Lo accese, ma non per fumare, mentre io sorridendo mi voltai feroce verso il malcapitato e mettendogli una mano sul petto, usai il fuoco che avevo richiamato per dargli fuoco e renderlo un tizzone ben prima che avrebbe potuto urlare. Mi assicurai che rimanesse solo polvere, mentre guardando il mucchietto a terra piegai il capo da un lato.
    “Tuo fratello non ne sarà contento. E' il terzo in un mese..."
    "Sono sicura che Jordan ne troverà uno anche più bravo!" dissi con normalità, prima di assicurarmi che Ingvild non fosse rimasse impressionata, ma la vecchina non si scompose. Fu allora che il rumore delle ruote della Porche d'epoca di Jordan sulla ghiaia attirò .la nostra attenz. Alchè la vecchina mi guardò materna e poggiandomi una mano sulla spalla mi sussurrò “Oh non si preoccupi Miss Claudia, qui pulisco io... vada pure ad accogliere suo fratello!"
    Sentì di amare quella donna, mentre ringraziandola uscì con Henry dalla piccola stanza in cui eravamo entrati ed io avevo potuto prendermi la mia piccola vendetta lontana da occhi indiscreti. Henry lo sapeva, come Jordan. Non permettevo a nessun uomo di chiamarmi per nome, non quando troppe volte lo avevo sentito in bocca a uomini che lo avevano pronunciato solo per umiliarmi. Per tutti erano "Miss" e basta. Solo alle donne concedevo di pronunciare il mio nome e a solo due uomini.
    "Dove l'hai trovata mh? L'adoro!" esclamai prendendo a braccetto Henry mentre uscivo con lui.
    Rigido disegnò le labbra in un qualcosa che poteva ricordare vagamente un sorrisino perverso, mentre Jordan ci veniva incontro dopo aver parcheggiato. Pantaloni color kaki, camicia bianca con maniche lunghe arrotolate fino ai gomiti, mocassini sartoriali e occhiali da sole. Tutte gli morivano dietro ogni qualvolta passava.
    "Allora? Come è andata?" chiesi eccitata guardandolo.
    “L'Auditore Estate è ufficialmente fondata... citando la storia, saremo i nuovi Medici di questa meravigliosa città. E siccome ci tieni avevo già pensato di lasciarti occupare delle opere di mecenatismo!"
    Sorrisi radiosa e gettandogli le braccia al collo assentì felicissima. Non chiedevo altro!
    “Tutto ciò è stupendo, ma non dovremmo iniziare anche con l'altra parte del piano..."
    Henry sapeva essere un gran guastafeste e per questo si guadagnò una mia occhiataccia, ma aveva ragione e così mettendomi le mani sui fianchi li guardai.
    “Ho fatto già qualche indagine e so a chi possiamo rivolgerci per cercare ciò che cerchiamo e per questo..." Jordan esclamò pensieroso osservandosi il polso per controllare l'ora “... ho un aereo che mi aspetta tra qualche ora per Londra... Voi pensate di saper come contattare il mandaloriano?"
    Io ed Henry, complici ci guardammo, prima che tornando a guardare mio fratello gli risposi "Troveremo il modo!"
     
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    :Lara:
    La luce filtrava invadente attraverso le tende illuminando la stanza. Socchiusi leggermente gli occhi, infastidita ed assonnata.
    Guardai l’orologio sul comodino. 8:17. Sbuffai. Ormai non aveva più senso rimettersi a dormire, così mi alzai lentamente dal letto e mi diressi in bagno.
    Ero ancora intorpidita e stanca. La sera precedente l’avevo passata quasi insonne a fare ricerche su un artefatto che stavo cercando ormai da un po’.
    Mi feci un lungo bagno per rilassarmi e rinvigorirmi. Sarebbe stata una giornata decisamente impegnativa. Nel pomeriggio avevo una lezione all'università ed un collettivo docenti -saltavo dalla gioia all'idea- ed il resto della giornata l'avrei passato fra ricerche ed impegni vari. Di certo non potevo farmi fermare dal sonno.
    Uscii dalla vasca, legai i miei lunghi capelli in una classica treccia ed indossai i miei abiti più comodi -top nero, pantaloni lunghi marroni camouflage ed i miei adorati anfibi- e decisi di vagare per la mia umile dimora senza una meta.
    Percorsi il corridoio che portava alle imponenti scale con estrema calma, osservando i giganteschi quadri sulle pareti, bottini di numerose aste da cui ero uscita vittoriosa. Mi soffermai su uno in particolare, un dipinto di Johann Jakob Frey, Karnak, acquistato da mia madre alla prima asta a cui partecipai. Avevo otto anni, mia madre fu invitata in quanto esperta -ed aristocratica- ad un evento alla National Gallery e decise di portarmi con sé, vista la mia precoce curiosità. Da allora mi dilettavo anche in questo piccolo hobby, meno adrenalinico e pericoloso, ma comunque soddisfacente ed eccitante.
    Proseguii nel mio vagare, scesi le scale mastodontiche e mi avviai in cucina.
    “Buongiorno Miss Croft. Dormito bene?”
    “Buongiorno Winston. Poco ma bene.” gli risposi mentre prendevo la biscottiera e la posavo sul tavolo.
    “Avete proseguito quella ricerca?” continuò il mio fido maggiordomo mentre versava del tè nero in una tazza di porcellana finemente decorata.
    Winston era praticamente l’unica persona rimasta della mia famiglia. Non era mio parente, ma io lo consideravo come tale.
    “Sì e forse sono finalmente giunta a qualcosa. Il Pugnale Ora è nel Pacifico del Sud, ma la locazione precisa finora mi era sconosciuta, però ieri sera mi è venuta l’illuminazione e mi chiedo come abbia fatto a non pensarci prima. Ho scoperto che nella zona che mi ha segnalato il dottor Willard dovrebbe ancora esserci una tribù di indigeni. Adorano una divinità di nome Puna e chissà, potrebbero utilizzare il Pugnale Ora come reliquia sacra. In ogni caso, sono sicura che tramite loro e questa loro ossessione per Puna scoprirò qualcosa di più.”
    “Sono veramente contento per voi Miss Croft. Volete del latte nel tè?”
    “Già fatto, grazie... quante volte ti ho detto di non chiamarmi così?” gli chiesi guardandolo di sbieco mentre mi portavo la tazza alle labbra, ma comunque rassegnata dalla sua cocciutaggine.
    "Miss Croft, purtroppo è deformazione professionale." mi disse con quel suo sorrisetto furbo mentre portava una cassa di salumi nella cella frigorifera.
    "Sei serio? È da quando ho sei anni che ti dico di chiamarmi Lara, ed ora ne ho trentadue... in più, sei una persona fin troppo qualificata e brava nel suo lavoro per farsi limitare dalla deformazione personale."
    "Miss Croft, ormai sono un vecchio decrepito e le abitudini sono dure a morire."
    "... allora vuoi che ti rinchiudo nella cella frigorifera come facevo da piccola?" esclamai scherzosa.
    "Non ci tengo, anche se grazie a voi la mia pelle è ancora decisamente giovane... eravate, anzi, siete un diavoletto con la treccia Miss Croft, mi avete mantenuto arzillo nello spirito." mi disse ricomparendo dalla cella e sorridendomi radioso.
    Quanto adoravo quest'uomo.
    "Ci rinuncio!" dissi ironica, alzandomi dal tavolo e posando la tazza del lavello. "Se hai bisogno di me mi trovi fuori, vado ad allenarmi un po'."
    "Nel caso preparerò il mio giubbotto antiproiettile."
    "Ancora con questa storia?! Sono dodici anni che va avanti!" dissi esasperata.
    Qui una spiegazione mi sembra d'obbligo. Avevo vent'anni, avevo preso da poco il porto d'armi e mi stavo esercitando nel tiro a segno con le pistole, quando Winston, come suo solito, arrivò silenzio alle mie spalle per riferirmi un messaggio di mio padre. Mi spaventai così tanto che voltandomi gli sparai. Per fortuna -o miracolo- riuscì a salvarsi grazie al vassoio che aveva portato con sè -non ho mai capito perchè ce l'avesse, ma poco importa. Da allora non fa altro che canzonarmi su questo argomento.
    "Che vi devo dire, mi diverto a punzecchiarvi. Buon allenamento, Miss Croft."
    Sospirai, trattenendo una risata, per poi uscire dalla porta di servizio che mi avrebbe portato al percorso ad ostacoli.

    (...)
    Lo scoppiettare del camino, l'ambiente caldo e confortevole della biblioteca ed il suono dell'elegante pianoforte mi rilassavano oltre ogni dire.
    Era un altro dei numerosi passatempi che, ogni tanto, mi concedevo.
    La mia infanzia è stata un continuo susseguirsi di lezioni private di numerose attività -troppe per essere elencate. I miei genitori erano persone incredibilmente acculturate, che del sapere ne avevano fatto il loro lavoro e la loro vita, quindi desideravano il meglio anche per me, offrendomi la possibilità di avere molte conoscenze di base che un giorno mi sarebbero potute tornare utili. Fra queste c'era anche saper suonare vari strumenti e, che ci crediate o no, mi è tornato utile più volte nel corso delle mie avventure.
    Mi stavo perdendo tra il bianco ed il nero dei tasti, nelle note dolci e nostalgiche che mi ricordavano tempi andati.
    I miei genitori suonavano spesso questa melodia ed io l'avevo fatta mia. Quante volte vi è capitato di sentir dire "Questa è la colonna sonora della mia vita."?
    Ecco, questa era la mia.
    Ormai ero completamente immersa nella musica, le dita andavano praticamente da sole, quando sentii arrivare Winston.
    "Miss Croft, ha una visita."
    Arrestai le mani e mi voltai verso di lui con sguardo indagatore.
    "Chi è?"
    "Ha detto di chiamarsi Jordan Mahkent. Ha detto che deve affidarvi un lavoro molto importante. L'ho fatto accomodare nel vostro studio."
    "Grazie mille Winston."
    Con un cenno del capo si congedò.
    Chi era Jordan Mahkent?
     
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    Annarita
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    :Jordan:
    Viaggiare. Avevo dato un nuovo significato a questo verbo da quando ero giunto nella nuova dimensione. Era affascinante, movimentato, a tratti persino avventuroso. Era davvero strano guardare agli aerei come i prototipi preistorici delle nostre navicelle spaziali. Erano così limitati, fragili, “lenti”, eppure – un po’ come il nuovo ritmo di vita in città, a cui mi ero facilmente abituato – ne ero rimasto ammaliato, anzi no, ne ero rimasto soggiogato. Avevo spesso la sensazione di star recitando in una specie di film d’epoca, ma mi rendevo conto che ciò che per me era obsoleto per gli esseri terrestri di questo mondo era la piena modernità, lo sviluppo tecnologico al suo massimo splendore, i mezzi più avanzati per spostarsi da un Paese all’altro… se solo avessero saputo cosa c’era “oltre” la loro rassicurante quotidianità… Ma un altro tratto che mi attirava dei terresti era proprio questo: erano convinti di essere gli unici e soli in un universo infinito. Un bel po’ egocentrici, vero? Ma anche interessanti sotto molti aspetti.
    Sorrisi gentile, ringraziando la hostess che mi aveva accompagnato per tutto il volo in prima classe verso la Capitale inglese; mi aveva appena informato che era ora di allacciare la cintura di sicurezza perché iniziavano le manovre per l’atterraggio. Ottimo. Il viaggio era stato breve, ma comunque comodo… nonostante tutto. Guardai fuori dal mio finestrino e notai il colore strano del cielo, il sole stava tramontando e tinteggiava di sfumature vermiglie l’orizzonte e la terra ferma, sempre più visibile. Restai incantato e senza parole.
    Da quando ero tornato a vivere, avevo imparato che erano le piccole cose a rendere un’esistenza grande, piena, emozionante. Una risata, un tramonto, la pioggia sul viso, la carezza di una persona cara. E mi ero ripromesso, da allora, che ne avrei fatto tesoro. Avrei custodito gelosamente ognuno di quei dettagli e gli avrei dato il significato che meritavano… grazie ad essi, ero certo, che il mio percorso sarebbe stato meno difficile e fino ad ora non ero stato smentito.
    Ma era giunto il momento di mettere da parte le riflessioni, l’attuazione del nostro ambizioso piano richiedeva concentrazione e lungimiranza. Io cercavo di esserlo sempre il più possibile, concentrato e lungimirante, era il mio personale modus per mantenere il controllo sugli eventi…
    A ogni modo, la mia destinazione non era distante e avevo deciso che avrei fatto solo una brevissima sosta all’Hotel prenotato prima della partenza per darmi una rinfrescata. Poi, sarei andato dritto alla meta del viaggio: la dimostra di Miss Lara Croft.
    […]
    La villa di Miss Croft era proprio come l’avevo immaginata. Enorme, ma perfettamente nascosta a un occhio distratto; molto vicina a Londra, ma immersa in un verde sconfinato. Di sicuro, rispecchiava il carisma di questo personaggio che mi aveva affascinato fin da quando il suo nome era saltato fuori. Avevamo bisogno di ritrovare un “reperto” molto importante in questa dimensione, chi meglio di un’archeologa avventurosa avrebbe potuto soddisfare a tutti i requisiti per questa ricerca? Ovvio, in pochi conoscevano la sua doppia vita, ma io – fortunatamente – facevo parte di quei pochi. Forse nessuno, però, conosceva il vero segreto della famiglia Croft, un segreto che sembrava essere stato sepolto con il padre di Lara…
    Attendevo di essere ricevuto in uno studio di considerevoli dimensioni, circondato da oggetti che, a occhi profani, sarebbero potuti sembrare anticaglie ma che di fronte ai miei – ormai divenuti esperti – apparivano nella loro reale sostanza: reperti storici di grande valore. Ero anche certo però che i pezzi di grandissimo valore non li avrei trovati intorno a me… I miei ragionamenti erano, nel mentre, cullati da una musica struggente, abilmente eseguita. Potevo percepire l’emozione, la tristezza, il rimpianto, i tempi andati scaturire da ogni nota come uno zampillo che si trasforma in un fiume in piena. A un tratto, una smorfia di disappunto colorò il mio viso: il maggiordomo aveva interrotto l’esecuzione per avvisare la “musicista” del mio arrivo. Era ovvio che la padrona di casa era la pianista che avevo appena udito… un altro punto che andò ad avvalorare la mia scelta.
    Il mio volto era tornato sereno quando Miss Croft mi raggiunse nel suo ufficio, trovandomi in piedi, con le braccia incrociate dietro la schiena, intento ad ammirare i vari soprammobili.
    “Devo ammettere, Miss Croft, che la sua casa potrebbe tranquillamente diventare un museo senza spostare neppure un posacenere!” esordii, girandomi verso Miss Croft. Le sorrisi affabile, esibendomi in un leggero inchino e porgendole una mano. “Si starà chiedendo chi è il villano che viene a disturbarla a un’ora tanto sconveniente: sono Jordan Mahkent, un appassionato di arte, storia, leggende…” Lasciai che le mie parole attecchissero, ma non solo. Desideravo che la mia interlocutrice mi osservasse bene, mi studiasse con cura e abbandonasse la naturale diffidenza che permeava chiunque possedeva una doppia vita. Ne sapevo qualcosa.
    “Mr. Mahkent, crede di essersi presentato a dovere, ma in realtà non so molto di più di qualche istante fa: è un uomo affascinante, porta dei bei vestisti e ha buon occhio per gli oggetti antichi. Tutto ciò non mi chiarisce la sua identità…” Nonostante la diffidenza di cui accennavo prima, mi strinse la mano e mi fece un cenno affinché mi accomodassi. Sperai fosse un buon segno. Anche io la stavo studiando…
    “Ha perfettamente ragione. Perciò credo sia il caso di andare direttamente al nocciolo della questione. Conosco il segreto della vostra famiglia…” La vidi irrigidirsi e mi affrettai a continuare. “Sono qui per chiederle aiuto. Anzi, con ogni probabilità, senza di lei la Causa a cui sono votato potrebbe non trovare compimento.”
    “Continuo a non capire, come ha a che fare la sua presenza in casa mia con il presunto segreto di cui va ciarlando?” Era sulla difensiva, com’era prevedibile.
    “È molto semplice: è lo stesso che custodisco da tanto tempo… proprio come lei e la sua famiglia… Apparteniamo a un antichissimo Ordine, ormai estinto nella sua efficienza operativa. Il mio scopo è quello di restaurarlo. Per farlo, però, ho bisogno delle sue abilità di esploratrice.” Il silenzio calò tra di noi, lasciai che accadesse, necessitavo che Miss Croft elaborasse le informazioni che le avevo dato. Non avevo dubbi sul fatto che mi avrebbe creduto. Avevo imparato che le persone intelligenti riuscivano a distinguere la verità dalle menzogne, perciò mentire non serviva a molto con tali soggetti. Lara Croft riconobbe la verità, come avevo previsto.
    “Cosa dovrei cercare con esattezza?” Il pragmatismo era una qualità che ammiravo e fui felice di constatare che fosse tra le qualità di Miss Croft.
    Mi rilassai, appoggiando la schiena alla comoda poltrona di pelle e accavallando le gambe con un gesto fluido. Sul mio viso comparve un sorriso affabile…
    “Ho bisogno che lei trovi il Monolite del Tempo, Miss Croft.”
    Un altro passo era stato fatto per il compimento del grande piano.
     
