Montereggioni

Series Finale Season 5

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    Attorno al rilievo del Montemaggio le piccole pianura di Pian del Lago, del Casone ed il Canneto erano ricolme di nebbia che, bassa, nelle prime ore del mattino, regalavano un'atmosfera tra lo spettrale ed il magico. I torrenti e ruscelli nei dintorni favorivano la formazione dell'umidità, come la rugiada mattutina che annoiata sonnecchiava sull'erba fresca.
    All'interno di questo paesaggi idilliaco spiccava il borgo medievale di Montereggioni, ormai abbandonato era divenuta la nuova roccaforte degli Assassini che, dopo la fuga dall'Abstergo non avevano più un luogo da chiamare covo, ma soprattutto casa.
    L'idea era stata dei due fratelli Auditore che, dopo la prima settimana passata nel luogo sicuro individuato dalle Sailor poco fuori di Berlino, avevano deciso che sarebbe stato il luogo più adatto per rimettere insieme i cocci della Confraternita.
    Villa Auditore, che dominava il borgo, offriva un luogo pieno di passaggi e stanze segrete perfette per lo scopo, ma anche il resto della piccola cittadina avrebbe avuto un ruolo chiave.
    Di fatto quale miglior luogo ove nascondersi se non sotto la luce del sole?
    Le botteghe, le case, tutto avrebbe riaperto dando semplicemente adito all'apparenza di un luogo ove le persone vivevano e lavoravano, mentre al di sotto un labirinto di cunicoli ed anfratti avrebbero fatto posto all'anima della Confraternita.
    Ogni abitante del borgo era un Assassino, dal panettiere fino alle guardie che ogni giorno facevano la ronda sulle mura.
    Senza più forze ufficiali di polizia, comuni, regioni e prefetti ogni città della penisola era tornata all'epoca dei comuni.
    Questo permetteva ad ogni centro abitato, soprattutto i più piccoli, fuori dalla giurisdizione dei Gerarchi Devianti ed ora anche Templari che concentravano la propria aria di potere nelle città metropolitane, di autogestirsi ed auto proclamarsi.
    Questo era avvenuto anche a Montereggioni con 6 Assassini: 3 che si occupavano dell'amministrazione della città e 3 che si occupavano di amministrare la giustizia, le attività di polizia e di riscossione.
    Il tutto prevedeva anche un consiglio che una volta al mese si riuniva per discutere proposte e problemi, lo stesso era aperto a tutti i cittadini.
    Così facendo il luogo non era riconosciuto come una "base illegittima di sovversivi", ma come un "legittimo comune che rispondeva allo Stato Nuovo di Siena". Questo permetteva agli Assassini di non essere perseguitati e di conseguenza di continuare ad agire nell'ombra.
     
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    :Altair:
    La Terra era cambiata o meglio l'aveva fatto per forza maggiore e con lei gli Assassini. I fasti di un tempo con le numerosi sedi, le gilde e tutto il resto era scomparso. Ogni luogo era stato scoperto e gli Assassini si erano estinti o per meglio dire, questo era quello che faceva comodo che si pensasse. In parte tuttavia non era così falso, in quanto l'opera Deviante aveva sfoltito di molto i loro rami. Dopo la fuga non tutti avevano voluto buttarsi nell'opera di ricostruzione, soprattutto quei giovani che avevano scoperto per caso la loro eredità e facevano della stessa l'origine di tutti i mali. La ritrovata libertà era per questi un tentativo di tornare alla normalità, soprattutto dopo che "apparentemente" le redini Devianti erano state allenate e i nuovi salvatori erano venuti alla luce: i Templari.
    Se eri un vero Assassino sapevi che quello non era un bene eppure era stato un ottimo modo per poter vedere il faro su di loro spostarsi. Questo aveva permesso di non essere perseguitati, di non trovarsi orde di Devianti alle spalle per riportarli "dentro", ma anzi aveva dato modo loro di riorganizzarsi.
    L'unico luogo rimasto, sicuro, per poter provare a riunire le forze era il covo dell'Isola Tiberina, a Roma, oppure Montereggioni. La seconda fu preferita però perchè non in città e lontano da occhi indiscreti.
    Lì potevano far affidamento su una copia esatta della città sotterranea, ove la Confraternita avrebbe lavorato, mentre alla luce del sole il borgo sarebbe tornato a splendere di luce e lavoro.
    Di comune accordo nessun avrebbe vissuto in Villa Auditore che sarebbe stata ufficilamente, il comune, ufficiosamente, la base operativa. Io avevo così optato per una casa nella parte alta del borgo, al limitare della cinta muraria.
    La costruzione, con un piccolo giardino interno ed un tetto piatto che fungeva da terrazzo, mi avevano riportato indietro di secoli. Questo perchè ritrovavo in quella casa le geometrie del luogo in cui ero nato e cresciuto. Anche Aphrodite ci aveva messo del suo, infatti l'intero era un omaggio alla cultura venusiana, così simile a quella mediorientale, con colori e profumi speziati che impregnavano l'aria.
    Era bello avere un luogo da chiamare casa, non una stanza o un dormitorio. Ma casa. Oltre a questo anche io avevo abbracciato la decisione di tutti di avere un "lavoro normale" per compensare la nostra immagine pubblica con quella ufficiale, ma nascosta, di Assassini. In virtù di ciò mi ero affidato a ciò che conoscevo, ma che non aveva mai messo in pratica a favore di altre arti: la farmacia. Infusi, decotti, preparati, conoscevo molto bene l'argomento e così ero lieto di fornire a tutti i preparati necessari per prendersi cura di sè stessi e dei propri cari.
    Ero proprio dietro il bancone a consultare il libro mastro, quando un giovane che si era unito a noi dopo la fuga all'Abstergo, era entrato in bottega con fare affannato.
    "Mentore, perdonate il mio disturbo, ma... ehm... ecco all'entrata della città c'è un uomo che chiede di voi..." disse con fare nervoso stringendo tra le mani la coppola che dal capo si era tolto.
    Tutti eravamo d'accordo di chiamarci solo per nome, per non destare sospetti, ma in questioni ufficiali o quando eravamo sicuri di essere lontano da sguardi indiscreti le gerarchie venivano rispettate e lui per ora era solo un semplice adepto all'inizio del suo percorso.
    "Hai detto all'entrata della città, è un forestiero dunque?" chiesi.
    La "polizia" del borgo altro non erano che Assassini con il compito di fare la ronda sulle mura oltre che presidiare l'unico accesso, non era libero ed era giusto così. I controlli permettevano di capire se erano semplice persone di passaggio per affari o... qualcos'altro.
    "Esatto, ma chiede di voi. Di voi... voi... come Mentore..."
    A quella sua affermazione scattai sull'attenti e dopo essermi assicurato la lama al braccio, ben nascosta sotto la maglia che indossavo, feci segno al ragazzo di guidarmi da lui.
    L'uomo era seduto su un masso, poco fuori le mura. Avvolto in un mantello nero, con lo sguardo all'orizzonte osservava rapito il paesaggio. Lo scrutai a lungo, di spalle, cercando di carpirne il pericolo, ma quando mi avvicinai la sua voce mi arrivò ben prima che potessi annunciarmi.
    "E' un onore pari a pochi potervi finalmente conoscere Mentore Ibn-La'Ahad" esclamò con voce gutturale, ma calda. Solo allora si alzò, mentre io mi irrigidivo, e voltandosi mi mostrò il suo volto. Abbassò il cappuccio e poggiandosi una mano sul petto fece un leggero cenno con il capo.
    "Vi conosco?" chiesi dubbioso, seppur qualcosa in lui mi era familiare.
    "Non aspiro a tanto, ma ho servito con gloria ed onore per l'ordine in tempi non sospetti. Ho fatto parte della Confraternita circa 2 secoli prima dell'anno mille. Ci chiamavano Occulti e solo pochi secoli dopo la confraternita levantina degli stessi avrebbe cambiato il suo nome in..."
    "Assassini" esclamai rimembrando una storia che conoscevo assai bene. Sotto il comando di Hassan, che aveva cambiato il nome all'ordine, gli Assassini avevano iniziato ad agire in pubblico, lui era stato l'artefice che li aveva riportati nell'ombra proprio ispirato dalle azioni degli Occulti.
    "Ho lavorato strenuamente affinché l'Ordine degli Antichi venisse sconfitto, ma quanto il loro annientamento è giunto essi si sono riorganizzati come Templari... non ho potuto fare a meno di vedere, pensare e credere, che una cosa simile si stava ripentendo..." proseguì l'uomo che ormai aveva totalmente e completamente catturato la mia attenzione.
    "Cosa mi state chiedendo..." tenni la frase in sospeso rendendomi conto che non avevo la minima idea del suo nome.
    "Eivor Varinsdottir" esclamò l'uomo colmando quel vuoto "Chiedo di poter tornare con voi. Da voi. Per combattere di nuovo con onore e gloria al vostro fianco ed assicurarmi una volta per tutte della fine dei Templari..." la sua voce non tradiva la sua decisione la stessa che permeava il suo sguardo da guerriero, feroce, ma leale.
    Io lo guardai con fierezza. Ammiravo come nonostante avrebbe potuto avanzare pretese, si era mostrato umile a riconoscere il mio ruolo e per questo si era presentato con una proposta non un'imposizione. Questo aveva mi aveva colpito al punto che, alzando la mano con la lama celata aspettai che lui facesse lo stesso con la sua. Fu allora che ci stringemmo il braccio l'un l'altro, mentre un sorriso si dipingeva sul mio volto: "Bentornato a casa fratello"
     
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    :Bayek:
    Per me conoscere Eivor era stata una vera e propria esperienza illuminante che mi stava permettendo, dopo essere uscito più confuso che mai dall'Abstergo, di mettere in ordine i miei pensieri o almeno provarci. Lui aveva vissuto proprio nel momento di passaggio in cui gli Occulti diventavano Assassini e perdevano anche un po' le loro origini e caratteristiche prima che Altair riportasse la Confraternita sulla retta via eppure c'era ancora qualcosa che mi rendeva confuso e pensieroso.
    In quel tempo avevo concentrato le mie attenzioni nell'aiutare per ricostruire, per guidare i cadetti e ritrovare il tempo per Ares, ma sembrava solo che il mio tenermi impegnato fosse proporzionale al mio desiderio di spegnere i pensieri. Un po' come quando, dopo la morte di Khemu, avevo indirizzato tutte le mie energie nella mia vendetta per non fermarmi ad affrontare il dolore che sentivo.
    A Montereggioni ero stato più che lieto di occuparmi del lato spirituale della piccola città, tanto per i suoi semplici abitanti quanto per gli Assassini. Questi in linea generale erano atei, ma quei pochi che invece cercavano conforto all'anima potevano trovarlo al piccolo tempio che con attenzione ed amore avevo costruito. Qui mi occupavo principalmente di ascoltare chi aveva bisogno di parlare, di confessarsi e liberarsi. Chi cercava conforto e sollievo o molto semplicemente voleva trovare la pace dell'anima, per migliorare le proprie tecniche di combattimento e non, attraverso la meditazione.
    Non erano rari i momenti in cui raggiungendo la cima della piccola costruzione passavo lunghi momenti, con una Senu ritrovata, ad osservare il tramonto. Era stato molto strano ritrovarla, bellissimo, ma particolare da quando avevo saputo chi fosse e cosa fosse. Parlare con lei divenne più soave e dolce, mentre lei mi strusciava il capo contro la mano o al viso in un gesto di conforto.
    Da quando ero giunto lì ancora non avevo trovato il coraggio di scendere nelle profondità della villa lì dove Ezio lo aveva messo al corrente della presenza della tomba simbolica di Amunet. Fu difficile trovare la forza di fronteggiarla, ma quando lo feci nel mio sguardo c'era solo tanta calma. Senu era appollaiata sulla mia spalla e faceva saettare il suo sguardo dal mio viso a quello di pietra della donna come preoccupata che qualcosa avrebbe potuto succedere da un momento all'altro seppur così non fu.
    "L'ho odiata per molto tempo sai?" chiesi alla maestosa aquila, senza guardarla ma fissando gli occhi pietrificati di colei che un tempo era stata mia moglie.
    "Ho sempre ammirato la sua forza e la sua capacità di darsi completamente alla causa, ma l'ho sempre accusata di aver rinunciato a noi. Ha preferito diventare Amunet piuttosto che continuare ad essere la mia Aya..." ammisi con un gran sospiro, prima di dare le spalle alla statua e sedermi ai piedi della stessa.
    "Non lo so Senu, mi sento come se quello in errore fossi io..." dissi per la prima volta ad alta voce osservando le altre statue intorno a me, tutte di Assassini famosi, considerati i pilastri della Confraternita.
    "Da quando mi sono risvegliato sono andato costantemente alla ricerca della strada giusta da percorrere. Ho fatto di Marte la mia casa perchè lì ho ritrovato la mia cultura ed il mio ordine, oltre che il mio cuore, ma... ma grazie a te ho compreso che Marte non è davvero casa... i Medjay non sono i MIEI Medjay... quello che sono stato per tanto tempo..." le confessai accarezzandole il capo che con fare materno mi guardava.
    "E questi Assassini, questi incredibili Assassini sono riusciti lì dove io non sono stato in grado..." e sapevo che Amunet ne era la prova. Ciò che lei aveva sacrificato era ciò che io non ero stato pronto a fare e mai avevo accettato.
    Tornato a casa mi ero messo a dormire cercando di cacciare via quei pensieri, ma la mattina dopo erano ancora lì ad attendermi, anche e soprattutto quando a farlo c'era anche una visita inaspettata che sarebbe stata per me importante.
    Il Generale Thot, considerato un fidato amico ed alleato, era di fronte a me con sguardo solenne. Lo invitai ad entrare lieto della sua vita, mentre le nostre mani si strinsero sul braccio l'un l'altro, mentre con la mano libera di davamo una pacca sulla spalla nel momento in cui ci abbracciammo.
    "Che piacere vederti! Sei qui con Horus?"
    "Sì e credo che ora sia con sua madre..."
    "Oh ecco perchè stamattina appena alzato non l'ho trovata. Sono molto felice per loro e tu... invece...?"
    "Sono venuto a trovare un amico!"
    "Allora entra vecchio amico mio, stavo preparando la colazione..."
    E fu così ci sedemmo al grande tavolaccio della cucina sulla quale varie pietanze dolci e salate si mischiavano con puro nettare d'uva. Alle nostre spalle lo scoppiettare del fuoco nel camino accompagnava i nostri gesti. Mangiammo e parlammo del più e del meno, ma entrambi sapevamo che altro spingeva in noi e necessitavano di una spalla amica per poterle esternare senza la paura di essere giudicati.
    "Perchè ho come la sensazione che tu ed Horus siate venuti insieme senza esserlo venuti per davvero?" chiesi improvvisamente nascondendo un mezzo sorriso dietro il morso che stavo per dare alla fetta di pane di segale che tenevo in mano.
    La nostra amicizia aveva radici ben più profonde di quelle che io potevo ricordare, seppur già dal mio risveglio a quel dì moltissimo tempo era passato, ed il Toth di fronte a me lo sapeva bene.
    "E' complicato..." esclamò semplicemente il marziano giocando con la marmellata di arance che aveva di fronte.
    "Provaci..."
    "Hai mai la sensazione che tutto ciò che stai perseguendo forse non è la giusta via?"
    A quella domanda ridacchiai masticando la colazione e portandomi le braccia dietro la nuca.
    "Ho detto qualcosa di divertente?"
    "Più che altro mi stupisce il tempismo!" esclamai facendo così aggrottare la fronte di Toth che mi guardava confuso.
    "Diciamo che non sei il solo a porti certe domande... La sensazione è quella di essere su una strada che finora si è percorsa con decisione, con lucidità e fierezza, ma pare quasi che il paesaggio al limitare della stessa non sia più costellato di quelle cose ce ce l'hanno fatta scegliere..."
    Improvvisamente Toth mi guardò come se avessi appena detto qualcosa in cui anche lui credeva, ma non osava esternare.
    "Ho vissuto molte vite Bayek... non starò qui a dilungarmi sul come o il perchè, ma inizio a sentire di doverne tener conto oltre che scenderci a patti. Sono diventato un Moon Knight per riconoscenza verso Selene e l'Impero, ma... ho perso entrambi. Non biasimo la prima per le scelte, ma non le condiviso. Ed il secondo bè è semplicemente andato in frantumi ed Helios mi pare ci abbia rinunciato senza troppe remore... cosa è rimasto di ciò per cui ho dato la vita?"
    lo guardai senza poter fare a meno di assentire alle sue parole, mentre qualcosa iniziava a smuoversi all'altezza mio stomaco, era la quel groppo che ormai da troppe notti non mi faceva dormire.
    "Immagino che tornare nei Medjay non sia un'alternativa..."
    "Per te lo è stato?" a quella domanda sospirai scuotendo il capo.
    Le motivazioni erano diverse. Thot non ne aveva mai fatto realmente parte, seppur io non lo sapevo, ed io avevo compreso che non era il mio posto, non più ormai.
    "Che pensi dovremmo fare allora?"
    "Persistere su questa strada fintanto non giungeremo ad un bivio... forse allora capiremo davvero se la nostra via è questo o un'altra..."
    Quella risposta, nella sua immensa semplicità era pregna di quella saggezza di cui entrambi avevamo bisogno in quel momento. Toth annui ed alzando il proprio bicchiere di succo d'uva lo fece tintinnare con il mio. Ci guardammo in un ringraziamento silenzioso e poi riprendemmo la nostra colazione con una maggior leggerezza addosso. Eravamo più consci e sicuramente averne parlato aveva reso quel peso più facile da portare per entrambi.
     
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    Una dell'eredità che con orgoglio portavo dentro di me era la caccia. Scorreva nelle mie vene come un istinto primordiale e di fatto poter riportare essa nella mia vita, in modo attivo, mi riempiva di una soddisfazione immensa. Era questo il ruolo che avevo deciso di ricoprire all'interno di Montereggioni, affinché potessi poi vendere le mie prede, o parte di esse, a figure che andavano dal macellaio al conciatore, fino al farmacista. Una parte le tenevo per me, per mangiare o creare oggetti ed indumenti e quello fu esattamente come tornare a casa. Riappropriarmi della mia vecchia vita, delle mie tradizioni.
    Per questo motivo avevo scelto di rimettere apposto una piccola casetta di pietra ai margini del borgo, proprio vicino al grande portone d'ingresso così da essere sempre un piede fuori, verso quei boschi che avevo iniziato ad apprezzare ed amare.
    Certo era una cacciagione diversa a ciò che ero abituato, ma non meno interessante. Oltretutto nel fitto della riserva di Basso Merse avevo piantato il mio tepee che spesso avevo usato come pied-à-terre per le battute di caccia o semplicemente come ritiro spirituale, soprattutto a fronte della cerimonia Inipi. La stessa a cui, appena poco dopo essere uscito dall'Abstergo, mi ero sottoposto.