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    :Lara:
    Parcheggiai la moto, spensi il motore, scesi dal mio adorato veicolo a due ruote togliendomi prima il casco, poi i miei amati occhiali da sole rotondi vintage e mi diressi all'entrata dell'edificio.
    Le mie ricerche mi avevano condotta a Paola, città situata nel sud-est dell'Isola di Malta.
    L'incontro con Mr. Mahkent era stato a dir poco interessante.
    Non avevo mai sentito parlare di quell'uomo, e nemmeno dalle ricerche che avevo fatto in seguito alla nostra chiacchierata ero riuscita a trovare qualcosa sul suo conto. Sembrava essere un fantasma. La sua vita sembrava partire di recente, quando con la sorella aveva comprato un paio di immobili in Toscana. Su di lui e la sorella non vi era altro. Il che mi aveva messo ulteriormente in allerta. Non era la prima volta che mi venivano commissionate ricerche di questo tipo da soggetti ambigui.
    Un paio di anni fa avevo avuto a che fare con la magnate della Natla Technologies, Jacqueline Natla, che mi aveva chiesto di ritrovare i pezzi perduti di un antichissimo artefatto, lo Scion. Inizialmente non mi feci troppe domande, anche perché le prime -ed uniche- informazioni che trovai non dicevano niente di particolare riguardo a questo oggetto. Dopo aver trovato il primo frammento iniziai ad intuire che c'era ben altro dietro. Infatti Natla voleva "semplicemente" riportare ai vecchi fasti la civiltà perduta di Atlantide, diventando lei l'unico capo indiscusso.
    Per questo quando Mahkent aveva nominato il Monolite del Tempo e, soprattutto, la mia discendenza Templare la mia diffidenza era decisamente aumentata.
    Non ero stupida, capivo quando qualcuno mi mentiva o meno, e lui di sicuro non l'aveva fatto, però il tarlo della diffidenza non voleva demordere... ed io non volevo che lo facesse.
    Nel mentre avevo voluto dargli il beneficio del dubbio -anche perché era un lavoro decisamente stimolante-, ecco perché mi trovavo di fronte all'entrata del sito archeologico dell'Ipogeo di Ħal-Saflieni.
    Era una struttura straordinaria, scavata nella terra ancor prima della costruzione delle Piramidi e di Stonehenge, creata originariamente come santuario e poi convertito in necropoli.
    Si sviluppava in tre livelli sotterranei ed era basata sul sistema trilitico. Era stata proprio quest’ultima caratteristica ad attirare la mia attenzione.
    Il Monolite del Tempo era esso stesso un trilite, ed in quale altro luogo poteva nascondersi se non in uno dove poteva mimetizzarsi con facilità?
    Trovarlo sarebbe stato come con un ago in un pagliaio, ma poco importava. Adoravo le sfide.
    Accesi un bengala per illuminarmi la via ed entrai nel sito archeologico, silenzioso e deserto. Essendo una famosa archeologa avevo sfruttato un po’ della mia fama, guadagnata con fatica e sudore, per avere il santuario tutto per me con la scusa di una piccola ricerca, così da muovermi indisturbata.
    Raggiunsi rapidamente il primo livello, quello più superficiale ma anche quello più antico.
    Esplorai con attenzione sia la grande sala centrale che le camere funerarie ai lati, stanze ricavate dalle caverne naturali ed in seguito ingrandite, ma del Monolite nemmeno l’ombra.
    Tramite un passaggio scesi al secondo livello, il piano più intricato e complesso dell’Ipogeo.
    Ero abbastanza sicura che quel che cercavo l’avrei trovato lì.
    Mi addentrai nei corridoi quasi labirintici scavati nella pietra ed immersi nell'oscurità, rischiarati solo dalla mia torcia. Sembrava quasi che la roccia stessa mi stesse inglobando, fondendomi con sé. Questo era forse il livello più affascinante fra i tre proprio per il fatto che sembrava una gigantesca scultura, ornata da numerose pitture murali sulle tonalità del rosso ed elementi architettonici scolpiti nelle pareti.
    Arrivai nella Camera Principale, una stanza circolare centrale intorno alla quale si sviluppavano camere minori. In questa sala c’erano degli ingressi trilitici sulle pareti, alcuni conducevano alle altre stanze, altri fungevano solo da decorazione. Mi concentrai sull'osservare quest’ultimi ma niente da fare.
    Decisi di inoltrarmi nelle stanze adiacenti fino a quando non arrivai nel Sancta Sanctorum.
    Ciò che mi colpì ed attirò fu l’oblò, da cui entrava una flebile luce che illuminava la stanza, posto all'interno di tre triliti, disposti uno dentro l’altro.
    Era uno di quei tre, ne ero certa.
    Mi avvicinai ad essi, immergendomi nella luce gentile che dava un’atmosfera quasi magica alla sala.
    Toccai prima il più piccolo al centro. Nulla.
    Provai con il secondo. Niente nemmeno ora.
    Posai la mano guantata sul terzo, quello più grande, ma anche questa volta non accadde nulla.
    Era impossibile, doveva per forza essere un di questi tre.
    Alzai lo sguardo, mi guardai attorno ed iniziai a ragionare. Osservai con attenzione ogni anfratto, ogni nicchia, ma niente.
    Mi voltai nuovamente verso i tre triliti, quando qualcosa attirò la mia attenzione.
    La luce che passava dall'oblò si riversava a terra, nel centro esatto della stanza. Solo in quel momento mi resi conto che c’era una sorta di interferenza nel raggio di luce, che ne disperdeva una piccola parte in altri punti del pavimento. Guardai la piccola apertura. Qualcosa ostruiva in parte la finestrella.
    Mi arrampicai arrivando ad essa. Ciò che interferiva era una piccola escrescenza, in apparenza facente parte della parete. La premetti con forza e con un leggero clack questa rientrò nel muro.
    Scesi a terra. Finalmente non c’era più niente che distorceva la luce.
    Tornai davanti ai triliti ed istintivamente toccai direttamente il secondo.
    Questo si accese di una luce propria e dipinse tutto attorno a sé, me compresa, di un azzurro intenso, quasi accecante.
    Ogni volta che vedevo cose del genere l’emozione era così tanta che mi sembrava sempre come la prima volta.
    L’avevo trovato. Avevo trovato il Monolite del Tempo.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 28/9/2020, 09:37
     
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    “Claudia cara sta attenta e ti prego Henry caro prenditi cura di lei mh?" Ingvild aveva detto quelle parole con la stessa dolcezza e severità con cui ormai aveva a che fare con noi. Nel tempo si era guadagnata la nostra più totale fiducia, mentre a me accalorava l'idea di poter avere una persona così fedele e leale al nostro fianco che mi desse il calore di una madre. Ridacchiai sotto i baffi vedendo il disagio di Henry ogni volta che lo chiamava "Henry caro", cosa che ormai faceva sempre con noi due quanto con Jordan, prima di abbracciarla amorevolmente ed assicurarle che non ci sarebbe stato di che preoccuparsi.
    "Al contrario Ingvild a te lascio le redini della villa e come sai, con l'assenza di mio fratello, anche la casa a Firenze necessita essere seguita. Lascia qui i domestici migliori e tu spostati lì fintanto Jordan non sarà di ritorno..." le ordinai ma non usando quel tono altezzoso ed algido che ero solita riservare a tutti gli altri nostri impiegati.
    Lei assentì con onore e decisione, prima di accompagnarci fin fuori alla villa lì dove io ed Henry salimmo in una delle auto d'epoca che lui e Jordan avevano iniziato a comprare. Una meravigliosa Alfa Romeo Giulietta Spider rosso fuoco. Inforcai i miei occhiali da sole, sistemai il foulard in testa e poi con la mano guantata salutai Ingvild che rimase sul vialetto fintanto io ed Henry non sparimmo alla sua vista.
    Non era stato facile portare a termine il compito che mio fratello mi aveva assegnato, io ed Henry avremmo dovuto non solo ingaggiare un Mandaloriano, ma successivamente infiltrarci alla corte imperiale lunare che, in base alle nostre ricerche, doveva esistere anche in quell'universo. Tutto ciò era fattibile, ma vera difficoltà sarebbe stata invece capire come poter lasciare la Terra a fronte della tecnologia primitiva di quel posto, che per quanto amassi proprio per quello, sotto altri punti di vista causava problematiche non da poco.
    Dovetti lavorare strenuamente per trovare un contatto alieno sulla Terra, ma anche grazie l'aiuto di Henry, ed inaspettatamente di Ingvild (che ci stupiva ogni giorni per la rete di contatti a dir poco interessante che possedeva), eravamo riusciti ad incontrare un mercante di Callisto. Satellite di Giove.
    A quanto pare lo stesso scendeva illegalmente sulla Terra, faceva rifornimento di cianfrusaglie che però sul suo piccolo pianeta risultavano merce assai rara ed interessante che poi rivendeva a prezzi ridicoli. Callisto era famosa anche nel nostro mondo per essere una vera e propria discarica, si trovavano mercanti di ogni specie, che tuttavia a volte nascondevano vere e proprie gemme se solo si sapeva dove e come cercare.
    La sua navicella era nascosta nella Foresta di Berignone, lì usava un dispositivo di occultamento per mischiarla con la flora locale ed oltretutto essendo una riserva naturale era ben lontano dalle folle ed occhi indiscreti. Era lì che ci stavamo dirigendo in attesa di prendere il nostro passaggio che avevamo pagato con il più strambo assortimento di oggetti che avessi mai visto.
    Sorridente mi guardavo intorno godendo di quel mondo che come sempre sapeva stupirmi con la sua natura, la sua bellezza e quella semplicità che mi riempiva l'anima. Mi accorsi solo un po' che Henry mi stava fissando e quando lo feci lui tornò con lo sguardo fiero e fisso sulla strada di fronte a lui. I suoi occhi nascosti dalle lenti da sole.
    "Che c'è?" gli chiesi.
    Lui non mi rispose, solo scosse il capo non curante, mentre sulle mie labbra si disegnava un altro sorriso adesso più emozionato. Quasi in imbarazzo.
    “Non dovresti provare stupore di fronte al fatto che la tua personalità possa così tanto attrarre..." disse con quella sua semplicità disarmante. Il tono piatto e la voce ferma.
    "Non è facile essere guardata e non leggere negli occhi nel mio interlocutore, bramosia e possessione... gli uomini sono incapaci di ignorare il proprio desiderio ed istinti... eppure... mai una volta nel tuo ho visto ciò..." e lo dicevo sinceramente colpita. Quasi stranita.
    “Te l'ho già detto... è il tuo acume, la tua fermezza, il tuo intelletto e sagacia ad essere un magnete e chi non se ne accorge merita di essere bruciato dal tuo disprezzo..." il che era anche letterale e quello mi fece venire in brividi. Henry davvero pensava quelle cose di me? E perchè mi facevano battere il cuore così forte? Io che mi ero ripromessa che nessuno, a parte mio fratello, avrebbe meritato la pare più pura e vera di me. Che nessuno sarebbe entrato così in profondità fino ad abbracciarmi l'anima e farmi sentire al sicuro.
    Mi morsi il labbro inferiore pitturato di rosso e poi allungai per un attimo la mia mano sulla sua, che stringeva il cambio a mano. Ci fu solo un momento, per noi molto più lungo di un istante, in cui ci guardammo. E poi scostandola tornai a guardai il paesaggio fin quando non giungemmo alla nostra meta.

    Il viaggio sulla nave cargo fu, fortunatamente, relativamente veloce. Quella navicella puzzava ed il suo proprietario era il massimo della rozzezza. Per tutto il tempo io ed Henry eravamo stati in apnea fin quando, finalmente su Mandalore, eravamo tornai a respirare. Guardammo la navicella allontanarsi e poi con la tranquillità che contraddistingueva la nostra conoscenza di quei luoghi ci incamminammo verso la cittadella sacra.
    Non eravamo sprovveduti sapevamo che non potevamo entrarci, ma come sempre, esporre la nostra richiesta alle porte della città dove due Mandaloriani, dalle divise argento scintillanti (segno che non avevano mai combattuto una vera battaglia) raccolsero la nostra domanda.
    Come di consuetudine venimmo scortati nella locanda postata fuori dalle mura e dove tutti i "clienti" venivano fatti alloggiare in attesa di ricevere responso. Non ci volle molto per notare loro il nostro rango e così delle tre palazzine venimmo fatti alloggiare in quella più ad est. La più lussuosa, solo dove i clienti più facoltosi e che maggior denaro avevano offerte per i servigi dei Mandaloriani, si erano fatti avanti.
    Non avevamo intenzione di passarci la notte e così accettammo di buon grado la grande camera che ci venne proposta per entrambi. Una suite con tanto di salottino e terrazzo che dava sulle ampie dune di Mandalore, ma anche sulla piccola oasi dedicata solo ai clienti più importanti.
    C'era chi prendeva il sole, chi faceva il bagno, chi si accompagnava alle più belle concubine di Venere. Con le mani ben poste sulla balaustra dorata osservavo il paesaggio mentre con eleganza mi toglievo occhiali da sole e foulard. I capelli rossi ricaddero sinuosi sulla schiena lasciata nuda dallo stretto tubino vinaccia che indossavo che era caratterizzato per un ampio scollo posteriore.
    "Dimensione diversa, ma stesse abitudini... Seppur devo ammetterlo questo universo senza l'"Impero", ma con l'"Impero Lunare" è molto meglio!" ammisi valutando quel che per ora avevamo visto.
    “Mai fu errore più grandi per i reali della Luna piegarsi alla democrazia... il Senato è stato un atto di debolezza..." disse un Henry disgustato da tanta debolezza. Le mani dietro la schiena e lo sguardo fisso di fronte a lui. Scrutava ogni singolo ospite con riluttanza, odiava quel tipo di vita. Quel tipo di essere uomo e questo, se possibile, lo innalzò ancor più ai miei occhi.
    "Al punto che è stato fin troppo facile per mio padre spargervi il suo veleno... Ma qui non accadrà... l'"Impero" non nascerà, quanto l'"Impero Lunare" non avrà modo di essere debole. Con il nostro intervento raggiungerà il massimo dello splendore e lo farà grazie ad un esercito mai visto. Useremo i loro mezzi per crescere, fortificarci e divenire invincibili e a quel punto domineremo. Manterremo ordine e giustizia e mai gli orrori che noi siamo stati costretti a vivere si ripeteranno!" lo dissi piena di orgoglio ed ancor più certa del Credo che smuoveva me e mio fratello e che Henry supportava. Forse per questo, quando le nostre mani di nuovo si incontrarono, questa volta non rifuggì al contatto. Sentì un brivido percorrermi, la stessa paura che ogni volta mi scuoteva quando un uomo osava tanto. Ma poi respirai e mi ricordai che con lui non avevo nulla di cui temere.
     