    Per sette giorni e sette notti ero rimasto lì in solitudine eseguendo un rituale che prevedeva preghiere e canti, oltre che l'uso della cannunpa Wakan. Mentre erbe come la salvia e l'ierocloe venivano bruciate per richiamare gli spiriti.
    Le temperature che si raggiungevano erano proibitive, tanto che era necessario ogni dopo ogni sessione far raffreddare l'ambiente, ma questo serviva per espellere tutto ciò che vi era di nocivo.
    Il ni era il soffio vitale che manteneva in vita ogni essere vivente. Era assimilato dal respiro ed essendo tra le più ancestrali delle energie, lo si perdeva quando si moriva.
    Era così che attraverso quel rito io cercavo di rafforzarne il mio, mentre al contempo purificavo il corpo. Ecco dunque che la sauna reale diveniva metaforicamente quella dell'anima.
    Attraverso la cannunpa Wakan e i suoi fumi non era raro incombere in fortissime allucinazioni che altro non erano che gli spiriti che con l'uomo comunicavano durante quella cerimonia tanto sacra. Ed io avevo tanto bisogno di ritrovarli e cercare il loro consiglio.
    Sottoporsi senza un dovuto rispetto oltre che preparazione causava malori che io avevo visto in alcuni miei confratelli che si erano avvicinati a tale rito, mentre per me era ormai una sacralità della quale non potevo fare a meno. Solo Bayek aveva mostrato la tempra e la forza per accogliere tale energie ed affrontare tale rituale.
    Quando tornai a casa non mi stupì di trovare ad attendermi sia Athena che Cloe, che immediatamente mi corse incontro gettandomi le braccia al collo ed affondando il suo piccolo viso nella mia spalla, mentre io mi sollevavo in piedi e la tenevo in braccio. Anche Athena, dopo essersi pulita le mani sul grembiule che aveva in grembo, mi si avvicinò e posandomi un dolce bacio sulle labbra per darmi il suo bentornato.
    "Pensavo che il passaggio non sarebbe stato pronto prima del weekend..." osservai con tono pacato, ma incuriosito. Ero felice di vederle, ma credevo che altri giorni ancora avrei dovuto attendere. Intanto Cloe tornava con i piedi a terra tornando ai suoi disegni ed io mi accingevo di spogliarmi delle numerose armi che addosso portavo.
    "Iuventas mi ha dato una mano a riequilibrare il passaggio prima di partire con Partenope e le altre..." spiegò Athena che riprese a tagliare le verdure che aveva abbandonato poco prima.
    La casa non era molto grande e l'ampio ambiente principale fungeva da soggiorno e cucina. Un grande camino, il tavolo e pochi mobili rendevano l'ambiente caldo ed accogliente. Alle spalle di Cloe, che era seduta di fronte alla madre che dava le spalle al fuoco, vi era proprio la sua cameretta. Mentre alla sua destra, parallelamente alla porta d'ingresso, vi era l'accesso che dava sul piccolo giardino interno. Un'oasi di bellezza per via di tutti i fiori che Athena attentamente curava. Al piano di sopra l'ampia camera da letto padronale
    La casa ricordava, in piccolo, la Mansione Davenport con tutti i riferimenti che lo facevano apparire come un rustico casino da caccia.
    "Oltretutto questa volta niente sotterfugi. Con mio padre abbiamo deposto una richiesta ufficiale alla Corte Suprema e loro a fronte del nostro matrimonio, della nostra famiglia e della nostra capacità di non proteggere il passaggio... insomma è alla luce del giorno! Lo specchio nel nostro armadio è un ponte sempre aperto con quello nel nostro armadio della nostra camera da letto su Mercurio... così saremo sempre insieme... e anche quando saremo divisi avremo sempre un passaggio sicuro per tenere insieme la nostra famiglia" spiegò Athena con grande entusiasmo, prima che io raggiungendola alle spalle l'abbracciai, posandole un dolce bacio sull'incavo del collo.
    Cloe ci guardò fiera e quando presi posto accanto a lei, non prima di aver rubato un pezzo di carota dal tagliere, mi sporsi per veder meglio i suoi disegni che più che altro erano niente di meno che progetti, degni di un armaiolo. A dieci anni, da poco compiuti, dimostrava ogni giorno d'avere l'arguzia e l'intelligenza di una vera mercuriana, ma anche il coraggio e la tempra di una Mohawk .
    Ultimamente poi, forse complice alcuni codici originali che Ezio e Federico avevano trovato nella loro biblioteca e le avevano mostrato su Da Vinci, era divenuta sua attenzione e studio iniziare non solo a disegnare macchine da guerra ed armi, ma svilupparne di proprie.
    "E' come immagino la mia lama celata..." raccontò con orgoglio mostrandomi i disegni complessi che aveva fatto sulla lama "Ho scritto il mio nome nella tua lingua e poi qui ho scritto figlia di mercurio nella lingua di mamma..." continuò con piglio di chi sapeva cosa voleva, cosa che mi fece gonfiare il petto di orgoglio.
    Cenammo raccontandoci della giornata, degli sviluppi che sulla Terra e nella Repubblica c'erano stati e dopo aver giocato a Scarabeo, rigorosamente dopo cena, salutammo Cloe che Athena si accinse a mettere a letto. Io dal canto mio, ero seduto davanti al camino. Lo sguardo sulle fiamme danzanti in quelle riflessioni solitarie che come sempre mi permettevano di trovare pace ed equilibrio.
    Venni distolto dai miei pensieri dall'arrivo di Athena che, senza proferire parole, mi si sedette in grembo rubandomi un bacio.
    "Cloe sembra decisa sulla strada che vuol percorrere..." sussurrò lei, le labbra ancora strusciavano sulle mie e le fronti poggiavano una sull'altra.
    "Qualsiasi essa sarà credo sia nostro compito appoggiarla..."
    "Assolutamente sì. Non ci sarebbe nulla di peggio che costringerla a fare qualsiasi cosa, come se poi fosse possibile..."
    Entrambi ci trovammo a sorridere a tale verità, mentre io le accarezzavo dolcemente i capelli e lei piegando il volto da un lato mi lasciò la strada libera per proseguire fino alla sua spalla per poi scendere verso la porzione scoperta del suo décolleté...
    "E' stato difficile... privarmi di questo..." mormorai caldo, ma sempre con quella nota quasi timida nella voce che mi contraddistingueva.
    "Anche per me..." concordò lei, mentre le sue mani correvano sul mio viso a disegnarne i tratti, per poi raggiungere la mia tunica di cotone bianco che velocemente tolse. Poco dopo cambiò posizione per mettersi a cavalcioni su di me, mentre le mie mani correvano sui suoi fianchi e le nostre labbra si cercavano con passione crescente. Le sue mani solleticavano la pelle scura del mio dorso, mentre le mie scendevano sulle sue gambe, solo per risalire ed arricciarle la veste fino alla vita.
    Me la strinsi addosso, affinché i nostri corpi aderissero e poi alzandoci in piedi raggiungemmo il grande tavolo sul quale la feci sedere. In piedi ed in mezzo alle sue gambe, le baciai la gola, mentre lei perdeva le sue mani tra i miei capelli che stavano lentamente ricrescendo.
    Qualche gemito riempì la stanza, ma prima che la cosa uscisse fuori controllo, l'avevo già presa in braccio e portata al piano di sopra dove facendola appoggiare sul letto la vidi scivolare all'indietro, mentre io la sovrastavo attento a non gravarle con il mio peso.
    Una gamba di Athena era piegata, la stessa ove la mia mano si poggiò per accarezzarla. Partendo dalla caviglia e risalendo fino alla vita, nello stesso momento in cui i nostri bacini si incontravano e così le nostre bocche.
    Tutti e due avevamo sofferto enormemente per tutto ciò che era successo eppure in quel momento non sentivamo la necessità di dircelo o ricordarcelo. Ogni nostro sguardo valeva più di mille parole e poi quello che ora contava davvero era che ci eravamo ritrovati. Che eravamo di nuovo insieme ed adesso per non lasciarci mai più.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 15/1/2021, 14:47
     
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    C'era anche moltissimo da fare a Monteregggioni, ma io potevo ampiamente dire di essere soddisfatto di come i lavori proseguissero tanto alla luce del sole quanto nei meandri del sottosuolo. Di fatto ogni abitazione, bottega ed edificio aveva un accesso al sottosuolo dove si dipanavano una serie di tunnel che non portavano solo fuori città, ma davano anche vita ad un vero e proprio covo sotterraneo. Il tutto mentre mi stavo anche occupando, insieme agli altri, di organizzare ed addestrare i nuovi adepti molti dei quali sapevano poco o nulla sulle loro origini ed il Credo.
    Questo mi causava frequenti mal di testa, ma almeno mi teneva occupato nel tempo che mi divideva da Aphrodite. Non era stata contenta di allontanarsi, ma dopo tre giorni ininterrotti passati a letto, mi ero svegliato non trovandola. Al suo posto un bigliettino scritto nella sua elegante grafia in cui mi avvisava che sarebbe tornata quanto prima, ma che doveva sistemare -una volta per tutte- le questioni lasciate in sospeso su Venere. Diceva che se non andava via mentre dormivo, non lo avrebbe mai fatto.
    Quando tornò fu un vero e proprio deja vù. Incontrarla al mercato, nascosta dietro ad una stoffa pregiata e colorata così che ne vedessi solo gli occhi. Aveva giocato con me, mi aveva costretto a seguirla in un vicolo e lì dopo averla bloccata al muro tra una risata e l'altra, ne avevo catturato le labbra per un bacio profondo che sapeva di zenzero e fragola.
    "Hai risolto i tuoi affari in sospeso?" fu la domanda che le posi la sera stessa. Ero di fronte allo specchio e mi stavo svestendo, mentre a petto nudo la osservavo, bella e sensuale, stesa sul letto tra sete preziose ed una zanzariera dall'aspetto esotico.
    "Con orgoglio posso dire di sì e lo faccio fiera e felice come non mai... Ho ufficialmente cambiato la politica di Venere!" lo disse con un sorriso malizioso guardandomi attraverso lo specchio, prima che io mi voltassi a guardarla incredulo.
    Era stesa su un fianco, il capo appoggiato sulla mano ed il corpo fasciato in una sexy lingerie in un vedo e non vedo causato dalla vestaglia di tulle trasparente che indossava.
    "Cosa hai detto?"
    "Che ho cambiato la politica di Venere anche se c'era poco da fare, di fatto mia madre ha governato su una bugia e forse le mie azioni hanno solo ristabilito un po' di ordine..." mi raccontò con una punta di sana autodeterminazione, mentre io prendevo posto sul bordo del letto. Al che lei gattonando mi raggiunse e cingendomi le spalle iniziò ad accarezzarle.
    "Non sei nemmeno un po' curioso?" chiese in un miagolio che pareva una supplica. Come una bambina che si offende, perchè non riceve le giuste attenzioni. Ridacchiando del suo modo di fare viziato, portai le mani sulle sue e stringendogliele la incitai a continuare.
    Lei si rizzò sulle ginocchia e poi sedendosi sul letto, da un lato delle gambe, mi guardò. Io dunque torsi il dorso verso di lei e poggiando una gamba sul letto incontrai i suoi occhi cristallini
    "Prima tutto girava intorno al classico metodo monarchico con un regnante ed un erede... Anche dopo i sotterfugi di mia madre è continuato così, ma ne abbiamo visto i risultati no? Il mio governo è stato praticamente assente! Vesta e Cerere mi hanno sempre dato una mano, ma poi quando sono diventate anche loro Sailor... bè il loro impegno è scemato, giustamente... Ho avuto altre bravissime ragazze che mi hanno aiutato in questo tempo... concubine di palazzo... ed a loro mi sono ispirata..." Aphrodite era in fiume in piena mentre mi raccontava con enfasi ogni particolare, mentre io la osservavo investito dal suo entusiasmo.
    "Ho deciso che d'ora in poi la Contessa di Venere dovrà essere una giovane donna che ha appena raggiunto la maggior età e per la prima ho scelto la più giovane delle concubine. Vi rimarrà fin quando non avrà l'impriting, perchè poi è giusto che possa seguire il suo cuore, o se così non sarà... bè sto valutando delle idee... e niente quando una Contessa lascia la prossima verrà eletta tramite elezione popolare tra le giovani donne che, con tali canoni si candideranno al ruolo! Sarà poi suoi compito eleggere il Senatore che avrà il compito di rappresentare Venere in Senato..." concluse guardandomi come in attesa di un mio responso, mentre io ero ancora incantato di ogni suo gesto, espressione e soprattutto passione. L'ammiravo per ciò che aveva fatto e così facendomi serio le presi il viso tra le mani.
    "Aspetta questo.. questo vuol dire che..."
    "Non sono più Contessa? Esatto. Sono solo una Sailor, ma cosa più importane, amor mio, sono solo tua..." concluse mordendosi il labbro inferiore per poi sporgersi verso di me e leccarmi le labbra con la punta della lingua. Fu un gesto che proseguì con il mio attanagliarla e baciarla con foga, mentre Aphrodite si aggrappava a me che prontamente la feci cadere con la schiena contro il materasso bloccandole i polsi al fianco della testa.
    Immediatamente le sue gambe si piegarono per accogliermi meglio tra di esse e cingendosi a me sospinse il suo bacino contro il mio. Un suono gutturale uscì dalle mie labbra che, abbandonando quelle della donna che amavo, scesero sul suo collo, sul suo décolleté, verso i suoi seni, lungo il suo bacino per fermarsi al limitare dei suoi slip di pizzo...
    "Non oseresti tanto..." mi sfidò lei, la voce accaldata e la pelle luminosa per il piacere.
    Io la guardai con sguardo languido ed un sorriso sghembato di quelli che fermano il cuore e poi contro ogni previsione proseguì la mia corsa regalando ad Aphrodite un'eccitazione tanto inaspettata quando incredibile.
     
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    Da quando Ares era tornata a trovarmi, attivamente, si era data da fare all'interno del borgo mettendo a disposizione le sue conoscenze da guerriera al servizio dei cittadini. Erano civili che necessitavano saper difendersi, perchè il solo fatto che avevano deciso di appoggiarci e proteggerci era sintomo di pericolo. Mi aveva dunque reso orgoglioso il fatto che lei insegnasse tecniche base di difesa a mani nude e non. Era infatti guardandola che il mio cuore si riempiva d'amore e d'orgoglio, quanto di quel pizzico di dolore e ricordi che ancora riuscivano a mettermi a disagio. Ancora riuscivano a riempirmi la testa di dubbi.
    Ultimamente tornavo alla statua di Aya più di quanto avrei dovuto, rimanevo lì per lunghi momenti a fissarne il profilo, i dettagli del volto quasi fosse reale. Era perdendomi nei suoi occhi di pietra che mi chiedevo "che ne era stato della nostra vita?"
    "Quando tutto si era perso?"
    "Quando la nostra vita ci aveva fatto prendere strade separate?"

    "Sapevo di trovarti qui..." a quelle parole quasi sobbalzai quando voltandomi mi trovai faccia a faccia con Ares che con le braccia conserte al petto osservò prima me e poi la statua di Amunet come se fosse in carne d'ossa. Come se fosse una rivale contro la quale avrebbe dovuto scontrarsi da un momento all'altro.
    "Sì scusami, ehm... Io..." mi sentì uno sciocco, volevo spiegarmi, volevo dirle qualcosa eppure non ci riuscivo.
    Lei assentì quasi come se quel mio atteggiamento le avesse dato conferma a qualche dubbio recondito, mentre avanzando mi fronteggiava con sguardo duro e deluso, per poi tornare a fissare la statua.
    "Ho combattuto contro l'Abstergo per riaverti, ma... non posso combattere contro i fantasmi..." disse ormai di fronte a me. Gli occhi mantenevano un'espressione ferma seppur erano velati di lacrime. Feci per allungare una mano verso di lei, ma si scostò.
    "I-Io..."
    "Ti ha lasciato Bayek! LEI non ha avuto la forza di portare avanti la sua missione ed il vostro matrimonio, ma IO sì! Io ho rischiato il tutto per tutto per non perderti... ho messo in discussione anche il mio ruolo, ma l'ho fatto. E non perchè sono debole o sono pateticamente innamorata, ma perchè sono orgogliosa. Fiera del mio essere Sailor con la consapevolezza di esserlo in modo migliore da quando ti ho nella mia vita!" mi sputò quelle parole addosso con ira, frustrazione ed un pizzico di paura. Fu allora che mi mossi verso di lei e la presi per le spalle e no, questa volta non le diedi la possibilità di liberarsi della mia presa, la tenni stretta nonostante il suo tentativo di allontanarsi, di colpirmi.
    "Hai ragione" esclamai pacato e quella esclamazione parve fermarla, perchè stupita specchiò il suo sguardo scuro nel mio.
    "Sono stato distante e... sì sono venuto qui spesso, ma non per quello che pensi tu..." ciò sembrò stupirla, mentre allungando una mano prese ad accarezzarmi il volto propensa verso di me. A sentirmi.
    "Allora spiegamelo! Non lasciare che la mia mente fin troppo creativa si dia le risposte da sola..."
    Annuì. La mia necessità di riflettere, come sempre, mi aveva fatto chiudere a riccio. Mi aveva fatto apparire lontano e distaccato e per l'ennesima volta avevo lasciato che gli altri ne tirassero le conclusioni, per quanto sbagliate fossero.
    Fu allora che prendendole le mani, che aveva sul mio volto, le strinsi nelle mie abbassandole, ma sempre tenendole strette.
    "E' difficile... è che io... è che dopo quello che mi è successo ho riflettuto molto su quale sia il mio posto. Mi sono reso conto che, da quando mi sono risvegliato, non ho fatto altro che seguire la corrente. Mi sono riparato nei luoghi che conoscevo o credevo di conoscere. Come feci con Aya..." e pronunciando il suo nome tornai a guardarla "Mi sono sforzato di riavere indietro qualcosa che non esisteva più. Lei l'aveva compreso e cercò di aiutarmi a fare lo stesso..." fu tornando a guardarla che mi ritrovai ad accarezzarla con le punta delle dita, dalla tempia alla gota, fino alla mascella per poi prendere il suo mento tra due dita.
    "All'epoca non ce la feci, ma oggi ho capito che devo farlo. Non posso inseguire il passato, devo creare il mio futuro..."
    "E questo cosa significa?" mi chiese terrorizzata.
    "Ancora non lo so, ma... ascoltami Ares, io TI AMO... e questo non cambia nè cambierà... voglio essere certo che qualsiasi si rivelerà essere la mia strada tu ci sarai... sarai al mio fianco... sei la mia unica certezza, sei l'amore della mia vita... TU... mi hai capito? TU non Aya... tu, solamente tu..." a quelle mie parole mi avvicinai sempre più al suo volto, strusciando le mie labbra contro le sue lasciandomi andare ad un bacio sulla bocca, senza lingua all'inizio e poi via via sempre più profondo.