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    Annarita
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    Ritrovarsi in un angolo del mio monolocale a curarmi le ferite era ormai la mia routine da anni. Terminava una missione, mi rifugiavo nel luogo che avevo imparato a chiamare a casa, toglievo il casco, l’armatura e gli indumenti, così partiva la revisione delle eventuali ferite che potevano aver bisogno della mia attenzione. Fissai lo squarcio sul deltoide destro – figlio di un unico momento di distrazione di cui il nemico aveva approfittato al volo – e ringraziai di essere ambidestro, era essenziale se volevi diventare un mercenario ricercato. La pulii per come mi permetteva la posizione scomoda e, grazie l’ausilio di uno specchio, iniziai il lavoro di ricamo. Il dolore faceva parte di me, lo accoglievo come fase catartica che mi permetteva in qualche modo di espirare ogni mia singola azione. Non vi badavo più, stringevo i denti, spesso fino a sentire il sapore del sangue sulla lingua, ma terminavo il lavoro senza che la mano tremasse… ogni volta. Anche questa non fu diversa.
    Feci scrocchiare i muscoli anchilosati, prima di farmi una doccia veloce e coprire i punti con una garza pulita. Per ora sarebbe stato sufficiente.
    Mangiare? Non lo facevo da forse due giorni…
    Dormire? Quand’era l’ultima volta che avevo chiuso gli occhi per riposare? Non lo ricordavo più.
    Dovevo almeno ingerire qualcosa, ma di dormire non ne avevo alcuna voglia. Avevo già “testato” la mia resistenza in tal senso e non era niente male. Il punto era che, il riposo prevedeva di stare fermo più del tempo impiegato per un pasto semplice, per ricucire i tagli o togliermi via la sporcizia della battaglia. Fissai il letto con le coperte intatte. Era un due piazze “fuori misura” – la mia stazza sembrava essere ragguardevole – con lenzuola fresche di bucato. Le donne di servizio erano precise ed efficienti, riuscivano a rendere quegli appartamenti molto più accoglienti di un ricovero per soldati. Non che ci facessi molto caso di solito, ma questo era il prezzo da pagare quando “mi fermavo” troppo a lungo.
    Scossi il capo, andando dritto verso l’armadio a doppia anta. Dovevo recuperare dei vestiti puliti, indossare le mie armi e uscire da qui.
    Dovevo muovermi, dovevo tenermi impegnato, era l’unico modo per non pensare. Amavo questo posto anche per questo: non ti dava modo di restare sugli affari inutili.
    La Grande Bacheca – così la chiamavano da tempi immemori – era suddivisa in due parti fondamentali, a sinistra venivano affisse le richieste per incarichi minori – recupero oggetti di scarso valore, vendette di carattere personale come punizioni per tradimenti, truffe, furti di poco conto e così via – di solito affidati da persone senza alcuna attitudine, incapaci persino di trovare la strada di casa senza indicazioni precise; a destra, invece, venivano affissi gli incarichi di alto livello – recupero oggetti di altissimo valore, recupero ostaggi, rapimenti su mandato di personaggi importanti, organizzazione di milizie private e via dicendo – sempre commissionati da persone di un certo rango, che volevano però mantenere l’anonimato.
    Chi ero io per biasimarli? Noi stessi mandaloriani, al di là dei confini della nostra “casa”, eravamo obbligati – senza che questo ci creasse alcun problema – a nascondere il nostro volto. Solo tra noi potevamo farne a meno, conoscerci era essenziale per aiutarci in caso di necessità ma che “gli altri” non ci conoscessero era di vitale importanza per la nostra sopravvivenza.
    Certo, tra i mandaloriani in attività non mancavano le invidie e gli egoismi. Già la sola suddivisione della Bacheca presupponeva una distinzione chiarissima tra i ranghi gerarchici che col tempo si erano stabiliti. Non c’erano dei veri e propri gradi da rispettare, ma l’anzianità di servizio doveva essere tenuta in conto molto più dell’età, giusto per fare un esempio. E io ero di certo considerato tra i più anziani. Militavo da talmente tanto tempo da aver visto ben quattro generazioni di giovani reclute diventare miliziani perfettamente addestrati e pronti al combattimento.
    E per questa ragione “pescavo” le mie missioni dalla parte destra della Grande Bacheca. Per questa ragione attiravo stima e rancore al contempo. Ma poco importava, perché né l’una né l’altro avevano mai attecchito al punto da portarmi a creare rapporti interpersonali. Conoscevo tutti, ma non conoscevo nessuno. Tutti mi conoscevano, ma nessuno mi conosceva davvero. Guardavo gli altri mandaloriani e mi sentivo parte di qualcosa di grande, ma non si trattava di spirito cameratesco, affatto. Sentivo di appartenere a quel pianeta molto più di quanto mi ero sentito di appartenere al mio pianeta di origine. Qui non venivo giudicato, misurato e scartato per via del sesso. Qui venivo giudicato, misurato e accettato per ciò che ero: un combattente tenace e letale.
    Per me era sufficiente per sentirmi a casa. Non mi serviva altro.
    Stavo masticando lentamente un po’ di pane nero, mentre fissavo gli incarichi della bacheca. Valutavo, studiavo, mi lasciavo trasportare dall’istinto. Ormai mi bastava leggere poche righe o guardare qualche foto per farmi un’idea della missione, delle conseguenze, delle risorse che sarebbero servite per portarla a termine.
    Un foglio di pergamena pregiato attirò la mia attenzione. Non vi erano sigilli particolari – alcuni personaggi che utilizzavano di continuo “i nostri servizi” usavano mettere dei sigilli con disegni riconoscibili a mo’ di firma; così potevano assicurarsi i servigi dello stesso mandaloriano poiché quest’ultimo lo riconosceva e prendeva l’incarico – ma il testo non poteva passare inosservato, almeno non ai miei occhi. Cercavano delle Chiavi, manufatti antichissimi, riconducibili ai creatori della nostra realtà. Se il mio istinto non mi stava giocando un brutto tiro, sapevo di quali Chiavi stavano parlando… La missiva specificava che era necessario un briefing con i mandatari… strano, solitamente i boss desideravano restare nell’ombra, portando avanti le comunicazioni “a voce”. Questa cosa mi incuriosii, e non accadeva tanto spesso che riuscissi a provare reale interesse verso qualcosa o qualcuno… Non sapevo se fosse un bene o un male, ma ero certo che l’avrei scoperto molto presto. Ottimo! Avevo scelto la mia prossima missione.


    :Henry:
    Mi muovevo a passi leggeri, che la moquette silenziava totalmente. Facevo la spola tra la finestra aperta, da cui si potevano ammirare i bagordi di gente piena di soldi e scheletri nell’armadio da tenere ben nascosti; e il grande letto della suite che ci era stata assegnata per rendere più gradevole l’attesa.
    I tempi si erano allungati, il mandaloriano che cercavamo doveva essere ancora in missione quando era stata affissa la nostra richiesta, così avevo insistito con Claudia affinché mangiasse qualcosa e riposasse un po’, non aveva senso attendere a stomaco vuoto. L’esaltazione per questa missione l’aveva stancata senza neppure che se ne accorgesse, ma io no, non potevo permettermi di lasciarmi sfuggire certi dettagli. Non con lei. Infatti, si era addormentata quasi subito con un sorriso appena accennato sul volto di alabastro. Era così vulnerabile quando dormiva, così esposta, così “aperta” che quasi temevo di violarla con la mia sola presenza. Eppure, non riuscivo a fare a meno di osservarla, di tenerla sott’occhio, attento a captare qualsiasi dettaglio che potesse arrecarle disturbo. Col calar della luce avevo posizionato le tende cosicché non la disturbasse troppo e le avevo rimboccato un lenzuolo sulle spalle e la schiena lasciate nude dall’abito che si era ostinata a tenere su: doveva essere pronta a ricevere il mandaloriano in ogni momento.
    Quando ricevetti la chiamata di contatto, mi avvicinai al letto e sfiorai una guancia di Claudia con l’indice. La schiera ritta, il braccio teso, le dita forse troppo fredde. Si svegliò sbattendo leggermente le palpebre e io la guardai come si fa con una pietra rara e introvabile. Così era Claudia ai miei occhi, un essere unico, che nessuno sarebbe mai stato in grado di comprendere nella sua interezza, nemmeno io. C’era un universo dentro di lei…
    “È ora…” dissi solamente, prima di lasciare la stanza e darle la sua privacy.
    Dopo circa dieci minuti fui raggiunto da una Claudia del tutto sveglia e raggiante. Il trucco perfetto, le labbra color rubino, il sorriso simile a un diamante.
    “Pronta?” le chiesi a voce bassa.
    “Sono nata pronta!” E mi fece un occhiolino divertito, ma non mi aspettavo il tocco della sua mano sul mio braccio. Una stretta breve ma intensa.
    Mi schiarii la voce e accennai un sorriso a mia volta, il massimo che ero in grado di tirare fuori. E aspettammo l’arrivo del mandaloriano più ricercato del pianeta, di origini eterne, l’unico che avrebbe capito i riferimenti che avevo inserito nell’incarico.
    Passò ancora qualche altro minuto e un paio di tonfi alla porta annunciarono l’arrivo del nostro ospite. Lo invitai ad accomodarsi e osservammo l’entrata nella suite – che divenne improvvisamente più piccola – di una specie di gigante dalla pelle scura, ricoperto da un’armatura nera come l’abisso: nessuna luce pareva riflettersi su di essa, ogni raggio luminoso veniva inghiottito dal materiale di cui era costituita. Il casco ricopriva per intero il capo e il viso del mandaloriano, celandoci ogni sua espressione. Non che credessi che avremmo scoperto molto da esse, la rigidità della postura evidenziava un muro invalicabile oltre il quale non saremmo potuti andare. Fortunatamente non avevamo alcun interesse a farlo.
    Ci salutò con un cenno della testa, seguito da un breve pugno battuto sul petto, assomigliava molto al saluto dei soldati marziani… e capii di avere davanti colui che andavamo cercando.
    “Siamo lieti che abbia accettato il nostro incarico, sono certa che non ci deluderà!” La voce di Claudia era melodiosa, ma riconobbi la sua solita nota autoritaria. Non se ne accorgeva, ma quando aveva un individuo maschio davanti – che non fossimo io o Jordan – il suo atteggiamento cambiava. In maniera sottile, subdola. Era il suo passato che sembrava tornare ogni volta al presente. Il viso coperto del nostro interlocutore, comunque, pareva aver attutito la sua reazione di solito più aspra.
    “Il vostro incarico mi è parso subito interessante. E il fatto che abbiate voluto un contatto diretto mi ha dimostrato che il mio intuito non si sbagliava. State cercando le leggendarie Chiavi Titane. Ovvio che, per voi, non hanno nulla di leggendario…” Il tono del gigante era greve, ma spigliato. Provai fin da subito una strana fiducia verso quell’omone, forse era davvero la persona giusta per questa missione a dir poco ardua.
    “Proprio così. Sappiamo che sono state conservate gelosamente, sulla Terra, da un Ordine militare ormai estinto nel 1800 circa. Stiamo parlando…”
    “Dei Templari. Si dice che siano stati i depositari delle Chiavi, ritenuti degni dai loro Creatori al punto da tenere vivo il loro legame attraverso questi manufatti molto potenti…”
    Non mi piaceva essere interrotto, ma il tipo sembrava sapere il fatto suo, fornendo informazioni di cui neppure noi eravamo a conoscenza. Ottimo. Alzai il mento, il mio personalissimo modo per esprimere apprezzamento.
    “Da quando l’Ordine si è estinto però se ne sono perse le tracce… Come credete che possano davvero essere recuperate dopo tutto questo tempo?”
    “Proprio per questa ragione ci siamo rivolti a lei, le sue referenze sembrano essere strabilianti.” Ecco Claudia che tornava a pungolare il mandaloriano. Non sorrisi perché non era mio costume, ma potei giurare che un sorrisino simile era appena spuntato sul volto nascosto del nostro ospite.
    “La ringrazio, signora, per la sua fiducia. Amo le sfide, soprattutto quelle quasi impossibili da vincere. Per questa ragione ho accettato l’incarico.”
    I miei occhi esprimevano soddisfazione e notai che anche quelli di Claudia traboccavano di premeditata vittoria.
    “Allora, non ci resta che augurarle buona fortuna!” dissi a mo’ di congedo.
    “Non credo nella fortuna. Sono un amante della pianificazione, sono certo che è per questo che mi avete cercato. Di solito non mi esprimo con dei miei giudizi, ma mi sembrate molto diversi dai soliti ricconi che arrivano qui convinti di poter acquistare con i loro soldi l’universo creato… La vostra ricerca ha scopi che vanno ben oltre, perciò vi assicuro che non lascerò nulla di intentato. E ora, tolgo il disturbo.”
    Così com’era arrivato, con un’agilità di cui non appariva capace, si dileguò. Mi voltai verso Claudia con occhi di nuovo quieti.
    “Abbiamo scelto decisamente bene…”
    “Lo credo anche io e Jordan sarà del nostro stesso parere…”
    E anche questa seconda parte del piano era stata portata a termine. Adesso non ci restava che attendere.
     
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    L'incontro con il Mandaloriano, cui nome come da tradizione, era sconosciuto, era stato assai proficuo. Innanzitutto ne avevo apprezzato il modo di fare conciso e diretto ed in secondo luogo mi aveva fatto piacere constatare che molto probabilmente, vista la stazza, fosse un marziano. Tolti i pirati troiani, che mi facevano venire il ribrezzo al solo pensarci, il resto della popolazione maschile del pianeta e delle sue colonie da sempre vantava la fortuna di avere la mia stima. Uomini concreti e poco inclini a vezzi inutili, gli unici con i quali potevo dire di non aver brutti ricordi... anzi... Ricordavo ancora come uno di loro, in un tempo ormai lontano, mi avesse anche difeso dal mio odioso marito. Certo quella dimensione era diversa, ma avevo percepito la stessa sensazione e questo mi diede speranza.
    Tornati sulla Terra non passarono molti giorni prima che sia Miss Croft che il Mandaloriano ci diedero loro notizie, motivo cui in quella calda estate toscana eravamo nel grande giardino della tenuta a sorseggiare limonata e discutere dei nostri piani.
    Io indossavo uno splendido bikini a vita alta in puro stile anni'50, terrestri. Slip nero a pois bianchi, sopra completamente rosso con volant e dello stesso colore gli occhiali da sole cat-eye. I capelli erano acconciati con una complessa acconciatura roll ed indosso non mancavo di avere anche un'elegante kimono con stampe orientali anch'esso rosso fuoco.
    Stesa sulla sdraio tenevo i mano il mio drink sorridendo a mio fratello che, uscendo dalla piscina e tirandosi indietro i capelli biondissimi bagnati, faceva sospirare molte delle ragazze del personale di servizio che si erano accampate alla finestra della cucina e che sparirono dopo che le notai.
    Henry ben più compito, se ne stava all'ombra seduto su uno dei divanetti con le gambe accavallate. Pantaloni di lino leggeri, come la camicia, occhiali da sole e lo sguardo ben attento alle parole del libro di medicina che stava leggendo. Era la sua specialità dopotutto, con ben due dottorati ed uno in neuroscienza, e nonostante le sue conoscenze fossero maggiori a quelle dei medici di quella dimensione era affascinato dal loro modo di vedere tale materia.
    "Povere piccole stolte, sognano davvero di avere anche una sola minima possibilità con te!" esclamai ridacchiando alla vista di mio fratello che prendeva posto nella sdraio accanto a me.
    “Sorella dovresti essere meno crudele..." mi rimbeccò lui senza nemmeno crederci, quando facendo tentennare i nostri bicchieri ridemmo di tanta pateticità.
    Henry non mancò di chiudere il sui libro e con classe poggiarlo sul tavolino basso da giardino di fronte a lui e prendere anch'esso il proprio bicchiere di limonata. Freddo ed impenetrabile fu lui ad introdurre il motivo di quella nostra piacevole riunione.
    “Abbiamo dovuto aspettare qualche mese, ma con il Monolite allineato al Solstizio e le Chiavi Templari nella nostre mani siamo pronti per entrare in azione..." mi trovai ad assentire nella direzione di Henry, le labbra rosse ancora sul vetro freddo del bicchiere.
    "Vero! Spero solo che tutto non cambierà troppo... amo questo posto e non sono davvero pronta a lasciarlo..."
    “Non lo faremo sorella... questo posto e Firenze saranno sempre la nostra casa... la nostra base... i Templari torneranno a casa e ben presto la Sala della Giustizia, sotto la villa e l'appartamento, avranno motivo di esistere... prenderanno vita"
    C'era così tanto orgoglio e fiducia nel suo sguardo che fu impossibile per me non provare le stesse sensazione mentre sorridendo apertamente guardai i due uomini vicino a me.
    "E' giunto il momento di dividerci ancora allora!" esclamai quasi triste, ma al contempo eccitata di come tutto ciò per cui avevamo lavorato stava prendendo vita.
    Jordan sorrise guardando la piscina di fronte a noi e si preparò a fare il punto della situazione, come il leader che per tutti noi era.
    “Domani partiremo per Malta, io raggiungerò il Maestro Kenway e lo indirizzerò verso le cripte... tutto ciò di cui abbiamo bisogno è al loro interno. Tutto ciò che oggi è ben custodito nelle Sale del Tesoro della Luna, domani sarà nelle nostre... Avremo tutta la tecnologia per prosperare, divenir forte, creazione sezioni Templari mai viste oltre ai cristalli kyber... gli unici luoghi che ne hanno tanti abbastanza per ciò che dobbiamo fare..."
    Senza esitazioni Henry aggiunse “Al tuo ritorno, se tutto è andato come doveva, ci troverai ad aspettarti in un mondo diverso..."
    "Uno nel quale avendo accesso alle cripte avremo accesso anche ai due Monoliti mancati..." dissi estasiata.
    “Li trasferiremo tutti e tre in un luogo sicuro e lì combinerete quello del tempo e dello spazio ed andrete sulla Luna..."
    "Io ed Henry ci occuperemo dell'Imperatrice... faremo in modo che lei dia il la alla creazione di un esercito Templare immenso. Grazie all'appoggio dell'Impero il nostro reclutamento si spingerà in ogni angolo della galassia... diffonderemo le nostre idee ed il nostro ordine..."
    “E quando raggiungeremo il culmine saremo pronti a svelarci... cacceremo indietro l'invasione da parte della nostra dimensione e ci imporremo come gli unici e veri salvatori!"
    A quel punto chiunque ci avrebbe rispettato e ci avrebbe visto come un esempio. Niente più barriere, segreti, pianeti proibiti e restrizioni. Un solo universo universo che avrebbe vissuto nell'ordine e nella perfezione della pace. Tutte le sofferenze mie e di Jordan avrebbero avuto un significato e l'orrore che avevamo vissuto si sarebbe trasformato in un monito che ci avrebbe reso disposti a tutto affinché non si verificasse mai più.
    A fronte di quella consapevolezza ci guardammo fieri, alzammo i calici (seppur di limonata XD), e brindammo al nostro successo!
     
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    Annarita
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    Boston, 1754
    Era strano notare come, al suo passaggio, un movimento generale pareva invadere la strada: come un’onda pigra, che viene da lontano e si abbatte dolce sulla battigia. Non sconvolgeva in maniera evidente, ma gettava il giusto scompiglio…
    Era alto, le spalle larghe fasciate da un giaccone adornato da bottoni dorati, il viso dai lineamenti squadrati e intensi. I suoi occhi – penetranti come lame affilate – fendevano lo spazio attorno a lui senza che un solo dettaglio potesse sfuggirgli. Non c’erano motivi per contrariarlo, ma semmai ci fossero stati, pochi avrebbero avuto il coraggio di farsi avanti. Intimoriva con la sua sola presenza, anche se erano molto rare le parole che uscivano dalla sua bocca, atteggiata spesso in una linea inflessibile.
    Haytham Kenway era il suo nome, un fedelissimo Templare, giunto dal Regno Unito per dare una sferzata alla costituzione dell’Ordine, sullo sfondo di una guerra sanguinaria e complessa. In poco tempo, infatti, si era guadagnato il grado di Gran Maestro e non aveva ancora smentito il suo carisma e le sue competenze.
    Ciò che si conosceva di lui, però, qui si fermava. Pareva non avere sentimenti, o se ne avesse riusciva a celarli talmente bene da renderli invisibili.
    In una gelida serata invernale, camminava a passo spedito verso il luogo che iniziava a considerare un rifugio. Era accogliente, la gente non lo importunava più di tanto – se non si considerava lo zelante Charles Lee, ma in quel momento si trovava in missione, quindi avrebbe potuto godere di un po’ di tranquillità –, il cibo era ottimo e il camino perennemente accesso un richiamo invitante: la Green Dragon Tavern.
    Sentiva di avere la necessità di staccarsi dai suoi doveri per qualche ora e non pensare a nulla. Ecco il suo personale modo per scaricare lo stress che il suo ruolo gli gravava sulle spalle.
    Tolse il cappello una volta entrato, fu scortato con rapidità al suo tavolo abituale – in un angolo riservato da cui riusciva a tenere sotto controllo l’ingresso – e ordinò un doppio whiskey: doveva rilassarsi, al diavolo le rimostranze conservatrici (Nda: all’epoca il whiskey era considerato un simbolo dei rivoluzionari!). Rimasto solo, iniziò a rilassare i muscoli della schiena, delle braccia, delle gambe; cercò di fare altrettanto con quelli del volto, ma non era tanto semplice. Aveva scoperto col tempo che la serietà faceva parte del suo essere, tanto quanto il sorriso ne era refrattario. Poco male, non aveva legami importanti con cui fingere di essere diverso.
    Il liquore fu servito alla temperatura giusta, né freddo, né caldo, ma non arrivò ad assaporarne l’aroma perché un dettaglio fuori contesto attrasse la sua attenzione. Si trattava di un uomo nella fattispecie. Era abbigliato come la maggior parte degli avventori del locale, beveva una birra scura seduto direttamente al bancone grande, pareva tutto impegnato in una conversazione amabile con una giovane donna. E allora per quale ragione lo aveva colpito? Il pensiero di essersi sbagliato non lo sfiorò neppure. C’era un motivo… e lo colse giusto qualche attimo dopo. Lo sconosciuto gli aveva riservato un’occhiata fuggevole. Haytham non era bravo ad attendere gli eventi, perciò decise di agire. Chiamò il cameriere e gli chiese di invitare il signore in questione ad avvicinarsi al suo tavolo per una breve parola, non mancando di offrirgli un secondo giro della stessa birra che stava sorseggiando con una calma invidiabile.
    Lo fissò senza più alcuna cautela, in attesa della sua reazione. Il ragazzo, ben istruito, fece quanto richiesto e Haytham fu sorpreso di vedere sul volto del tipo spuntare un sorriso enigmatico. Un sorriso che illuminò due iridi color del ghiaccio.
    Uno strano brivido percorse la sua schiena e gli raccomandò di stare allerta: il suo istinto non si smentiva mai, così mise una mano sull’elsa della spada. Un avvertimento puro e semplice.
    L’uomo dagli occhi blu si avvicinò con passo deciso, portando con sé la sua birra, con la chiara intenzione di fermarsi per molto più che “una breve parola”.
    “Buonasera, Mr. Kenway, sono lieto di potervi finalmente incontrare. Sono diverse sere che vengo qui, nella speranza di potervi parlare. Mi chiamo Jordan Mahkent e ho tante cose da dirvi…” Jordan tese una mano nella direzione del suo interlocutore, da questo momento sarebbe dipeso tutta la sua missione, ogni più piccolo dettaglio successivo. Dentro di sé tremò per un solo istante: Haytham Kenway avrebbe dovuto togliere la mano dalla spada per poter stringere la sua…
    “Avreste potuto avvicinarvi molto prima che mi accorgessi di voi, avremmo risparmiato di già un po’ di tempo.” I modi bruschi di Haytham non si smentirono neppure questa volta, ma una strana sensazione lo convinse a concedere a Mr. Mahkent una piccola tregua.
    Gli strinse la mano e gli fece cenno di accomodarsi. “Non vengo qui molto spesso, non tanto quanto vorrei. Quindi, se non vi dispiace arrivare subito al dunque… vorrei godermi la mia serata di riposo.” La voce di Haytham si dimostrò più seria del solito. Era chiaro che quell’interruzione non aveva giovato al suo umore, ma desiderava conoscere di più dello sconosciuto e capire cosa avesse di tanto urgente da comunicargli.
    Dal canto suo, Jordan non perse il suo sorriso enigmatico, che si aprì ancor di più, mostrando l’apprezzamento per i modi sbrigativi e pungenti del suo interlocutore. Come inizio, valutò, sarebbe potuto andare molto peggio.
    Una volta seduto, prese un lungo sorso della sua bevanda e si preparò a un lungo discorso.
    “Ciò che sto per dirvi potrà risultarvi strano, o addirittura folle. Tuttavia, confido nel vostro buon senso, ma soprattutto nel vostro istinto. So che non vi fermerete alle apparenze.” Un preambolo era necessario e non si sorprese quando ricevette in cambio un semplice cenno del capo. Haytham Kenway era decisamente di poche parole e il suo viso aveva la capacità di rimanere sfingeo a tempo indeterminato. Jordan sperò che lo restasse anche a discorso concluso. “Provengo da un futuro un bel po’ distante e sono venuto qui proprio per trovarvi. So che siete Gran Maestro del potente Ordine dei Templari… Ordine che, tra circa un secolo troverà la sua completa estinzione proprio nella vostra terra natìa.” Se la notizia aveva scosso Haytham, non lo aveva dato a vedere… Jordan immaginò che stessa dandogli una sorta di beneficio del dubbio: avrebbe valutato se dargli credito o meno solo alla fine del suo racconto. Perciò proseguì. “Non provengo solo da un tempo diverso, ma anche da una dimensione parallela a questa, una dimensione dove io stesso sono stato il fondatore dell’Ordine Templare. Il potere e la diffusione raggiunti stavano diventando impossibili da contrastare, tuttavia, il nostro sogno di portare ordine e pace è stato purtroppo interrotto: la dimensione dalla quale provengo sta morendo.” Presi un respiro profondo prima di continuare. “Perciò, ho deciso di venire nella vostra, capire se qui esistevano le basi per poter ricreare lo stesso sogno. Sono arrivato nell’anno 2019, ma ho scoperto che ormai vi eravate estinti. Ciò nonostante, il potenziale di questo posto mi ha talmente convinto da escogitare un piano per portare nuovamente in auge l’Ordine… nel mio presente… quando arriverà il momento.”
    Una mano di Haytham, aperta a ventaglio di fronte al viso di Jordan, bloccò il suo fiume di parole. Era arrivato il momento di capirci qualcosa e per farlo, doveva assolutamente trattare la faccenda come se fosse reale e di vitale importanza. Era questo il suo modus operandi nella vita.
    “Cerchiamo di capirci, Mr. Mahkent, poniamo il caso che ciò che mi state raccontando sia vero, facciamo finta che voi veniate davvero dal futuro e da un’altra dimensione, che l’Ordine si estinguerà sul serio e voi desiderate ricostruirlo… Io cosa dovrei c’entrare in tutta questa storia? Sono un uomo normale, morirò con ogni probabilità di morte violenta prima di raggiungere una veneranda età, non vedrò con i miei occhi la fine del mio Ordine… non riesco a capire come potrei tornare utile al vostro piano…” Sperava di essere stato sufficientemente chiaro, non amava tergiversare e già dandogli un beneficio del dubbio del tutto gratuito, viste le castronerie che gli stava rifilando, aveva sacrificato buona parte del suo agognato riposo. Mr. Mahkent mise una mano nel panciotto e Haytham scattò come un felino, afferrò il suo pugnale e lo puntò alla gola del suo interlocutore. Se voleva farlo fuori, avrebbe fatto meglio a sfidarlo in altro modo…
    Jordan non fu sorpreso della reazione del Templare, era stato incauto e non era da lui. Forse, la fregola e l’emozione di parlare con l’uomo che avrebbe permesso la realizzazione del suo piano gli avevano giocato un brutto scherzo. Con lentezza studiata, questa volta, tirò fuori dalla tasca interna della giacca un oggetto metallico che non assomigliava affatto a nessuna arma.
    Era una chiave. Antica, incisa con simboli e iscrizioni, ma si trattava di una semplice chiave…
    Haytham, una volta assicuratosi di ciò, rinfoderò il pugnale e ritornò seduto. I separé e la posizione del tavolo gli garantiva una privacy provvidenziale: nessuno degli avventori si era accorto di nulla. Temette di doversi pentire della sua decisione di riporre l’arma, quando quella che in apparenza sembrava una chiave antica iniziò a illuminarsi. Jordan l’aveva posta al centro del tavolino e non sembrò sorpreso di ciò che stava accadendo: un bagliore, dapprima fioco, iniziò a evidenziare alcuni simboli e poi una scritta che Haytham riuscì a leggere perché era in lingua inglese… o così credeva… “Hyperion’s Key” lesse nella sua mente. Il bagliore si fece via via più intenso, accendendo anche una nuova incisione, che lo lasciò del tutto a bocca aperta. Prima non c’era, ne era sicuro, si era formata con lettere perfettamente leggibile proprio sotto i suoi occhi: ”Haytham Kenway”. Non era stato Jordan a inciderla per i suoi scopi, non era un trucco da quattro soldi quello a cui aveva appena assistito… provava attrazione per l’oggetto, la luce gli infondeva una strana calma, gli ricordava qualcosa di famigliare… lui che una famiglia non l’aveva mai avuta.
    Senza pensarci, dimenticandosi persino della presenza di Jordan, la toccò con un dito, ne sfiorò i contorni e lasciò che si nutrisse della sua anima, si legasse a essa, riconoscendosi come appartenente a qualcosa che andava oltre la vita, la morte… la Terra. Com’era possibile? Lui era un pragmatico, credeva solo in ciò che poteva toccare…
    “La stai toccando, Haytham. Non c’è nessuna mistificazione.” Jordan parlò nel momento giusto, passando a un tono informale. Era riuscito a comprendere le emozioni del Templare che, finalmente, erano affiorate sul suo viso. Era bravo a interpretare quelle emozioni e seppe che metà della sua missione era stata portata a termine… “La chiave sceglie il suo proprietario, è stata lei a indicarmi il tuo nome, per questa ragione ho viaggiato per venire fin qui. E non mi sono sbagliato… ti ha riconosciuto e, a quanto pare, tu hai riconosciuto lei. È la chiave di un Titano molto importante. Come questa ce ne sono altre undici. Grazie ad esse riusciremo a ricostituire il nostro Ordine. Ci vorrà tempo, centinaia di anni, ma riporteremo l’Ordine agli antichi fasti. Col tempo, saprai cosa fare, non chiedermi di più!”
    Non gli avrebbe rivelato le circostanze della sua morte, né di quale sarebbe stato il suo ruolo, non era ancora il momento. Attese che Haytham ritrovasse la voce, sapeva bene che il ricongiungimento con una chiave era traumatizzante: ti rendeva nudo e forte allo stesso tempo. Ti raccontava la tua storia, ti riportava a casa, ti rendeva parte di un progetto. Henry, in uno dei suoi rarissimi momenti di pseudo loquacità, glene aveva parlato.
    Haytham era sconcertato, ma la certezza di essere sulla giusta via era talmente forte da sconvolgere ogni parte più intima di sé. Era un Templare, era stato scelto affinché l’Ordine ritrovasse un prestigio che avrebbe perso col tempo. Il “come” era misterioso, ma si ritrovò – per la prima volta nella sua intera esistenza – a non farsi altre domande.
    “Sono pronto…”
    Il tempo gli avrebbe dato torto o ragione.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 12/10/2020, 20:33
     
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    New York, 1781
    La rincorsa a Charles Lee era divenuta una vera e propria battuta di caccia. Osservando la linea ritta dell'orizzonte non potevo fare a meno di pensare a mio padre e di come un tempo, quando ero solo un bambino, mi aveva portato alla mia esperienza di caccia. Era ora che mostrassi che ero un uomo, che potevo farcela da solo eppure la mia innata irruenza mi avevano reso frettoloso e ben presto una posizione favorevole era divenuto il motivo per cui la preda era fuggita.
    Ricordavo ancora gli occhi di mia madre, severi ma giusti, che abbassandosi alla mia altezza mi guardavano quasi a trapassarmi. Non era una donna di molte parole, ma quella volta mi ricordò quanto la virtù della pazienza era importante. Quanto solo facendo affidamento ad essa avrei potuto circuire la mia preda e catturarla. All'epoca non comprendevo come si potesse "aspettare" senza far nulla, ma ora capivo che quel "non agire" era molto di più.
    Raccogliere informazioni, mettere insieme indizi, pianificare... ed era quello che avevo fatto in tutto quel tempo. Uno lungo ed immemore che finalmente mi aveva portato a New York.
    Quando sbarcai camminai come sempre silenzioso, assorto nei miei pensieri, con il cappuccio alzato. In attesa di vedere Chapeau, mi feci da parte. Appoggiato ad alcune casse, non permisi che il mio sguardo si incrociasse con quello di nessun altro, mentre le voci intorno a me si confondevano indistinte... questo almeno fintanto non udì delle voci femminili poco distanti da me.
    "Credi sia opportuno aspettare? Attendere l'inevitabile?"
    "Le voci arrivatemi non sbagliano, l'ancella da cui sono partite si è rivelata appartenente ad una ricca famiglia che da tempo frequenta questo mondo... ho verificato la sua credibilità. Ed è molto alta... fidati..."
    La giovane donna dai capelli castani scosse il capo guardandosi intorno e fu allora che per un attimo i nostri sguardi si incrociarono. Io attesi l'inevitabile gesto di distogliere l'attenzione, tipico delle donne che si trovavano a che fare con me, ma sorprendentemente lei mi sorrise. Uno flebile, prima di abbassare ancor più la voce e tornare a parlare con la sua interlocutrice.
    "Hai ragione perdonami... è che ancora non mi sono abituata a questo luogo..."
    "Non è da te! Sei tu la voce della ragione ricordi?"
    "S-Sì hai perfettamente ragione... Ti accompagnerò in questa m..."
    "Shhh... Sì perfetto, ma dopo io dovrò tornare a casa e tu dovrai rimanere qui a finire il resto..."
    "Da sola? Non mi tiro indietro di fronte alle responsabilità e lo sai, ma questo posto..."
    "Bentornato Connor!" la voce di Stephane Chapeau mi distrasse da quel piacevole passatempo. Ero così abituato ad essere un'ombra per il mondo che ascoltare il chiacchiericcio altrui era divenuta un'abitudine, più per lavoro che per diletto. Tuttavia la voce melodiosa di quella giovane e i suoi timori mi avevano fatto nascere un sorriso spontaneo sul volto. Era raro vedere due donne da sole e chissà che cosa tanto normale per loro era eccezionale, in parte come nativo conoscevo la sensazione.
    "E' tutto a posto?" esordì senza troppi giri di parole vedendolo annuire più che soddisfatto.
    "Oui! La Fayette vi aspetta nel tunnel sotto la città!"
    Immediatamente lo seguì contento di entrare in azione senza troppi giri di parole, ma prima di allontanarmi vi voltai un ultimo momento e facendolo notai la donna fissarmi a sua volta. Anche lei si stava allontanando. Senza capire il perchè ed il per come ci sorridemmo e poi ognuno continuò per la sua strada.