    Le mie mano scorrevano sulla sua schiena come in cerca di non so che cosa, in realtà volevo solo averla con me, il suo corpo contro il mio con il solo timore che qualcosa potesse divederci.
    Quando ci staccammo lei era ormai praticamente rannicchiata al mio petto e mi guardava più leggera, più rilassata e certamente con un calore che l'avvolgeva da dentro.
    "Ti amo Bayek e saper di essere la tua vita intera... sì devo ammetterlo mi tranquillizza..." cercò di dirmi con una nonchalance che fece sorridere entrambi "Ma non azzardarti a mai più a tagliarmi fuori dai tuoi pensieri ci siamo intensi?" mi minacciò poco dopo puntandomi l'indice contro e costringedomi ad alzare le mani in segno di resa.
    "Lo giuro! E tu mi prometti di esserci? Di stare al mio fianco in questa avventura che sarà la mia vita? Qualsiasi saranno le scelte che farò?"
    "Mi chiedi tanto, ma sì... sì sì sì sì Bayek... sì perchè mi fido di te..."
    A quella sua risposta, che era pari a come se le avessi appena chiesto di sposarmi -no anzi molto di più-, le presi per mano e me la tirai di nuovo addosso, mentre riprendendo a baciarci capimmo ben presto che era opportuno tornare a casa. Avevamo bisogno di sentirci, di amarci, di coccolarci, di sugellare quelle promresse con carezze e baci.
    "Ti Amo Ares e sappi che qualsiasi cosa potrà mai accadere il mio cuore è tuo... tuo mia regina..." le sussurrai sulle labbra, prima che lei, avvicinandosi nuovamente a me, cercasse le mie labbra avidamente, passionalmente ed amorevolmente.
     
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    Roberta
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    :Yulia:
    Quella strana vita di comunità stava cominciando a piacermi.
    Era bello vivere una quotidianità scandita da eventi cadenzati che potevi conoscere, controllare e gestire in prima persona.
    Fino a poco prima di essere rinchiusi nell'Abstergo, vivevamo alla giornata, con il solo obiettivo di combattere e distruggere i Devianti e nel farlo, avevamo dimenticato le piccole cose, come il mangiare insieme, condividere momenti particolari. Mi ero persa per strada un rapporto sereno con mia sorella, sempre costellato da eventi traumatici e tragici. Conoscevo i Grigi fin nel profondo, i loro pregi, e le loro debolezze, ma non eravamo mai stati un gruppo vero, unito nell’affetto oltre che negli intenti. Restavano sempre dei buchi oscuri in cui nessuno osava entrare, e che con il tempo erano diventati voragini impossibili da valicare.
    Poco dopo, nella prigione, avevamo pensato solo a sopravvivere, e come biasimarci? Quando chiunque attorno a te mira a sottomettere la tua mente e detiene la tua libertà di individuo, perdi tutto e diventi un numero, un nulla che non ha più significato… Emir e Morrigan si erano isolati, non trovando più nel gruppo le loro risposte e una volta fuori ci eravamo separati del tutto. In fine dei conti, non ero stata in grado di presentare delle argomentazioni convincenti per farli rimanere, mi era crollato un mondo e con tutto il sistema, anche ogni mia certezza. Un giorno, però, era giunto un Assassino Originale in fin di vita in un letto d’ospedale, che pur essendo immobile e privo di conoscenza, aveva scavato con forza nella mia anima e mi aveva costretta a fare i conti con la realtà che stavo vivendo, a reclamare giustizia per me e per le persone a cui tenevo. Yelena e Lin erano le persone più importanti che avevo al mondo e nessuna prigione o tirannia le avrebbe divise da me.
    Federico mi aveva aperto gli occhi e mi aveva ricondotto sulla via del Credo, quello vero, puro e io non mi ero sottratta al suo invito, anche se ci eravamo scontrati ferocemente in un primo momento, alla fine avevo compreso che era necessario agire per poter inseguire i miei sogni.
    E molti di quei sogni si erano realizzati a Montereggioni. Sembrava di essere tornati indietro nel tempo per la struttura di governo e di gestione, però avevamo a disposizione una tecnologia più avanzata per la difesa e i trasporti… era tutto strano per me, ma lo adoravo.
    Fuggiti dall’Abstergo, ci eravamo costruiti una sorta di porto sicuro, un paesino che potesse mimetizzarci e proteggerci, mentre si continuava a servire il Credo.
    Non era stato semplice entrare nelle grazie degli Originali, ma con il tempo, il mio costante lavorio e l’immancabile intervento di Federico, avevano imparato a tenermi in considerazione e a non guardarmi più con disprezzo, o con sospetto.
    Avevo portato con me Yelena e Lin e non potevo chiedere di meglio.
    Io mi occupavo di gestire l'emporio della comunità, in cui si vendeva un po' di tutto, dai generi alimentari, agli abiti. Era il punto di riferimento di molti avventori e anche grazie a ciò avevo avuto l'occasione di conoscere gli Assassini e instaurare un rapporto più stretto con loro. Mi vedevano sempre all'opera, senza mai riposare, nonostante fossi la donna del Mentore Auditore, del Sindaco della città.
    Per Yelena, invece, avevo accettato la proposta di Evie di tenerla al suo fianco, per aiutarla nella scuola del paese, che contava parecchi bambini. Aveva bisogno di staccarsi da me e dal mio controllo, che, a volte, mi rendevo conto, che era parecchio apprensivo e ossessivo. Avevo dato per scontato che uscite dalla prigione lei sarebbe venuta con me, ma non glielo avevo neppure chiesto e speravo con tutto il cuore di non averla costretta a qualcosa che la rendeva infelice a causa del mio egoismo. Per il momento mi sembrava serena anche se preoccupata per Lin, così come lo ero io…
    La streghetta era rimasta con me e mi aiutava all'emporio… ma non la vedevo felice, sebbene fosse accanto alla ragazza che amava, e finalmente potevano viversi libere da costrizioni e prigionie, sentivo che c'era qualcosa che non andava, che non la soddisfaceva appieno.
    Avevo provato a parlare con lei, per capire, aiutarla se avessi potuto, ma si era sempre negata. Affermava di non aver capito neppure lei quale fosse il suo problema… non ancora!
    Avevo deciso di non pressarla, di darle un po' di tempo e spazio, e avevo consigliato a Yelena di fare la medesima cosa, anche se per lei era molto più difficile. L'amava e vederla triste, malinconica, la faceva soffrire.
    Non c'era altro modo, però… ero certa che prima o poi avrebbe trovato la sua strada.
    Mi trovavo in bottega a riordinare alcune consegne che avevo ricevuto. I sacchi erano pesanti e la mole di lavoro ragguardevole, ma avevo comunque dato la giornata libera a Lin, che quel giorno appariva più scostante del solito. Avevo preferito lasciarla andare, che costringerla a restare e avere sempre sotto agli occhi quel suo inguaribile broncio, che per me era adorabile, ma che sapevo essere un chiaro segnale di malessere. E io sapevo cogliere molto bene i segnali…
    Avevo ormai finito di organizzare la dispensa dei legumi e dei cereali, ma dovevo ancora smistare le casacche e i mantelli da uomo nel piccolo reparto dedicato agli abiti.
    La lunga treccia che avevo fatto quella mattina si era un po' spettinata e un leggero velo di sudore mi imperlava la fronte.
    Se qualcuno, tempo addietro, mi avesse detto che avrei scelto di mia spontanea volontà, un lavoro manuale e di fatica, non gli avrei creduto. Al contrario… mi rilassava e mi faceva tirare fuori una parte di me, che non sapevo neppure di avere…
    Io, che ero sempre stata impeccabile, algida, distante, adesso mi sentivo bene a contatto con lo sforzo fisico, anche se con le persone non avevo perso un po' della mia alterigia o più comunemente detta: “puzza sotto al naso". Nonostante anelassi con tutta me stessa a essere accettata dal resto degli Originali, non potevo fare a meno di stuzzicarli con qualche battutina infelice. Era nel mio DNA.
    Riflettevo su quelle cose con un sorrisino perfido stampato in volto, quando fui interrotta nel mio lavoro da un ragazzino. Lo riconobbi subito… era uno “scagnozzo" di Federico. Quante volte gli avevo detto di non usare i bambini per portarmi messaggi? Esisteva la tecnologia per fortuna…
    Il bambino mi guardò con occhi furbi…
    “Il Sindaco richiede la vostra presenza! Dovete raggiungerlo al Palazzo del Comune” disse solenne prima di scoppiare in una risatina sul finale.
    “Quanto ti ha pagato per venire qui? Non è orario di scuola? Se ti becca la maestra Frye, ti farà una bella tirata d’orecchie!” gli risposi contrariata.
    “Ma non posso dire di no al Sindaco…” tentò di ribattere il piccolo.
    “Non puoi dire di no alla ricompensa, è questa la verità! Adesso fila a scuola se non vuoi che chiami subito la maestra!”
    Udii una voce in lontananza che pian piano si avvicinò…
    “Eccoti, dov'eri… Marco, la ricreazione è finita da un pezzo, non te ne sei reso conto?” Evie era accanto al ragazzino con le mani sui fianchi e lo fissava con aria di rimprovero, ma io potei anche scorgere un enorme sollievo. Avere a che fare con i bambini era una grande responsabilità, e Evie la sentiva tutta sulle sue spalle.