    All'interno delle gallerie mi stavo dirigendo, a passo sicuro, verso il punto dove mi aspettavano Gilbert du Motier ed il Marchese de Lafayette. Accanto a me Stephane Chapeau che mostrò la nostra presenza esprimendo un pensiero critico sugli eventi che stavano affrontando.
    "A volte temo... che quei patrioti, che parlano tanto di libertà e uguaglianza, torneranno ai vecchi costumi!"
    "Dipenderà soprattutto da chi vorranno come capo. Un uomo di umili origini, che ha lavorato duramente... Credo sia la scelta giusta per evitare conflitti di potere" esclamò La Fayette con il suo solito stile eccentrico e l'accento fortemente francese.
    "Tutti aspirano al potere, è la natura umana... Oh Connor eccovi! Questo tunnel vi condurrà nel distretto militare!" esordì il Marchese poggiandomi una mano sulla spalla, che immediatamente squadrai poco convinto, e mentre quello la toglieva quasi come scottato mi indicò il buio di fronte a noi.
    "E l'ammiraglio?"
    "Attende che diate il segnale, e poi l'attacco avrà inizio!"
    Un veloce assenso al gruppetto di tre uomini e già mi stavo addentrando nel tunnel. Il buio mi era familiare, mi sentivo a mio agio nel silenzio profondo dell'oscurità lì dove chi non sapeva cosa trovarci provava paura ed io invece trovavo me stesso.
    Sbucato, poco dopo, nel distretto militare attraverso un pezzo, uccisi immediatamente silenziosamente la guardai di ronda che adagia gentilmente a terra nascondendolo tra l'erba alta.
    Poco dopo, senza farmi notare, attraversai il distretto e raggiunsi la torre di segnalazione, a cui detti fuoco per far partire l'attacco della flotta francese. Mentre le prime palle di cannone iniziarono a distruggere gli edifici circostanti, io eseguì un Salto della Fede ed una volta arrivato a terra non feci in tempo a mettermi in piedi che subito venni spazzato via lontano da un'onda d'urto creata da una palla di cannone.
    Ferito e frastornato cercai comunque di infiltrarmi nel forte, ma un fischio prepotente nelle orecchie e la vista appannata non mi aiutavano a rimanere lucido e soprattutto scattante.
    Tossendo ed appoggiandomi qui e là dove capitava camminavo a fatica facendomi strada tra gli edifici quando una nuova onda d'urto mi sbalzò a terra.
    La forza mi stava abbandonando, ma non la volontà che mi portò a rialzarmi ed avanzare, mentre intorno a me c'erano solo urla, fiamme e corpi.
    "D-Dove sei? C-Charles?" tossicchiai, quando vedendo un'ombra di fronte a me mi sforzai di metterla a fuoco.
    "Sparito!"
    La voce era piatta. Calma. E avrei detto perfino ci fosse una nota ironica. L'avrei riconosciuta tra mille: era mio padre.
    Nemmeno il tempo di rendermene conto che già lui mi aveva colpito scaraventandomi a terra, ma io ero un Assassino. Velocemente mi alzai e correndo piegato lo caricai sul fianco gettandolo a terra.
    "Andiamo, con me non hai speranze, Connor. Sei anche bravo, ma sei un ragazzo. Hai ancora molto da imparare" mi beffeggiò come al suo solito.
    Avevamo avuto poco a che fare, ma tutte le volte provava piacere a sottolineare quanto io fossi inetto. Quanto io non fossi minimamente alla sua altezza.
    Lui approfittò del mio intontimento e si liberò, ma non prima che con la lama celata io riuscì a ferirlo all'avambraccio che lui guardò quasi infastidito. Più ferito nell'onore che nel corpo.
    "Voglio Lee!" urlai con una ferocia ed un'ira che ormai conviveva in me. Tutti quei silenzi, tutta quella malinconia, era solo una facciata del dolore che dentro mi dilaniava.
    "Impossibile. Lui ci guiderà in un futuro migliore. Al gregge serva un pastore"
    "È stato allontanato e ignorato. Non può fare più niente per te"
    "Un intoppo temporaneo. Verrà richiamato!"
    Fu allora che lui spazientito sguainò la sua spada, nello stesso momento in cui io feci lo stesso come il tomahawk. Quanto faceva male dover combattere contro il proprio padre? A far scorrere il nostro sangue, lo stesso sangue?
    Lui aveva amato mia madre o almeno questo era quello che mi aveva detto, allora come poteva voler morto il frutto del loro amore? Come poteva distruggere tutto ciò per cui io combattevo?
    Ero cresciuto con la credenza che i genitori vivono ed agiscono con un solo scopo. Un solo volere. Rendere il mondo un posto migliore per i propri figli. Guidarli in essi ed essere fieri della loro forza e volontà di cambiarlo.
    Ma in quello scontro violentò e brutale, non c'era niente di tutto ciò e se non fosse stato per lo sporco ed il sangue incrostato sul mio volto probabilmente si sarebbe accorto delle lacrime che lo rigavano.
    "Pensi forse di avere il diritto di giudicare? Di dire che io e gli altri siamo il male? Eppure ciò che ti ho mostrato, tutto ciò che ho detto e fatto, dovrebbero dimostrare il contrario. Non abbiamo ucciso la tua gente. Non abbiamo sostenuto la Corona. Vogliamo che questa terra sia unita e in pace. Sotto di noi tutti saranno uguali. Promettono lo stesso i Patrioti?"
    "Promettono la libertà!"
    "Che come ti ho detto, più e più volte, è pericolosa! Non ci sarà mai un accordo, figliolo, fra coloro che hai aiutato a vincere! Ognuno avrà un'idea diversa di cosa significhi essere liberi. La pace che tu brami così tanto non esiste!"
    "No. Insieme daranno vita a un mondo nuovo. Migliore del precedente!"
    "Ora questi uomini sono uniti dalla causa comune. Ma quando la lotta sarà finita combatteranno gli uni contro gli altri per conquistare il potere. E questo porterà alla guerra. Lo vedrai da te!"
    "I Patrioti non mirano al controllo. Non ci sarà un re qui. La gente avrà il potere, com'è giusto!"
    "La gente non ha mai avuto il potere. Solo l'illusione di averlo. E sai qual è il segreto? Non lo vogliono! La responsabilità è troppo pesante. Per questo sono così pronti a chinare il capo se qualcuno prende il comando. È che vogliono obbedire agli ordini. Non aspirano ad altro. Non stupisce, sai, dato che l'uomo è nato per servire!"
    "Quindi dato che per natura siamo inclini ad obbedire, chi meglio dei Templari? Che idea banale!"
    "È la verità! Teoria e pratica sono due cose ben diverse!"
    "No, padre... Ti sei arreso e vorresti che facessi lo stesso!"
    A quella frase avevo abbassato la guardia quanto era lo sconforto e la delusione e se non fosse stato per una palla di cannone che ci scaraventò lontano, probabilmente Haytham avrebbe colto la palla al balzo per ferirmi a morte e dopo sgridarmi al suo solito per come avevo abbassato la guardia.
    Ormai ero svuotato, nel cuore e nell'anima, come nel corpo. Non avevo più forze eppure strisciai come un verme nel fango verso il corpo di mio padre, di cui presi il bavero e lo scossi, tremando per il freddo e la disperazione.
    "Arrenditi e ti risparmierò!"
    "Parole ardite da uno che sta per morire!"
    "A te non va meglio!" esclamai facendo scivolare le mani dal bavero al suo collo.
    "Anche quando sembrate trionfare... Noi risorgiamo sempre. E sai perché? Perché l'Ordine è il frutto della consapevolezza. Non ci serve un credo. Né l'indottrinamento da parte di vecchi dementi. Ci basta che il mondo sia così com'è. Per questo i Templari non saranno mai distrutti!"
    Haytham faceva sempre più fatica a respirare e mentre io allentavo la presa, ed un sorriso si dipinse sul suo viso, colsi la palla al balzo e facendo ciò che mi aveva insegnato, feci scattare la lama celata, uccidendolo.
    Caddi a terra seduto e mentre lo vedevo stringersi la gola con le mani, sperai per un vano attimo che le ultime parole che mi avrebbe rivolto non mi avrebbero avvelenato l'anima come invece accadde. Una ferita mai sanata e che mi sarei portato dietro a vita.
    "Non credere che abbia intenzione di farti una carezza ed implorare perdono. Non piangerò e non mi perderò in rimpianti. Tu mi capirai. Eppure, sono orgoglioso di te. Hai mostrato grande decisione. Forza. Coraggio. Sono virtù nobili. Dovevo ucciderti tempo fa"
    Alla sua ultima frase serrai la mascella così forte che mi fece male, ma non volevo dargli la soddisfazione di mostrargli quanto ferito fossi. Quante lacrime avevo dentro pronte ad inondarmi il cuore e solo quando il suo capo cadde privo di vita decisi di avvicinarmi e lasciarle uscire. La mano sui suoi occhi pronto a chiudergli, come avrei fatto con quel capitolo della mia vita una volta per tutte.
    "Addio, padre"
     
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    L'eccitazione di uscire da Palazzo, una volta ogni tanto, mi riempiva di gioia e spensieratezza. Quell'entusiasmo di quando ero molto più giovane, impreparata e irresponsabile. Poi la vita aveva lasciato il segno sulla mia anima senza però riuscire a togliermi del tutto l'amore per l'avventura e per l'azione.
    Come Imperatrice, dovevo adempiere a una montagna di compiti noiosi e gravosi, con responsabilità immense ma che non avevano nulla di eccitante.
    Ecco perché, nonostante si trattasse di una missione riguardante questioni che avevo molto a cuore, una missione sul cui successo stavo puntando molto della mia autorità, volevo affrontarla a cuor leggero, con la curiosità di fare nuove esperienze e visitare quel pianeta che solo in circostanze eccezionali veniva visitato da qualsiasi rappresentante dell'Impero.
    Con me avevo voluto la Guerriera di Mercurio, fidandomi del suo giudizio e della sua preparazione. Di lei mi potevo fidare, la sua razionalità e freddezza sarebbero state molto utili per portare a termine un compito delicato e laborioso, composto da lunghe ricerche da effettuare sotto copertura, per trovare l'ubicazione, ormai dimenticata, delle Cripte create e usate dai Titani per i loro scopi proibiti.
    Mio padre, l'Imperatore Hyperion, le aveva cercate a lungo senza nessun risultato, e io avevo deciso che avrei completato il suo lavoro.
    Lunghi anni erano trascorsi senza che trovassi un solo indizio, una sola prova che non solo permettesse di individuare anche solo una delle cripte, ma che confermasse in qualche modo la loro esistenza, il loro resistere nei secoli. Non mi ero mai arresa. Volevo trovarle tutte e sigillarle, per non far cadere in mani non degne la conoscenza e la tecnologia che contenevano, così come avevamo fatto per le strutture che secoli prima, in vari modi e per diverse ragioni, quasi tutti i pianeti che componevano l'Impero Galattico avevano mano a mano realizzato.
    La nostra presenza aveva rischiato di essere notata, era diventata quasi indiscreta. E per questo mio padre aveva stretto i controlli e inasprito le punizioni per chi si fosse spinto nuovamente sul pianeta proibito. Gli avamposti erano stati abbandonati, ma delle Cripte non si era trovato traccia, troppo lontano e misterioso il loro scopo, troppo pericoloso il potere che custodivano.
    Nel ristretto ambito degli abitanti della Luna, composti per la maggior parte dalla famiglia imperiale e da altre famiglie nobili strettamente collegate a quella, ne esisteva una che era nota per le simpatie e i contatti che ancora mantenevano con il Pianeta Proibito, con alcuni personaggi chiave nella società terrestre. Una di loro, una bella ragazza dai capelli rossi e dallo sguardo sottile, aveva affermato di conoscere un individuo che era venuto in possesso di una delle chiavi dei Titani.
    Questa voce aveva immediatamente attirato la mia attenzione. La avevo convocata per un colloquio strettamente privato e confidenziale, e lei, pur non confermandomi apertamente quella diceria, mi aveva dato sufficienti indizi per riuscire a rintracciare questa persona.
    Avevo approntato la missione senza farne parola con nessuno, se non con il mio sposo Endymion.
    Sentivo che si trattava di una corsa contro il tempo. Non avevo che una premonizione a guidarmi, ma il mio potere era sufficientemente attendibile e limpido per spingermi ad agire, senza attendere condizioni migliori. Athena, in questo senso, era stata la scelta più opportuna. La sua razionalità e la determinazione la rendevano preziosa sopra ogni altra considerazione potessi avere per le altre guerriere.
    Ma come trovare, in quella landa semi selvaggia, una persona di cui conoscevo il nome e poco di più? Ricordavo di aver visto degli edifici simili a quelli davanti ai quali stavamo camminando. Di aver udito un forte boato, isolato, che aveva preoccupato minimamente gli abitanti della cittadina, abituati alla guerra che ancora agitava quelle terre. Di aver notato un uomo, con abiti di pelle e piume, passare di corsa, sporco di sangue.
    Il cuore cominciò a battere più forte. Il mio ricordo era molto più preciso di quanto avevo osato sperare. Mi diressi nella zona dalla quale il selvaggio stava scappando. I miei passi diventarono più decisi e sicuri man mano che avanzavo, con la mia compagna dietro a controllare la situazione e vagliare eventuali minacce. Anche se presa dall'eccitazione preferivo dimenticarlo, ero pur sempre l'Imperatrice, e la Guerriera doveva badare anche alla mia sicurezza.
    In mezzo ad un campo incolto, notammo subito un corpo riverso a terra. Il suo sangue scuriva la terra smossa da una lotta terrificante.
    Cominciai a correre, agitata, perché riconobbi gli abiti che quella persona indossava. Erano gli abiti del Gran Maestro Kenway, colui che possedeva una chiave e la conoscenza necessaria per rintracciare le altre.
    Io e Athena ci accucciammo vicino a lui, e la mia compagna strinse le labbra contrariata, nel constatare che la vita aveva abbandonato l'uomo su cui si basavano tutte le mie speranze.
    “Selene, non possiamo più fare niente per questo individuo...”
    Scossi la testa, caparbia.
    “Non mi arrenderò ad un passo dalla realizzazione di un sogno che ho inseguito a lungo. C'è ancora una possibilità e tu lo sai. Se lo porterò il prima possibile a Palazzo, potrei effettuare su di lui l'antico rito del pozzo...”
    “Ma la persona che riporterai in vita non possiederà più le conoscenze che andiamo cercando! Sarebbe un gesto inutile”
    Sempre pragmatica e impietosa, Athena. Se fosse stata un'altra circostanza, avrei accettato la sua logica ineccepibile, ma questa volta non ero ancora pronta a rinunciare.
    “Aiutami a portarlo alla navicella. Costui possiede una delle chiavi, e questo è una circostanza che forse ci aiuterà... aiutami, e poi, come siamo d'accordo, continua la ricerca di indizi, e tienimi aggiornata sulle tue scoperte”
     