    “Gli stavo dicendo la stessa cosa… Adesso vai con la maestra e non ti fare più vedere in orario scolastico, siamo intensi?” mi rivolsi a Marco elargendo uno sguardo eloquente come a dire: “Non ti fare più corrompere da quel pazzo di Federico!”
    Evie mi guardò e mi puntò un dito contro.
    “So bene cosa fa il Mentore Auditore. È meglio che lo tieni a bada tu. Se lo facessi io non gli piacerebbe per nulla!” Poi mi sorrise, e recuperato Marco si allontanò.
    Io non attesi neppure che avessero svoltato l'angolo, perché mi precipitai all'interno e mi accinsi a chiudere l'emporio, esponendo un cartello che dava all'esterno con su scritto: “torno subito". Non sapevo quando sarei tornata, ma la voglia di vedere Federico era più forte di qualsiasi buon senso.
    Quasi avessi le ali ai piedi, arrivai davanti al Palazzo del Comune in pochi minuti, poi mi ricordai di essere impresentabile: sudata, in disordine. Mi fermai al locale sito nella Piazza Centrale ed entrando salutai Jacob che era dietro al bancone che serviva un paio di birre.
    “Potrei usare un attimo il bagno?” chiesi trafelata…
    Lui mi regalò uno dei suoi sorrisi sghembi e mi lanciò le chiavi del bagno delle signore.
    “Stai attenta a non farti troppo bella, altrimenti il Sindaco ce lo ritroviamo mezzo stecchito!”
    “Molto divertente! Grazie” lo rimbeccai mentre ero già sparita nella toilette.
    Mi diedi una rinfrescata e una sistemata ai capelli. Non ero perfetta come sempre, ma cosa potevo farci se voleva incontrarmi nel bel mezzo del lavoro?
    Dieci minuti più tardi ero già dietro la grande porta intarsiata del suo ufficio. Ormai tutti mi conoscevano e non era raro che mi vedessero lì…
    Bussai, ma nessuno mi rispose. Una strana sensazione di pericolo mi avvolse. Non avevo ancora visto in giro la segreteria del Sindaco, che non perdeva occasione di mostrare al mondo intero il suo seno prosperoso, sfoggiando scollature vertiginose.
    Pregai solo che non fosse in ufficio con Federico, piegata sulla scrivania proprio davanti a lui, perché altrimenti l'avrei strangolata.
    Mai preghiera fu tanto vana… aprii di scatto la porta e la scena che temevo si dipanò sotto i miei occhi.
    Maledii il fatto di non indossare un abito migliore. Il mio, lungo fino ai piedi, di cotone verde e non troppo scollato non reggeva il confronto. Era invece comodo per il lavoro, eh sì, perché io lavoravo, al contrario di qualche gatta morta di passaggio.
    Federico mi guardò fisso e un sorriso malizioso gli si dipinse sul volto.
    La segreteria, di cui non ricordavo neppure il nome, si voltò verso di me e mi osservò quasi colpevole.
    Tutta la furia che mi rombava nel petto restò ben mimetizzata dal mio sguardo di ghiaccio, più simile a una bufera di neve, dalla mia postura rilassata con le braccia conserte e un sorriso diabolico.
    “Signor Sindaco. Che piacere ricevere la VOSTRA chiamata. Come vedete sono qui. Oh, forse siete impegnato?” dissi con finto rammarico guardando l’arpia, per poi dare la stoccata finale. “Nah… credo proprio che per me vi possiate liberare. Pare che non ci sia nulla di importante che vi trattenga ancora, o sbaglio?” Stavo parlando con Federico, ma continuavo a squadrare la ragazza, che avendo compreso molto bene il messaggio, si dileguò in un istante, quando vide che il Sindaco non aveva nulla da aggiungere.
    Federico non aveva smesso di sorridere, e felino come un predatore, si alzò dalla sua alta seduta e mi venne in contro. Non appena fu vicino abbastanza da illudersi di averla vinta, alzai entrambe le mani e appoggiandole al suo petto, lo allontanai, con uno sforzo sovrumano. Sì, perché tenere a distanza Federico Auditore, con quel suo sguardo ammaliatore e il suo profumo muschiato, poteva essere paragonato a un dolore quasi fisico. Ma con me aveva imparato che non tutto era scontato…
    “Sai bene che con me, questi tuoi sguardi da tigre non funzionano! Soprattutto poco dopo che la tua dolce segretaria ha lasciato l'ufficio. Vi ho forse interrotti?” lo ammonii senza mai perdere il mio sorriso gelido.
    Lui incrociò le braccia al petto, mettendo su un finto broncio.
    “Come? Io ti faccio chiamare per averti tra le mie braccia, perché non riesco a stare lontano da te, e tu adesso mi respingi? Sei gelosa?” Cambiò espressione, tornando il solito sciupafemmine.
    “Si è gelosi di qualcosa o qualcuno che si teme di perdere. Ma con te…” Feci una pausa ad effetto… “non ho di questi timori perché sei mio, e nessuna mai sarà in grado di portarti via da me. È un concetto abbastanza chiaro, e per te?” Il mio tono si era riscaldato un po', ma senza perdere di incisività.
    Lui non attese neppure la fine del mio discorso, che mi fu addosso con una furia incendiaria. Mi sollevò da terra senza sforzo e io mi agganciai agilmente alla sua vita con le cosce, l'ampia gonna me lo consentì senza problemi. Mi appoggiò con la schiena al muro e mi rubò le labbra e la lingua e l'anima con i suoi baci intensi, vivi, brucianti. Lo tenni stretto a me con le gambe e con le braccia e raccolsi la sua passione, quando iniziò a esplorare il mio collo e il decolté con la bocca, e con le mani sollevò il vestito ispezionando ogni centimetro delle mie cosce…
    “Potrebbe entrare qualcuno…” sussurrai poco convinta.
    “Le buone abitudini non si perdono mai…” rispose lui, incurante di tutto e tutti. E sapevo che si riferiva alle nostre “fughe" nel ripostiglio all'Abstergo. Il nostro unico angolo di pace.
    Tornai in me, non eravamo più in quella maledetta prigione, ma nemmeno al sicuro nella casa patronale, la residenza del Sindaco, che avevo sistemato per noi, dove la camera da letto era tappezzata di candele profumate e incensi rilassanti.
    Il suo ufficio non era il luogo ideale… e lui lo sapeva molto bene, ma ero costretta “ogni volta" a ricordarglielo.
    “Adesso fai il bravo, anzi, facciamo i bravi… mettimi giù.”
    Sembrò ritornare da una dimensione che adorava, ma che in quel momento gli era proibita. Mi lasciò andare, si sistemò gli abiti di pregiata fattura e io feci lo stesso.
    “Dovrei smetterla di farti chiamare, se quando ti vedo dimentico ogni buon senso. Non è consono al mio ruolo…” parlò con fare altero, ma poi mi sorrise e mi schioccò un bacio focoso. “Vieni, siedi… faccio portare il pranzo.”
    Era nostra abitudine pranzare insieme, anche se quel giorno era più presto del solito.
    Poco dopo eravamo davanti a due piatti fumanti di selvaggina in salmì, una specialità della zona. Federico conosceva bene i miei gusti.
    “Hai ragione, sai… dovresti evitare di mandarmi a chiamare all'emporio. Soprattutto se usi dei ragazzini a pagamento. Evie era molto contrariata quando è venuta a recuperare Marco da me…” gli dissi ammonendolo.
    “In effetti, mi piace usare questi ‘vecchi metodi’, sanno un po' di serenate sotto al balcone o lettere d'amore inviate con improbabili messaggeri…” rise di gusto. “Evie mi perdonerŔ
    “Quindi, vorresti dirmi che sei un romanticone, Federico Auditore?” lo punzecchiai.
    “Mmm non proprio, ma mi piace comunque stupirti! Non te ne sei accorta, amore mio?”
    “Ok, devo ammettere che ci riesci sempre…”
    “Sì, ma non sono riuscito a convincerti a non lavorare in bottega. Perché non sei venuta qui con me? Saresti potuta essere tu la mia segretaria e ti avrei sempre tenuta d’occhio, invece così, devo usare i miei informatori e i miei messi per sapere cosa fai, e come stai? So che ti affatichi troppo.” Adesso era serio e lo percepivo chiaramente.
    “Sai anche allora che se io lavorassi qui, nessuno dei due combinerebbe nulla di sensato e non ce lo possiamo permettere… A essere onesta avrei accettato l’incarico solo per vedere morire di invidia la gatta morta, ma non è sufficiente. Mi piace il mio lavoro, mi sento libera, soddisfatta… anche se magari non è all'altezza della donna del Sindaco…” conclusi un po' triste.
    “Quello che pensano gli altri non mi interessa. Ormai lo avrai capito… L'unica cosa che voglio è che tu sia felice e che stia bene sempre. Nient'altro…”
    “Ti ringrazio… Sono davvero felice! Non mi manca nulla, soprattutto perché a fine giornata torno dal mio uomo, nella nostra casa. Cosa potrei desiderare di più? Non ho mai avuto nulla del genere. Adesso sei tu il mio porto sicuro e non ho nessuna intenzione di abbandonarlo. Sappilo!” La mia voce era ferma, nonostante l'emozione dirompente che mi ululava nel petto.
    “Credimi, biondina. Neppure io vado da nessuna parte, e questo penso sia la sorpresa più grande, soprattutto per me, che beh, sai… non sono mai stato un tipo da relazione fissa, non so se mi spiego!” Fingeva di essere in difficoltà, ma io sapevo bene che non lo era affatto, piuttosto si stava pavoneggiando senza vergogna.
    “Un Casanova senza speranze, ecco cosa sei tu!” dissi lanciandogli il tovagliolo addosso. Allora lui lo prese al volo e rapido si alzò e mi si avvicinò da dietro le spalle. Mi guardò fisso sorreggendo la mia nuca con una mano.
    “No, invece, una speranza l’ho trovata e ce l'ho proprio davanti agli occhi!” E poi mi baciò, un bacio intenso, degno del migliore dei Dongiovanni e lui… era solo mio.


    Edited by SydneyD - 26/1/2021, 00:51
     
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    Roberta
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    Mi sentivo il cuore scoppiare e il sangue pressare sulle tempie. Pulsava al ritmo forsennato dei miei battiti.
    Voci confuse si accavallavano nella mia mente e tentavo in tutti i modi di poterle distinguere, catalogare, mettere a fuoco, così come anche le immagini che ferivano la mia vista interiore.
    La One Staff ardeva tra le mie mani e sapevo che era un segnale che mi inviava per farmi smettere. Per desistere dal mio costante chiedere. Ma io la ignoravo. Se non avessi avuto qualche risposta in tempi brevi, sarei impazzita. Ed ero certa che solo la mia fedele compagna avrebbe potuto darmi quelle risposte.
    Più mi incaponivo, più i volti che vedevo da sfocati diventavano ombre scure e le voci echi lontani.
    “No, ti prego! Aiutami. Non abbandonarmi...” quasi urlai nella mia testa, fino a che un grido acuto proruppe dalle mie corde vocali e si perse nel vuoto che mi circondava.
    Aprii gli occhi di scatto e ci impiegai un paio di secondi per mettere a fuoco l'ambiente intorno.
    La piccola radura verdeggiante era piccola e ben protetta da occhi indiscreti. Vedendola dall’interno, nessuno avrebbe mai immaginato che si trattasse di un piccolo scorcio nascosto del grande parco del paese.
    Poco tempo dopo il mio arrivo, lo avevo trovato per caso, dietro una barriera fitta di edera rampicante.
    Credevo di essere l’unica a venirci. Forse nessun altro sapeva di questo angolino sperduto.
    Avevo iniziato a recarmici quando sentivo la necessità di stare sola e di entrare in contatto con la Staffa. Avevo bisogno di pace e di silenzio per poter parlare con lei.
    Ma dopo mille tentativi, di notte, di giorno, ogni momento era buono per isolarmi e tentare, non ero riuscita a estrapolare i responsi di cui avevo dannatamente bisogno.
    Dopo la fuga dall’Abstergo, mi sembrava di essere passata da una prigione a un'altra e la seconda era più infida della prima perché mi imprigionava la mente, la volontà di andare avanti per la strada che altri avevano scelto per me, ma che io sentivo opprimente, asfissiante.
    Anche in quell’occasione, non avevo cavato nulla. Sapevo che i miei avi, tutti detentori della One Staff avrebbero potuto comunicare con me, ma proprio non ci riuscivo. Non capivo se erano loro a negarsi oppure ero io incapace di proiettarmi, di stabilire una connessione piena e diretta.
    Mi osservai le mani, arrossate in un principio di ustione e mi maledissi. Avrei voluto prendere a calci qualcosa per la frustrazione, ma mi trattenni.
    Mia madre mi diceva sempre che l'ira era una pessima consigliera e che avrei dovuto fare spazio al freddo raziocinio. Ma di razionale in tutta quella faccenda c'era ben poco. La verità era una: mi sentivo in trappola, persa nei meandri dell'inconsapevolezza. Non sapevo più cosa volevo dalla mia vita e adesso tutto mi pareva insufficiente.
    L'immagine di Yelena mi comparve come un flash nella mente. Lei era la mia unica oasi, il mio ristoro da questa tortura che giorno dopo giorno mi autoinfliggevo. Odiavo farla soffrire, odiavo vederla soffrire per queste mie incertezze delle quali non parlavo. Lei mi vedeva scostante e scontrosa, peggio del solito insomma e con lei non lo ero mai stata. Mi sentivo un mostro perché non ero in grado di trovare in lei tutto ciò che mi bastava, tutto ciò che mi rendeva pienamente felice.
    Lavorare all'emporio mi aiutava a non pensare, a distrarmi e per questo dovevo ringraziare Yulia. Ma la sera, quando tornavo nella casetta che condividevo con Yelena, mi crollava addosso il mondo.
    La mia dolce metà cercava di aiutarmi, di comprendermi, ma come avrei potuto spiegarle qualcosa che neppure io avevo chiaro in mente? E involontariamente avevo creato una barriera invisibile che mi teneva distante non solo da lei, ma anche da tutti gli altri.
    Non era il mio futuro servire clienti e sistemare forniture. Ci doveva per forza essere qualcosa di più per me, per la mia vita.
    Avevo seguito Yulia fuori dall'Abstergo, non solo perché anche Yelena era con lei e in attesa di capirci qualcosa, ma una forza interna, nella mia anima, mi aveva spinta a seguire tutti gli altri Assassini Originali, che in questo paese avevano creato una sorta di facciata ben strutturata per darsi la possibilità di trovare un nuovo equilibrio e rimettere in sesto la Confraternita, lontani da occhi indiscreti.
    La Confraternita... pensai a Ezio Auditore, a quella breve ma preziosa conversazione che avevamo avuto nella prigione prima che accettassi di salvare Altair. Lui si era fuso alla One Staff e non era morto. Era qualcosa di assurdo, o semplicemente aveva una spiegazione che andava al di là della mia comprensione. Non avevo gli elementi per capire.
    Mi sollevai di scatto ignorando il bruciore alle mani. Inglobai nel mio braccio la Staffa, uscii da quel nascondiglio con circospezione e iniziai a correre. Avevo uno scopo ben preciso in mente.
    Era mattino inoltrato, ed era la mia giornata libera all'emporio. Ci voleva ancora un'ora piena prima della pausa pranzo di Yelena, impegnata alla scuola con Evie e i bambini. Avevo tutto il tempo per incontrare qualcuno e poi avrei raggiunto la mia adorata Yelena, chissà forse con il cuore più leggero e con qualche risposta che tanto bramavo.
    [...]
    Mi ritrovai a salire a passo di carica lungo l'ampia scalinata della villa Auditore. Qui si svolgevano le mansioni amministrative per la cura della cittadina e dei suoi abitanti. Sapevo che in un ufficio al primo piano avrei trovato Ezio Auditore, il Podestà della comunità.
    Prima di bussare alla sua porta provai un attimo di esitazione, ma la cocente esasperazione che provavo mi tolse ogni dubbio. Non potevo più aspettare.
    Entrai senza farmi annunciare, non avevo scorto nessuno nei paraggi.
    Era seduto alla sua scrivania in una posizione rilassata, ma con espressione concentrata. Quando mi vide entrare come un piccolo uragano, si limitò ad alzare il capo verso di me senza nessuna traccia di sorpresa sul volto.
    "Mi sa che dobbiamo parlare... io e te, altrimenti rischio di impazzire!" affermai con il cuore in gola e con un leggero fiatone che non era dovuto solo alla corsa appena fatta, ma anche all’ansia che comprimeva il mio petto senza pietà.
    Ezio sorrise, si alzò dalla poltrona e fece il giro attorno alla sua scrivania, appoggiandosi alla stessa e incrociando le braccia al petto. “Buongiorno a te! Mi stavo giusto chiedendo quando ti avrei rivisto...” Non mi stupii troppo del suo "sapere sempre tutto". Aveva dimostrato in più di un'occasione di essere sempre un passo avanti.
    Allora parlai come un fiume in piena, come se lui avesse rotto l'argine del silenzio che mi portavo dentro da troppo tempo.
    "Ho provato ad adeguarmi alla vita del paese, ma mi sembra di stare chiusa in gabbia... come se avessi un cappio al collo che non so in quale momento potrà stringersi. Speravo che potessi..." mi bloccai all'improvviso. Avrei detto "aiutarmi". Non volevo sembrare tanto disperata, ma quale altra scelta avevo?
    Ezio annuì serio. “Queste attività sono solo una facciata” indicò con una mano l'ufficio che ci circondava. “Il nostro vero scopo è altro. Vorresti unirti alla Confraternita?” La sua proposta mi pietrificò sul posto. Da un lato aveva smosso un desiderio sommerso che neppure io sapevo di avere, dall'altro, non me la sarei mai aspettata, non da lui.
    "Ma io facevo parte dei Grigi... capeggiati da Liam. Ero vostra nemica..." La mia espressione tradiva una grandissima sorpresa, impossibile da nascondere.
    “Vero... e le vostre azioni hanno creato grossi problemi quando già la situazione era critica” Mi osservò fisso indagando i miei pensieri. “Avete seguito la guida sbagliata. Non sto dicendo che non abbiate delle responsabilità personali, però vi siete anche dimostrati capaci di fare le scelte giuste. Altair è vivo grazie a te...”
    Quella consapevolezza scavò in me dandomi la certezza di aver fatto la scelta giusta nel salvare il Mentore Altair, quando avevo deciso di sotterrare un'ascia di guerra ormai vana e priva di significato.