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    Firenze, 2020
    La Sala della Giustizia, così avevamo deciso di chiamarla, era la perfetta rappresentanza di ciò che stavamo costruendo. Ne esistevano tre, tutte sotterranee e segrete. Una era nella villa in campagna, un'altra all'appartamento di Firenze e l'ultima sulla Luna lì dove Haytham l'aveva costruita con gran riserbo seguendo le indicazioni di Jordan. Tutte erano uguali. Scavate nella roccia avevano al centro un grande tavolo tondo ove, sullo stesso, vi era intagliato il simbolo Templare per eccellenza: un compasso.
    Al muro vi era un quadro che, attraverso una tecnologia acquistata grazie al "nostro amico mercante gioviano", cambiava in base ai membri che al Circolo Silente avrebbero aderito. Io e Jordan ne avevamo uno simile in casa, nostro padre lo aveva commissionato affinché rappresentasse la nostra famiglia. Il quadro cambiava se anche noi lo facevamo. Ci seguiva nel proseguo della vita e se un membro moriva, automaticamente spariva dal quadro. Ecco dunque che lo volevamo per rappresentare i membri di quel gruppo esclusivo. Attualmente io e Jordan eravamo rappresentanti, fieri ed eleganti, in primo piano. Poco dietro di me Henry ed in egual misura dal lato opposto Haytham dietro Jordan.
    Al centro della stanza, un grande ed elegante lampadario che illuminava in modo regale le pareti su cui si rifletteva un chiarore delicato e caldo. Tutte le sale erano identiche e l'unico modo per accedervi era attraverso il riconoscimento del DNA mio e di Jordan, oltre che di Henry o possedere una chiave templare.
    Per sicurezza, dopo aver recuperato a fatica i Monoliti, avevamo deciso di nascondere gli stessi uno per luogo. Quello del tempo a Firenze, quello dello spazio sulla Luna ed il più pericoloso e misterioso, quello della creazione, nella villa in campagna.

    Capire come utilizzare le chiavi e lasciare che esse ci guidassero verso coloro che avremmo dovuto scegliere non era facile e così avevamo deciso che i Monoliti lo avrebbero fatto per noi. Fu così che nel caso della Chiave di Crio fu quello della Creazione ad attivarsi. Questo tuttavia non accadde prima del sorgere della Costellazione dell'Ariete da Sud. Quando le stelle furono allineate un forte fascio di luce si manifestò e mentre io ero convinta mi avrebbe richiamato per attraversarlo, questo invece "sputò fuori" una figura.
    Un uomo era inginocchiato a terra, aveva il fiatone le ali metalliche erano ripiegate sul corpo a proteggerlo, mentre il capo coperto da un casco celava la sua identità.
    Trovandolo di fronte mi destabilizzò, mentre curiosa ero ancora immobile nella mia posizione eretta a fissarlo. Le intarsiature sul casco non mi erano nuove e la chiave prese a formare alcune parole di fronte ai miei occhi: 1012 - ???
    Sapevo che di solito il primo numero riguardasse l'anno di riferimento, ma dubitavo di aver di fronte qualcuno che riguardasse quel determinato anno terrestre. Probabilmente a ciò era riferito, ma lui doveva venire "dalle stelle". La seconda apparizione di solito definiva il nome di chi era il prescelto, ma rimasi perplessa nel notare che la chiave non volesse dirmelo. Serrai la mascella e poi ecco una nuova parola formare "Megamede". Così avrei dovuto chiamarlo?
    Tornai allo sconosciuto di fronte a me, che dopo lo sconcerto ed il fiatone iniziale solo ora iniziò a rendersi conto di dove fosse. Molto lontano da casa o da qualsiasi altro luogo ove prima fosse.
    “Chi diavolo siete?" mi chiese balzando in piedi e facendo un passo all'indietro puntandomi addosso la sua strana arma. Un possente fucile, o quel che sembrava, con in cima una baionetta particolare: la lama di un'ascia.
    Sorrisi ricordando dove avessi già visto un'arma tanto peculiare, la sua mole poi... fu la conferma che cercavo. Parevo così piccola di fronte a lui eppure mi sentivo calma, non provavo paura. Ero lieta che tra molti, proprio lui fosse stato il prescelto.
    "Calma i bollenti spiriti, Megamede, voglio solo parlare..." dissi con voce calda ed avvolgente, poggiando un dito sulla canna dell'arma ed abbassandola con una lentezza quasi sensuale.
    Sapevo che i Mandaloriani rinunciavano al loro nome, che esso fosse segreto quanto la loro identità, ma sapevo anche che spesso ne sceglievano uno simbolico per "crearsi un'identità" ed anch'essa era difficile conoscerla.
    Come diavolo fai a conoscere il mio alias?"
    "Oh io so molto altro... parliamo ti va?" gli chiesi indicandogli con una mano l'elegante tavolo tondo alle mie spalle. Solo allora sembrò rendersi davvero conto di dove si trovasse.
     
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    :Khufu:
    Urlo.
    Urlo per il dolore.
    Urlo per la frustrazione.
    Cerco di ribellarmi, ma le catene scavano nella carne. Tiro lo stesso, procurandomi ferite profonde ai polsi. Le ginocchia graffiano il terreno sconnesso e ricoperto dal mio stesso sangue. Sangue che scorre da tanti altri squarci sparsi un po’ ovunque sul mio corpo.
    Urlo.
    Urlo sempre più forte.
    La mia speranza è quella di terrorizzare i miei aguzzini, ma so che non mi lasceranno andare. Hanno un compito preciso, nefasto, maledetto. Ecco cosa vorrei fare davvero, maledirli fino alla fine dei loro giorni, popolare i loro peggiori incubi, tanto quanto loro – so già – popoleranno i miei.
    Urlo.
    Urlo fino a non percepire più le corde vocali.
    Questa volta non ho altro scopo se non esprimere tutto lo strazio che la mia carne sta provando.
    Trasformarmi in umano era una mia consuetudine, ma non avrei mai voluto esserlo per sempre. Non è quello che sono. Io sono un figlio di Koronis. Un falco agile e fiero. Un guerriero nato da una terra di guerrieri… anzi no, guerriere. Ecco il punto, ecco la mia miserabile colpa.
    Sono un maschio e non una femmina.
    Non posso essere un guerriero, perché le leggi del mio pianeta lo vietano.
    Come fa un combattente nato a rinnegare ciò che è? Io non l’ho fatto. Mai. Ed ecco la mia punizione.
    Le pesanti catene mi impediscono di muovermi, mentre due boia stanno per rendere esecutiva la mia pena.
    Percepisco il primo fendente e il sangue scorrere come un fiume in piena lungo il fianco destro. Al secondo fendente il dolore diventa talmente forte che rischio di perdere i sensi, ma non accade. Al terzo, un conato di vomito sale su in gola, ma ancora una volta non svengo… Sembra che il mio corpo si stia rifiutando di darmi pace.
    A un tratto mi sento più leggero, ma solo perché una parte importante di me mi è stata portata via. Tuttavia, solo quando la stessa sorte investe anche il lato sinistro della mia schiena capisco che non sarò più come prima. Quella parte importante mi è sottratta, con una brutalità tale da far tremare il più raccapricciante dei torturatori.
    E tremo anche io, in un movimento convulso, come se le mie cellule stessero facendo di tutto per accettare l’accaduto, ma soprattutto per compensare quella perdita fondamentale.
    Io so che non accadrà mai, so che non riavrò più le mie ali, mentre le guardo giacere ai lati del mio corpo. Le sfioro con lo sguardo, nere come la notte più profonda, un tempo fiere compagne, simbolo della mia appartenenza a un popolo che mi ha ripudiato, esiliato, distrutto fuori ma non certo dentro.
    Non mi lascerò sopraffare ancora.
    Non mi lascerò torturare ancora.
    Sarò per sempre padrone del mio destino.
    E avrò la mia vendetta, prima o poi.
    […]
    Erano trascorsi diversi anni, ma non credevo che la possibilità di sedare la mia sete di vendetta – che ancora bruciava intensa dentro il mio petto – si sarebbe presentata sotto forma di splendida donna dai capelli rosso fuoco.
    La osservai attento, seduto a un tavolo lucido di pregiata fattura. La mia fedele arma era appoggiata al bordo dello stesso tavolo, pronta per essere impugnata. Mi guardai attorno con la mia solita diffidenza, incapace di rilassare neanche un solo muscolo. Eppure, il senso di minaccia percepito quando ero stato risucchiato in un vortice di etere abbacinante era ormai scomparso. Sapevo di essere in un luogo molto lontano da casa mia, dal pianeta che avevo adibito a mio rifugio, ma conoscevo anche il posto in cui ero arrivato. La Terra. La natura rigogliosa che scorgevo al di là delle imposte aperte me ne dava la conferma. Il punto era: come diavolo ero arrivato qui? Ma soprattutto, cosa diavolo voleva da me una donna tanto elegante e tanto diversa dalle “fanciulle” che ero solito frequentare? Era giunto il momento di dare una risposta a tutte queste domande.
    “Visto che sembri conoscere molto bene la mia identità, potrei avere lo stesso onore?” Non mi preoccupai di eventuali convenevoli o forme di cortesia. Ritenevo che il nostro rocambolesco incontro ci avesse permesso di saltare tutta la prima fase.
    “Certamente. Sono Claudia Auditore e sei arrivato qui perché questa ti ha richiamato!” La sua voce appariva molto simile ai petali di una rosa nera lasciati cadere su un prato viola sfavillante. L’immagine nella mia testa si era formata senza che me ne accorgessi e in qualche modo mi mise i brividi. La vista di una Chiave Titana, però, quasi mi fece cadere dalla sedia. Claudia la teneva stretta tra le dita, a distanza di sicurezza da me e per la prima volta maledissi il mio casco: senza, forse, avrei potuto scorgere più dettagli. Oppure era solo la sensazione improvvisa di claustrofobia che mi generava a rendermi tanto sensibile? Nulla di tutto ciò aveva senso. Doveva essere la vicinanza a un manufatto tanto sacro e potente che mi causava questi scompensi.
    “Perché una Chiave Titana avrebbe dovuto richiamare me? E come fai a esserne in possesso? Secondo la leggenda sarebbero disperse sulla Ter… qui!”
    “Paradossalmente, sei stato tu, di un altro tempo, a recuperarla. E non solo una. Ma in tutta onestà, non credevo ti avrei rivisto, né che questa chiave avrebbe richiamato proprio te. Sembra quasi un segno del destino, non trovi?”
    “Io non credo nel destino.” affermai deciso.
    “Così come non credi nella fortuna, immagino!” Il suo sorriso mi parve familiare, un senso di fastidioso dejà-vu mi colpì, ma non avevo tempo per analizzarlo.
    “Voglio sapere che cosa vuoi da me!” La mia voce era perentoria, mi ero stufato di aspettare e girare in tondo al nocciolo della questione.
    “Dovresti chiederti che cosa la Chiave voglia da te! Io ho bisogno di persone con abilità particolari, per realizzare un progetto che va oltre ogni possibile immaginazione: una società giusta, che non contempli diseguaglianze e discriminazioni; una società senza ricchi e poveri, senza soprusi e abusi dei potenti nei confronti dei più deboli. E se la Chiave ti ha portato qui, con ogni evidenza, se una delle persone che faranno parte di questo grande progetto!” Il fervore animava quella voce da angelo, avrebbe di certo convinto masse infinite di bisognosi a seguirla. Ma io non ero un bisognoso, io avevo trovato la mia quadra, la sorte di tutti gli altri non era poi così importante per me, soprattutto se avrebbe dovuto realizzarsi in un pianeta tanto distante. O almeno era questo che mi ripetevo… gli ideali di giustizia non erano ancora del tutto morti dentro di me.
    “Cosa ti fa pensare che io accetterò di farne parte? Ho la mia vita, i miei scopi, le mie mire. Non sono un benefattore!” dissi con tono freddo, prendendo le distanze da quella utopia. Claudia, però, parve non fare una piega.
    “Sai che ci sono dodici chiavi. Ma sai che tra queste c’è anche quella di Crio? Ti dice nulla?” I suoi occhi mi sfidavano a rispondere. Sapeva già di aver colpito al centro del bersaglio. Sapeva già che non avrebbe dovuto pronunciare una sola parola in più.
    “È proprio quella che mi ha richiamato? La chiave di Crio ha voluto… proprio me?” Non avrei voluto mostrare tanto interesse, ma un’emozione forte e incontrollabile aveva attanagliato il mio stomaco e le mie viscere.
    “Proprio così, Megamede. Tu sei il prescelto della Chiave creata dal titano di Marte. A me sembra una bella coincidenza. O comunque, un ottimo incentivo.”
    Aveva dannatamente ragione, perciò non risposi.
    “Quando il legame con la chiave sarà suggellato, avrai un compito molto importante da portare avanti. Dovrai portare altre chiavi a un nostro potente alleato, lui avrà il compito di trovare altri come te. Diventeremo un Consiglio potente, che piano piano, con una buona dose di pazienza e strategia, arriverà a realizzare la società utopica, dando a questo termine un nuovo significato.”
    Le sue parole risuonarono convinte, ma alle mie orecchie arrivarono ovattate. Fissavo la Chiave stretta tra le sue dita, ne ero come ipnotizzato. La guardai mentre la posava sul tavolo e la faceva scivolare verso di me. Un leggero bagliore si accese e divenne sempre più forte man mano che si avvicinava alla mia mano, adagiata sulla superficie lucida.
    Ciò nonostante, fu solo quando la presi in mano che tutto cambiò.
     
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    Annarita
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    Luna, 1791
    Mi trovavo nel mio nuovo ufficio. Certo, tanto nuovo non era visto che lo utilizzavo da più di dieci anni terrestri. Era assurdo, ma continuavo a percepirlo estraneo, invece di sentirmi a mio agio, avevo sempre la sensazione che al mattino mi accogliesse un luogo ostile. Fissavo il lusso che mi circondava con apprensione: il cristallo lucente aveva la capacità di causarmi la claustrofobia, mentre le rifiniture in oro bianco parevano schiaffeggiarmi con la loro delicata opulenza. Non era mai stato abituato agli eccessi della nobiltà, benché non mi fosse mancato modo di frequentare determinati ambienti. E no, non li avevo apprezzati. Adoravo la rudezza delle armi, la soddisfazione della battaglia, la fatica della lotta. Adesso avevo perfino una sorta di governante che mi seguiva ovunque, o almeno credevo fosse una donna: il suo profumo di gelsomino permeava sia l’ufficio che il mio appartamento privato. Trovavo abiti puliti laddove ne lasciavo di sporchi; asciugamani profumati ogni giorno diversi; neppure un granello di polvere aleggiava negli ambienti. Nonostante ciò, non l’avevo mai incrociata, neanche per errore. Le soluzioni erano due: o era una persona dalla discrezione proverbiale, oppure era un fantasma.
    Scossi il capo, era pazzesco soffermarsi su certi dettagli. Le incombenze erano tante, il tempo sorprendentemente poco, anche se scorreva in maniera tanto diversa rispetto alla Terra, ma non ero in grado di spiegare il “come”. Era così e basta.
    La Luna… era diventata la mia nuova casa; Selene e suo marito erano i regnanti a cui avevo giurato fedeltà; tuttavia, i Templari restavano la mia Causa. Mi ci ero votato fin da quando avevo iniziato a capire qualcosa della vita e continuava a essere così anche dopo la mia “morte”.
    La mia morte. I ricordi erano sfocati, non ero certo se a causa del salvataggio in extremis da parte dell’Imperatrice oppure perché avevo sentito la necessità di rimuoverli. Non era facile accettare di essere stati uccisi dal proprio figlio, ma sapevo di non avergli dato alcuna scelta. Se avesse esitato, il cadavere sarebbe stato lui. Ma non lo avevo fatto e, al mio risveglio – dopo un relativamente breve periodo di convalescenza – me ne ero addirittura rallegrato. Connor era vivo… Haytham Kenway non più.
    Da quando ero tornato alla vita avevo cancellato ogni parte del mio passato, se fosse esistita una pozione magica per obliare ogni dettaglio, ogni volto, ogni azione, l’avrei usata subito. Mi ero ritrovato a pensarci senza rammarico, mentre ero seduto su una panca intagliata ad arte di uno dei giardini reali. Erano trascorsi pochissimi giorni dal mio risveglio e la memoria era tornata intatta, ma anche pesante come un fardello impietoso… da qui la mia decisione. Cancellare la Terra e rinascere qui, sulla Luna, fino a quando il Pianeta Blu non avrebbe rivisto il mio… il nostro ritorno.
    Sì, perché la mia “morte apparente” non era stato un caso fortuito del destino. Un burattinaio potente muoveva le fila e – per la prima volta nella mia intera esistenza – mi ero assoggettato a quel potere di mia spontanea volontà. Una chiave mi aveva scelto e la sua energia si era fusa alla mia. Un rifiuto mi era parso quanto meno dissacrante…
    Ecco che divagavo ancora. Mi massaggiai le tempie per scacciare il nervosismo e il senso di claustrofobia, poi dedicai la mia intera attenzione ai fascicoli che avevo di fronte. Potevo permettermi di tenerli lì perché avevo fatto del mio segreto più recondito una missione ufficiale. Era stato abbastanza semplice convincere gli Imperatori a lasciarmi reclutare i migliori Templari di tutti i tempi per creare una forza militare diversificata e dalla potenza indiscussa. Il mio futuro e quello di tutti loro era legato a un progetto ambizioso, unico nel suo genere… ero fiero di farne parte. La Causa. Non sarebbe stata vanificata.
    Presi la prima cartellina e lessi il nome e la data fissata per il reclutamento.
    1791 - François-Thomas Germain. Un tempo argentiere del re di Francia, non aveva fatto carriera tra i Templari francesi, ma si era distinto per la sua lealtà verso l’Ordine, portando a termine missioni molto importanti. Sarebbe morto proprio in quell’anno e avrei dovuto operare una terrigenesi in punto di trapasso. Solitamente era la tecnica prediletta, soprattutto in mancanza di chiavi, ma in questo caso la Chiave a lui destinata – la Iapetus Key – era potente e reclamava con forza il suo possessore. Avrei dovuto imporre un destino senza donare alcuna scelta, anche la Chiave non dava comunque scelta. In punto di morte o in vita, l’epilogo sarebbe stato il medesimo per tutti.
    Posai il fascicolo di Germain e mi dedicai al secondo in lista. Il cognome mi aveva subito incuriosito risultandomi familiare, ma solo quando lessi – e ricordai – il nome, un vago sorriso affiorò alle mie labbra poco avvezze a quel gesto. Tuttavia, non ero riuscito a bloccare un ricordo spuntato all’improvviso come un fulmine all’orizzonte.
    1795 - Selina Birch. Nipote di Regiland Birch: l’uomo che mi aveva salvato da morte certa, cresciuto come se fossi suo figlio, trasmesso i valori dell’Ordine fino a farli scorrere nel mio sangue. La ricordavo appena ragazzina, adesso doveva essere diventata una donna. Ritrovare – e portare con me – un frammento del mio passato non mi entusiasmava, ma stranamente non provavo repulsione come con tutto il resto. A lei era destinata la Thetys Key.
    Immerso nei miei pensieri, non avevo udito il rintoccare di nocche sulla porta. Mi riscossi solo quando il rumore divenne insistente e fastidioso. Alzai il volto e buttai fuori un “avanti” rude: avevo riconosciuto il “tocco”, erano anni che lavorava al mio fianco e al mio servizio per questa missione di reclutamento. Lui era stato il “primo” a entrare nel cerchio. Mi era stato mandato da un altro tempo con un bottino fondamentale: le Chiavi per i miei candidati.
    Megamede fece il suo ingresso, oscurando per un attimo la luce che veniva dal corridoio con la sua mole imponente. Il casco metallizzato – che non toglieva mai anche se la carriera da Mandaloriano era ormai un ricordo – pareva brillare di luce propria, tanto quanto la sua pelle color dell’ebano più pregiato. Le braccia erano lasciate scoperte, mentre il busto era coperto da una casacca di metallo nero che io sapevo leggerissimo ma che pareva indistruttibile. Quel metallo veniva chiamato Nth e proveniva dal suo pianeta di origine, Koronis. E no, non glielo avevano donato. Sapevo anche che con lo stesso materiale, lui stesso si era costruito delle ali magnifiche e letali, ma non le avevo ancora viste. Nonostante le minacce pressanti ai confini dell’Impero e al suo interno, non vi erano ancora state battaglie campali in cui avevamo lottato assieme.
    “Gran Maestro, ho recuperato il fascicolo dell’ultimo personaggio della lista. Mariko Yong. Per lei dovrai fare un salto indietro nel tempo, però: nel 1735!” La sua voce baritonale non fu in grado di addolcire la notizia. Viaggiare nel tempo richiedeva l’utilizzo del Monolite del Tempo, ma non sarebbe stato un grosso problema… solo una bella seccatura. Non amavo le incognite e, un po’ per esperienza un po’ per istinto, sapevo che usare queste Reliquie avrebbe potuto riservare fin troppe sorprese. Annuii concentrato verso Magamede. Intuire i suoi pensieri senza che potessi guardarlo negli occhi sarebbe stato molto complicato, se non fosse stato per il potere acquisito dopo la terrigenesi: grazie a esso, ero riuscito ad aggirare il problema. Tuttavia, scoprire che la sua mente fosse una landa desolata, anni addietro, mi aveva destabilizzato. Lui non conosceva la mia capacità di leggere i pensieri delle persone che mi stavano accanto, quindi non poteva considerarsi un tentativo di occultamento. Semplicemente… non pensava. Non lasciava che ricordi, ragionamenti superflui, conclusioni sulle tematiche più disparate vagassero indisturbate nella sua testa. La sua disciplina era prodigiosa e, ormai, mi ci ero abituato. Perciò non fui sorpreso quando, a una mia nuova esplorazione, si ripresentò lo stesso oblio…Nessuna considerazione personale, solo i concetti che aveva appena espresso a voce.
    “Va benissimo. Grazie per le informazioni preziose, mi muoverò di conseguenza.” Non ci fu bisogno di congedarlo, perché lui stesso lo fece, battendo un pugno sul petto e uscendo dalla stanza con un passo talmente silenzioso da risultare inconcepibile vista la sua mole.
    Io tornai alle mie elucubrazioni. Sarei partito a giorni per Germain… colui che mi preoccupava un po’ di più rispetto agli altri, ma ero certo che la missione sarebbe comunque riuscita. In un mondo o nell’altro, la Chiave avrebbe avuto la meglio.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 8/11/2020, 16:28
     
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    Parigi, 1791
    Mancava ancora un'ora all'alba, ma anche in quel momento, non ci sarebbe stata la luce del sole a illuminare il giorno. Sentivo l'orologio ticchettare martellante, incalzando i miei pensieri tormentati dalle mille preoccupazioni.
    Indossai i vestiti che il mio cameriere aveva preparato la sera precedente al buio, senza accendere candele, per non disturbare il sonno di Marie. Negli ultimi tempi, i nervi le stavano cedendo, e prendeva sonno a fatica, terrorizzata al pensiero della nostra situazione, del futuro dei nostri figli e dei nostri beni. Tutta la Francia era sull'orlo del baratro, e ognuno tentava di tutelarsi come meglio riusciva.
    Mio figlio aveva appena terminato l'accademia militare, ed era diventato uno degli ufficiali dell'esercito monarchico; non aveva voluto seguire la tradizione di famiglia, e questo era stato motivo di aspri conflitti tra di noi che ancora non avevamo risolto. Per fortuna nostra figlia era andata in sposa ad un rampollo di una famiglia nobile – la mia posizione come argentiere del re mi aveva permesso di poter concludere un contratto così vantaggioso – che si era rifugiato per tempo nella sua tenuta di campagna. Lontano dalle proteste e dalle rivolte che scoppiavano giornalmente a Parigi, da qualche settimana anche qui, nel nostro quartiere ricco e privilegiato, a pochi passi dal nostro palazzo.
    Indossai la marsina sopra la camicia e sopra ancora, per ripararmi dal freddo e dall'umidità, il mantello di lana, quello più semplice e robusto che possedevo. Non amavo il freddo, e poi il tempo umido faceva venire fuori i dolori di alcune vecchie ferite. Se fossi stato più giovane, non ne avrei risentito, ma ormai contavo quasi cinquanta primavere, e gli anni cominciavano a pesare sulle mie ossa.
    Prima di lasciare la camera da letto, posai un bacio lieve sulla fronte di mia moglie, poi scesi dabbasso. I passi non producevano rumore, sulle scale di marmo bianco. La passatoia rossa che ricopriva i gradini si intonava ai muri dello stesso colore, dove stucchi dorati, specchi dalle pesanti cornici, quadri con i miei illustri antenati decoravano la nostra sontuosa dimora.
    A pianterreno, mi diressi verso il mio laboratorio. Gli attrezzi che erano appartenuti a generazioni di artigiani reali erano disposti in perfette condizioni e in ordine maniacale, come mi piaceva tenere pulito, ordinato e controllato qualsiasi aspetto della mia vita.
    Andai sicuro verso un pannello murale, lo rimossi per aprire il compartimento segreto in cui custodivo gli oggetti più importanti. Volevo accertarmi che la reliquia che avevo sottratto la sera prima fosse ancora lì. Che strana precauzione... La presi in mano: una piccola clessidra, sembrava quasi un fine gingillo prodotto dalla mia perizia come argentiere. La sabbia bianca impiegava un'ora per passare da un piccolo recipiente all'altro. La avrei consegnata al Gran Maestro in giornata, sperando di portare con me anche l'altra reliquia che avevo rintracciato, se avessi avuto fortuna nella missione.
    Prima di uscire, infilai nel fodero la mia spada e nella fondina la pistola a pietra focaia, poi tirai su il cappuccio ampio, chiudendo il mantello con gli alamari. Non avrei preso la carrozza per coprire la strada fino a destinazione, il quartiere dove ero diretto era proprio il più malsano e pericoloso di Parigi, l'Ile de la Cité. Non mi feci scortare neppure dalle mie guardie: preferivo che rimanessero a difendere la mia abitazione. Marie sarebbe stata più tranquilla, sapendo di essere protetta da loro, anche se avrebbe continuato ad insistere per andare via da Parigi e trovare riparo presso nostra figlia.
    Quando ero in missione per l'Ordine preferivo muovermi senza occhi indiscreti a controllarmi. Non temevo le aggressioni da parte di qualche malintenzionato, anche se le strade erano insidiose: la mia statura imponente era già un sicuro deterrente, e poi sapevo muovermi nelle zone malfamate, così come ero abituato agli agi e ai lussi. Me la sapevo cavare da solo, non temevo quattro straccioni che urlavano e protestavano solo perché non sapevano cosa fare delle loro vite. Le loro menti si erano fatte irretire da nuovi ideali liberali, chiedevano a gran voce di essere liberi dal giogo che li schiacciava. Cosa cercavano e cosa avrebbero ottenuto erano però due cose ben distinte. Senza un ordine sociale, senza una gerarchia che dicesse a tutte le persone quale posto dovevano occupare, che ruolo dovevano svolgere, senza un controllo e un indirizzo saggio e avveduto, cosa erano in grado di ottenere? Niente.
    La gran parte di chi protestava passava il tempo per la strada, senza produrre, senza guadagnarsi da vivere, rubando quando aveva fame, dormendo in posti sudici che nessuno curava più. Le guardie cittadine riuscivano a fatica a contenere i loro scoppi di collera, e difatti, Parigi diventava ogni giorno di più una polveriera pronta a saltare in aria. Il re era sordo ai nostri avvisi; il Gran Maestro Templare conferiva con lui giornalmente, ma i suoi consigli avveduti cadevano nel vuoto.
    I pensieri, sempre più foschi, mi avevano accompagnato lungo tutta la strada. Passai davanti a Notre Dame, aggirando i falò accesi dai rivoltosi, uomini male armati e vestiti ancora peggio, e mi diressi a nord. Aveva piovuto molto negli ultimi giorni, e questo era il primo giorno in cui non succedeva, ma invece del sole, come temevo, si era alzata una nebbia fitta, oscura, che impediva la visuale anche a distanza minima. Il muro del Cimitero degli Innocenti, fatiscente e scrostato, comparve come un miraggio quando ero distante solo pochi passi. Il cancello di ferro arrugginito una volta era chiuso con un catenaccio che qualcuno, chissà quando, aveva divelto. Passai in mezzo alle due ante, senza toccarle, per evitare che il cigolio risvegliasse qualche fantasma. Il cimitero era molto antico, ma era stato abbandonato pochi anni prima.
    L'atmosfera era immobile, ovattata, quasi da incubo. I rumori di vita che fino a poco prima si udivano sembravano esser stati tagliati fuori dalle mura che circondava l'appezzamento punteggiato da lapidi antiche e illeggibili. Mi guardai intorno. Anche qui, come per le strade della città, dominava la rovina. Tombe divelte, scoperchiate, alberi rinsecchiti, cespugli che avevano invaso tutto. Cercai di orizzontarmi in quel groviglio, alla ricerca della cappella della famiglia nobiliare ormai estinta che si diceva avesse custodito quel pezzo prezioso per generazioni.
    La trovai infine nell'angolo più lontano dall'entrata. Una piccola costruzione, resa unica dal bassorilievo di una croce a quattro bracci uguali e otto punte, la croce templare, sul frontone. Mi abbassai per controllare una pietra che era quasi divelta. Poteva essere quella da usare per accedere alla cripta sotterranea. Fu un movimento naturale, ma provvidenziale. Sentii fischiare un proiettile a pochissima distanza dalla mia testa, che rimbalzò sulla grata di metallo tintinnando sordo come una campana che suona lugubre ad un funerale.
    Mi gettai senza pensarci dietro una lapide, per farmene scudo. Provai a sbirciare di lato, per capire almeno dove fossero gli assalitori, ma un nuovo proiettile sbucciò immediatamente il marmo, mandandomi della polvere negli occhi. Tirai fuori la mia arma, preparandomi a combattere. Per istinto, non ebbi molti dubbi su chi mi stava sparando, in una fredda mattinata d'inverno e in un cimitero deserto.
    ”Sembra che ci siano due cani a contendersi l'osso, non è vero? Cosa ne dici se ci affrontiamo a viso aperto, invece di nasconderci?”
    La mia voce rimbalzò profonda e imperativa. Mentre pronunciavo l'invito, mi alzai, togliendomi dal mio nascondiglio improvvisato. Nascondermi dietro agli angoli e prendere di sorpresa le mie vittime non era il mio modo di combattere e di affrontare le situazioni; l'onore mi imponeva chiarezza e correttezza sopra ogni altra cosa.
    Buttai indietro il mantello, in modo che l'estraneo mi vedesse. Attesi qualche secondo, poi due sagome, un uomo e una donna, emersero dalla nebbia spessa. Riconobbi la donna per via dei capelli rossi. La signorina Elise de la Serre. La figlia del Templare ucciso dal suo figlioccio, un ingrato che aveva ripagato la generosità con il tradimento.
    E osservando meglio il giovane uomo, cominciai a trarre delle conclusioni. Non fu difficile. La lama che spuntava dalle sue dita aperte, fissata al polso. Un'arma infida e da sotterfugi che si accordava alla perfezione al modo di agire dei nostri nemici giurati, gli Assassini.
    Erano circolate voci sulle simpatie e sulle idee sovversive di De la Serre, e davanti a me avevo la conferma. Se la intendeva con i nostri avversari. Ci avrebbe tradito, se già non lo aveva fatto: la sua presenza qui non era già la dimostrazione? Come poteva quel semplice Assassino conoscere segreti che erano accessibili solo agli appartenenti ai ranghi maggiori del nostro Ordine?
    La rabbia, ma più forti ancora lo sdegno e il disprezzo, invasero il mio cuore. Una volta che si sceglieva di essere un Templare, più nulla poteva mettersi sulla strada: non dubbi, non ripensamenti, non compromessi.
    In quel momento, l'assassino non era per me il nemico. La traditrice lo era.
    Impugnava ancora la pistola con cui mi aveva quasi colpito. Alzai la mia verso di lei.
    ”Non abbiamo bisogno di presentarci, signorina De la Serre. Vostro padre era un Templare eccellente, che diede la vita per i principi in cui credeva. Voi, invece...” Lasciai la frase in sospeso... bastava il tono sprezzante per chiarire quello che sottintendevo.
    La ragazza puntò di nuovo la sua arma verso la mia testa. Intervenne l'altro: ”Elise, no. Non farlo. Possiamo trovare un altro modo per raggiungere i nostri obiettivi”
    ”Stanne fuori, Arno. Ti ho detto che non è possibile ragionare con certe persone...” Lo rimbeccò lei a denti stretti. Sorrisi solo con la bocca.
    ”No, infatti, con me non si ragiona”
    I proiettili partirono insieme, come se ci fossimo sincronizzati. Con la coda dell'occhio, vidi che l'Assassino si muoveva, ma non nella mia direzione, no. Lui aveva già capito e previsto, ma avrebbe potuto fare ben poco. Lei aveva mirato al bersaglio piccolo e il suo colpo arrivò di striscio sullo zigomo, tracciando una scia di carne lacerata fino all'orecchio.
    Gli errori che fanno i giovani e non i vecchi come me: io avevo mirato al bersaglio più grosso, quello che molto difficilmente si manca da una distanza di pochi passi. Il mio colpo la raggiunse al cuore.
    Mi inginocchiai a terra, stordito. Udii l'uomo gridare scorato. Avevo pochi secondi per riprendermi e prepararmi ad affrontarlo. Non era ancora finita.
     
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    :Arno:
    Ero appena tornato da una missione difficile, una di quelle in cui nulla va come hai preventivato e – come al solito – mi ero ritrovato a improvvisare. Ciò nonostante, ero riuscito a portarla a termine, in barba ai mille imprevisti. Mi levai il cappuccio, il mantello e le armi, e li appoggiai delicatamente sulla sedia accanto al letto, che occupava quasi tutta la stanza del monolocale in cui vivevo da qualche mese. La Confraternita me l’aveva assegnata, visto che non riuscivo a tenermi un posto fisso per più di una settimana; insomma, piuttosto che farmi dormire sotto i ponti con una Rivoluzione in atto… ma adesso non aveva importanza, volevo solo buttarmi sul letto e dormire fino a quando il sole non sarebbe stato alto nel cielo.
    Ma… qualcuno… aveva piani diversi, ahimè. Dal brevissimo toc-toc sulla porta capii immediatamente chi fosse il guastafeste, o meglio, “la” guastafeste. Élise de la Serre entrò come una piccola furia, incurante del fatto che esistesse una serratura di cui lei non aveva la chiave.
    “Ti hanno mai detto che è buona educazione…”
    “Ho bussato!” mi interruppe senza troppe cerimonie, mentre la guardavo radunare quegli stessi oggetti che avevo appena appoggiato sulla sedia.
    “In realtà, stavo per dire che è buona educazione non scassinare le porte altrui… Oh, anche salutare… non è considerato di moda al giorno d’oggi, soprattutto se si torna dopo mesi di silenzio, ma lo sai che io sono un tipo all’antica!” le risposi con voce sardonica e le mani sui fianchi. Avevo i piedi scalzi, il camicione aperto sul torace, i pantaloni slacciati ed Élise se ne accorse solo quando si degnò di darmi uno sguardo veloce; sguardo che, ben presto, si trasformò in una lunga occhiata. La guardai di sbieco, con una finta aria infastidita e un leggero broncio degno di un premio teatrale. Eccola che adesso si sentiva in colpa, tra poco avrebbe sbuffato piano e avrebbe ceduto avvicinandosi a me… detto fatto. Il suo profumo era qualcosa a cui non riuscivo mai ad abituarmi, non ero neppure in grado di descriverlo… era dolce e speziato assieme, che assurdità. Di una cosa ero certo, ogni volta che ne venivo a contatto mi sentivo forte e debole; capace di sbaragliare un’orda di nemici ma anche di cadere preda della sua malia.
    “Arno, questa donna ti ha proprio bruciato quel poco di cervello che ti restava” mi dissi sconsolato.
    Élise mi venne vicino, sussurrandomi qualche scusa per la sua irruenza, che io nemmeno ascoltai. La presi per i fianchi e la trascinai verso di me. Il suo profumo non era sufficiente, dopo tutto quel tempo in cui sembrava scomparsa nel nulla – e non era neppure la prima volta… – avevo bisogno di sentire la sua pelle e il suo calore. E lei parve leggermi nel pensiero, perché con i palmi accarezzò il mio petto nudo, il collo, le spalle, fino a far sparire la camicia dal mio corpo. La sentii scivolare lungo le braccia, mentre le sue carezze incendiavano anche la mia parte più remota. Avevo le palpebre abbassate, desideravo assorbire ogni brivido, ogni sospiro, ogni tocco, nel timore che potessero in qualche modo essere gli ultimi per molto altro tempo. Non volevo pensare a quando sarebbe di nuovo andata via, perciò decisi che un piccolo riconoscimento per la mia infinita pazienza me l’ero proprio guadagnato.
    Presi il suo viso tra le mani, beandomi della sorpresa che lo colorò all’improvviso. Poi la baciai, con tutto l’ardore che conservavo nel cuore solo per quei momenti più unici che rari. Lasciai che la mia lingua giocasse con la sua, assaporando ogni istante, mentre il suo corpo cedeva sotto le mie dita – che la conoscevano fin troppo bene –, abbandonandosi al medesimo desiderio che ci accomunava…
    Non ci fu alcun sonno ristoratore a consolare i miei muscoli stanchi, no, ma qualcosa di più appagante e inatteso: una briciola del suo amore.
    […]
    “Potresti ripetermi cosa diavolo ci facciamo in un cimitero abbandonato, alle quattro del mattino?” Non era stato facile slacciare le mie gambe da quelle di Élise e abbandonare le lenzuola che ci avevano ospitato. Affatto.
    “Te l’ho già detto! Dobbiamo recuperare la Spada dell’Eden… insieme!” mi rispose con fare sbrigativo, non prima di aver gettato gli occhi al cielo. Era un classico.
    “Questo l’ho capito, è lo scopo che mi sfugge!” sussurrai esasperato. “Se i tuoi scoprissero che mi hai dato un’informazione del genere, potrebbero espellerti dall’Ordine, o peggio…” Non sapevo perché ma tutta quella storia mi stava facendo andare fuori di testa. Il cuore non ne voleva sapere di battere a un ritmo normale, mi sentivo accaldato e inquieto, tanto che il gelo di gennaio non riusciva a penetrare sotto il mantello.
    “Recuperiamo insieme la reliquia e dimostriamo ai nostri superiori che è il momento di smetterla di farci la guerra!”
    Bloccai i miei passi, abbassandomi dietro una lapide monumentale piena di crepe profonde, molto simili a quelle che ornavano la mia anima. L’avevo afferrata per un braccio, costringendola a fare lo stesso.
    “Élise, ragiona. Il nostro Credo è inconciliabile, lo è da centinaia di anni…” La obbligai a guardarmi, prendendole il mento tra le dita. “Stai rischiando tutto ciò che hai, persino la vita, per un qualcosa che non si realizzerà mai. È un’utopia!” Si liberò dalla mia presa con uno strattone irritato.
    “Sono stanca, Arno, stanca di combattere per gli stessi uomini che hanno ucciso mio padre, ma al contempo non posso che rispettare il suo ideale. Era un Templare e devo esserlo anche io, ma a quale prezzo?”
    “Al prezzo del nostro amore…” risposi tra me e me, senza il coraggio di dirlo ad alta voce, come avrei potuto? La sua di voce, invece, era rabbiosa, ogni parola era stata sibilata tra i denti stretti, i pugni avevano le nocche sbiancate tanto erano stretti. Tentavo di comprendere le sue motivazioni, ma mi rendevo anche conto di quanto la nostra relazione fosse sempre passata in secondo piano di fronte ad esse. Mi amava, di questo ne ero certo, ma tutte le circostanze avevano sempre giocato a nostro sfavore… Se ci fosse stata anche solo una tregua tra i nostri Ordini di appartenenza forse… forse avremmo avuto modo di stare assieme, davvero. Ma lo sapevo, lo sapevo che era tutta una fantasia, ma acconsentii lo stesso a quella follia. Ero conscio che lo fosse, anche se ancora non avevo idea di quanto me ne sarei pentito nei giorni, mesi, anni a venire…
    […]
    In quella gelida mattina di inverno non riuscivo a percepire il freddo, continuavo a soccombere di fronte a un terribile presentimento che bloccava respiro e pensieri. Ci eravamo mossi silenziosi tra le lapidi divelte, gli arbusti secchi, la terra smossa, fino a quando il mio disagio iniziò a prendere sostanza, trasformandosi ben presto in una reale minaccia.
    Qualcuno ci aveva preceduti e stava entrando nella cripta dov’era nascosta la Spada dell’Eden. Non poteva essere un Assassino, se la Confraternita avesse saputo l’ubicazione della reliquia ne sarei stato di certo a conoscenza. Poteva essere un semplice razziatore di tombe, ma il suo mantello era di chiara buona fattura e la coincidenza per la quale stesse entrando proprio in quella cripta era davvero troppo strana. La deduzione logica era che si trattava di un Templare ed Élise sembrava d’accordo… al punto da puntarlo con la pistola e sparare senza che potessi muovere un muscolo.
    “Ma che diavolo fai? Sei impazzita?” sibilai, adirato. Non eravamo sicuri dell’identità di quell’individuo, e se avesse ucciso un innocente?
    “È un Templare! Non possiamo permettere che arrivi alla reliquia prima di noi… e poi, se mi vedesse con te, mi taccerebbe subito di tradimento e sarebbe la fine del nostro piano!”
    “Questo non giustifica un omicidio a sangue freddo! Élise, ti prego, torna in te!” Era fuori di testa, non riconoscevo quello sguardo allucinato, quella mano fin troppo ferma nel premere un grilletto poco sicuro. Non mi diede ascolto, ricaricò in fretta la sua pistola e – su invito del nostro avversario – si palesò a lui, sfrontata, senza alcuna paura. Mentre io, al contrario, sembravo divorato dal terrore. La raggiunsi e tutte le nostre identità furono svelate.
    François-Thomas Germain, illustre argentiere di Corte, era il Templare di fronte a noi. Élise sembrava conoscerlo bene, tanto da non cambiare idea sull’epilogo che quel dannato incontro avrebbe dovuto avere. Ciò che successe subito dopo fu un susseguirsi agghiacciante di eventi.
    Un altro paio di battute e poche parole pronunciate dal nemico. Parole semplici, senza particolare significato, eppure ancora non sapevo che mi avrebbero accompagnato per anni, infestando i miei sogni e dando vita ai miei peggiori incubi. “No, infatti, con me non si ragiona.”
    Li avevo previsti, gli spari. Per questa ragione tentai di trascinare via Élise dalla traiettoria, ma l’obiettivo a cui Germain aveva mirato era troppo grande. Non era un paradosso? Lei era così minuta e aggraziata, le sue forme erano una gioia per gli occhi… tuttavia, erano diventate un bersaglio perfetto anche per un tiratore meno esperto, ma di certo più furbo. La sensazione fu strana, come se la pallottola fosse penetrata dritta nel mio cuore e non nel suo. E per un secondo infinito, confidai con tutto me stesso che fosse andata così. Poi boccheggiai, senza respiro, e urlai una, due, tre volte, con la speranza che il mio strazio sarebbe stato in grado di portare indietro le lancette del tempo.
    Élise era caduta su di me a causa dello strattone con cui avevo tentato di salvarla, la scossi con forza, la tenni per le spalle e la implorai di aprire gli occhi, invano. La adagiai tra le pietre una volta levigate e bianche, adesso sporche di polvere e sangue. La vista era appannata, ma la mia mano aveva smesso di tremare. Il cuore batteva come un tamburo nel petto, ma la furia omicida che si impadronì di me sarebbe stata letale, lo sentivo. Non avrei lasciato testimoni di fronte a quello scempio, il colpevole sarebbe morto, per mano mia; così che le sue spoglie avrebbero nutrito i vermi e allietato i fantasmi di quel cimitero maledetto.
    Sfoderai la spada, la lasciai roteare due volte sulla mia testa: il mio urlo di battaglia. Muto ma agguerrito.
    Mi lanciai su François come una scheggia, rendendomi conto che erano trascorsi pochissimi attimi dagli spari, mentre io li avevo percepiti come un’eternità. Lui era ancora scosso per via del proiettile di Élise, sembrava fosse ferito al volto, ma non mi fermai a verificare. Lo volevo morto. Punto.
    Il mio avversario reagì con relativa prontezza, bloccando i miei affondi ma subendone – anche se di striscio – qualcuno, fino a quando anche lui fu armato di spada, proprio come me.
    Il duello fu cruento: ogni appiglio era buono per darci la spinta, per parare i colpi, per eludere gli attacchi. Racimolai diversi tagli, ma il dolore fisico, al pari del gelo, non riusciva a raggiungere i centri nervosi. Tutto ciò era nulla in confronto al supplizio che dilaniava la mia anima. Nulla, dopo questa notte non sarebbe rimasto nulla di me… solo polvere. Ma prima avrei portato all’inferno quel farabutto.
    Non so cosa il Templare vide nei miei occhi in una delle numerose schermaglie che ci portarono vis-à-vis, ma a un certo punto lo vidi sgranare i suoi in un moto di sorpresa. Io mi sentivo trascinare sempre più a fondo, la furia mista alla disperazione mi davano la forza per portare a termine ciò che mi ero ripromesso.
    Il mio avversario era abile, ma io ero più motivato, perciò quando scivolò sulla terra umida per parare il mio ennesimo colpo, non gli diedi il tempo di riaversi. Era il mio momento! Lasciai un fianco scoperto per evitare di indietreggiare, sapevo che lui ne avrebbe approfittato, ma lì sarebbe stato mio. Affondò la sua lama nella parte vulnerabile del mio corpo, mentre io affondavo la mia – quasi in contemporanea – al centro del suo petto. Lo avevo trafitto con un colpo potente, che mi permise di percepire tutti i tessuti e le ossa cedere come burro… Poco dopo entrambi lasciammo la presa sulle nostre else: quella del Templare si sfilò via facilmente dalla mia ferita, molto più superficiale; la mia restò lì, ritta, ondeggiante, come smossa da un vento impetuoso, il realtà era solo colpa degli ultimi rantoli di François-Thomas Germain, l’assassino di Élise de la Serre, futuro fantasma ospite del Cimitero degli Innocenti.
    […]
    Sono trascorsi minuti, ore, mesi o anni? L’ho portata via da lì, mentre i morti mal sepolti sussurravano al mio orecchio nenie e maledizioni, ma il suo corpo è ancora caldo. Oppure sono io a percepirlo così? Se sono passati anni dovrebbe essere rimasto solo il nulla… ma se si tratta di pochi minuti? Allora, allora posso ancora accarezzarla, fare finta che non sia andata via, questa volta per sempre. E io? Cosa devo fare adesso? Vivere è impossibile, sopravvivere è inutile. Potrei lasciarmi morire, bere fino a perdere i sensi, buttarmi giù nella Senna o lasciare che qualche rivoluzionario mi derubi e mi faccia la pelle. No, non sarebbe onorevole, ma che significato hanno l’onore, la giustizia, la verità se lei non c’è più? “Combattere” sembra una parola così vuota adesso. Può una sola persona manipolare un’intera esistenza? Sono sempre stato suo, fin dal nostro primo incontro, quando eravamo due ragazzini senza alcun pensiero. Poi la morte aveva bussato prima alla mia porta, poi anche alla sua… entrambi orfani, abbiamo trovato nell’altro un rifugio, un porto sicuro, un appoggio che a volte abbiamo perso ma che sempre abbiamo ritrovato. Adesso? Solo, sono rimasto solo. Un ideale è sufficiente per continuare a vivere senza amore? Lei avrebbe risposto “sì”, in fondo ha costantemente vissuto secondo questo precetto, a discapito anche del sentimento che ci legava, ma io? Io sono abbastanza forte per farcela? Non lo so… ma lo scoprirò, sì, lo scoprirò, prima o poi.
     
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