    "Mi sono unita ai Grigi per seguire un'ideale, che poi ho scoperto essere uno scopo personale e non aveva niente a che vedere con gli Assassini, quelli veri... Quando Liam mi ha proposto di entrare a far parte del suo gruppo, mi sentivo smarrita, ero fuggita di casa con l'unico scopo di lottare contro mia madre e la sua élite che si era alleata con i Devianti, disonorando i nostri Avi. Ho pensato di poter fare qualcosa di buono...” raccontai i miei motivi a bassa voce, quasi stessi parlando a me stessa. “Davvero mi stai dicendo che potrei entrare nella Confraternita?” Mi sentivo stordita, stavo vivendo una situazione surreale e avevo bisogno di una conferma.
    “Se è questo che vuoi! Ne possiamo parlare con Altair, o Federico, o uno dei Mentori! Vuoi che ti accompagni da loro...” Ezio si staccò dalla scrivania e aprì le braccia per farmi segno di seguirlo.
    In quel momento fui assalita dal panico. Ero solita affrontare tutto a muso duro e senza esitazioni, ma qui si stava parlando del mio futuro, di un Credo a cui avrei donato tutto il mio essere.
    Tremai dentro e una forte consapevolezza si fece largo in me, ma non era abbastanza. Avevo bisogno di parlare, di discutere, di capire.
    "Aspetta... vorrei farti qualche domanda prima... non che io abbia dubbi, ma è una scelta importante” Volevo che mi vedesse sicura ma ero certa avesse intuito la mia fame di risposte condita da dubbi che solo lui poteva dissipare. "Ricordi quando all'Abstergo hai ritrovato l'Asta... hai detto di aver visto qualcuno in particolare e deve essere necessariamente uno dei miei Avi.. questa cosa non mi ha dato pace..." Far parte della Confraternita sarebbe stata una cosa enorme, importante e mi sentivo schiacciata dal terrore, ma non volevo darlo a vedere. Per questo cercavo conferme sul mio passato.
    Ezio si era bloccato sul posto, aveva riportato le braccia lungo i fianchi. E il sorriso di poco prima aveva lasciato il posto ad un'espressione seria e distante.
    “Vuoi sapere dell'Asta? La avevo già avuta in mano tanto, tanto tempo prima... sarà per questo che ha accettato di aiutarmi a guarire dal virus.” Lo vidi respirare l'aria pesantemente “La Staffa comunica con te?” Mi sembrava improvvisamente in difficoltà, come se mi nascondesse qualcosa.
    "Ma come può essere? La Staffa appartiene alla mia famiglia da generazioni e generazioni... forse anche da prima che tu nascessi, Ezio. Come potresti averla avuta tra le mani? Sembra assurdo, eppure è chiaro che ti ha riconosciuto, la Staffa ti ha accettato e aiutato.” Ero allucinata e più rimuginavo, più vagavo nell'incertezza vischiosa che odiavo. Poi continuai.
    “Sì, devo entrare in una specie di stato di trance per poter comunicare con lei, ma le informazioni che ricevo sono confuse e poco chiare. So che è solo questione di tempo e di allenamento e quando sarò pronta, finalmente potrò percepire il volere dei miei Antenati... e i messaggi che vorranno inviarmi.” Ero orgogliosa delle mie potenzialità e fremevo di poter giungere alla piena coscienza dei miei poteri.
    Fui sincera come l'acqua limpida di un ruscello.
    Volevo fargli capire che non ero più una nemica, che le mie domande erano un bisogno interiore di capire chi ero davvero e cosa volevo diventare.
    Solo guardandolo negli occhi avevo la certezza che le sue conoscenze avrebbero potuto davvero illuminare il buio in cui vagavo.
    Ezio mi studiò con interesse. “Come posso aiutarti”
    Esultai mentalmente. Forse avevo creato una piccola breccia.
    "Che ne dici se ci sediamo un momento?" gli dissi indicando il salottino alle nostre spalle. "Ho bisogno di risposte per conoscere il mio passato e per sapere cosa fare del mio futuro... puoi, ma soprattutto vuoi aiutarmi?" parlai con una punta di apprensione nella voce, in attesa della sua risposta. Sembrava sapere molto più di quanto dimostrava e io avevo un disperato bisogno di lui.
    “Mi piaci Lin e voglio aiutarti. Ma questo non comporta che ti riconosca la mia piena fiducia.” Mi seguì e si sedette sulla poltrona di pelle, con i gomiti poggiati sulle cosce “Ci sono cose di me che solo poche persone sanno” Fece una pausa e mi scavò dentro con lo sguardo, poi, con voce determinata continuò “Non amo girare intorno alle cose: cosa hai bisogno di sapere” Mi sedetti anche io con un groppo in gola, ma la mia espressione si mantenne sicura. Avevo avuto conferma ai miei pensieri di poco prima. Ezio Auditore nascondeva dei segreti e questa cosa, anziché spaventarmi, mi spinse ancora di più verso di lui. Per quanto ne sapevo, era un guerriero eccezionale, e un amico leale. Lo aveva dimostrato nell'Abstergo, rischiando la sua stessa vita per proteggere Altair.
    "Non ho nessuna intenzione di indagare sui tuoi segreti, né pretendo di avere la tua fiducia incondizionata. Vorrei solo sapere di più sugli Assassini, un Credo che mi attrae come se fosse una calamita, come se fosse il mio sangue a spingermi verso di voi. So che una delle mie ave lo è stata: Shao Jun. Ma non ho avuto modo di conoscere molto di lei. Mia madre è sempre stata una tomba quando si trattava di parlare del passato e delle nostre origini. Tu l'hai conosciuta? Non personalmente intendo, hai sentito parlare di lei?"
    “Sì, conosco bene Shao Jun. Fu una grande Assassina, molto devota alla causa e per questo divenne una delle maggiori rappresentanti dell'Ordine del suo tempo. Per cercare di cancellare l'influenza dei Templari nell'Impero cinese e rifondare la Confraternita in quella parte del mondo, viaggiò a lungo e raggiunse l'Europa per poter ricevere l'addestramento da Maestri... leggendari” Ezio fece un piccolo sorriso scaltro che mi lasciò perplessa. “Fu uno di loro che le consegnò la Staffa, che ora viene tramandata nella tua famiglia” Si fermò, in attesa di una mia reazione.
    "Sai chi è stato? Mi piacerebbe molto studiare la storia del grande Assassino che ha istruito la mia Ava... mi trovo in un momento in cui ho bisogno di apprendere, di conoscere, di studiare... lo avrai capito" Sentivo che una scintilla di entusiasmo si era accesa dentro di me e che finalmente stava rischiarando il dubbio.
    Ezio si strinse nelle spalle “Una cosa per volta. La tua antenata fece un viaggio molto pericoloso per giungere a comprendere tante cose... Farai anche tu lo stesso?” Ancora una volta aveva evaso la mia domanda... ma non mi importava, ero disposta a prendere qualsiasi cosa avesse voluto darmi.
    "Sono disposta a tutto!" dissi risoluta. "Anche se questa mia scelta comportasse partire, andare lontano, studiare fino a farmi lacrimare gli occhi. Io voglio qualcosa di più dalla mia vita! Fino ad ora sono stata una pedina nelle mani di qualcun altro. Adesso voglio essere padrona del mio presente e del mio avvenire. E se la Cronfraternita sarà il mio futuro, voglio meritarmelo ed essere all'altezza, proprio come ha fatto Shao Jun ai suoi tempi."
    Ezio sorrise più apertamente e mi aprì il cuore. Era soddisfatto delle mie parole, forse erano quelle che si aspettava. Mi strinse una spalla con fare incoraggiante.
    “Brava ragazza! Hai molto in comune con la tua antenata! Shao Jun possedeva la stessa determinazione, la stessa forza che c'è in te...”
    "Cosa devo fare quindi per poter diventare un'Assassina degna del suo nome?”
    “Con le tue scelte, sei già sulla buona strada. Ma se desideri un consiglio, faresti bene a risalire alle origini della tua illustre ava... le risposte si trovano più facilmente alla fonte di tutto...”
    Proprio in quel momento e sulla scia del suo dire, presi una decisione, forse la più importante della mia vita.
    Ero pronta e determinata a ripercorrere i passi di Shao per ritrovare me stessa e per comprendere alla fine chi sarei potuta diventare.
     
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    Avevo sperato di rivedere Yelena con il cuore più leggero e ricco di nuove speranze. L'incontro con Ezio mi aveva messo d’innanzi a una scelta che tale non era stata. Il voler partire per questo viaggio iniziatico alla ricerca delle mie origini era più un obbligo che sentivo dentro, una necessità che mi avrebbe salvata dalla follia, uno scopo che avrebbe illuminato il mio futuro.
    Però, allo stesso tempo, attraversavo la distanza che mi separava dal mio amore, con passi pesanti così come lo era il mio animo.
    Dovevo parlare con Yelena e spiegarle la mia decisione, sì perché di questo si trattava. Non vi era alcun dubbio sul viaggio che avrei intrapreso, ma sapere che avrei piantato un coltello nel suo petto con una simile notizia, faceva sanguinare anche me.
    E la cosa che più mi lacerava era che non avevo mai messo in conto di restare, di rinunciare. Neppure per Yelena. Ma se lei mi amava come diceva, se lei voleva davvero la mia felicità mi avrebbe compresa.
    Viveva con me e aveva vissuto ogni briciola della mia insofferenza mista a dolore, della mia impazienza e insoddisfazione. Sì, sarebbe stata contenta di vedermi convinta a percorrere una strada che mi avrebbe salvata, mi avrebbe resa migliore e più consapevole.
    Con quella certezza granitica raggiunsi il cortile della scuola.
    Stavo per entrare dal grande cancello che rimaneva sempre aperto e mi scontrai contro un energumeno, proprio perché guardavo al suolo immersa nei miei pensieri.
    Stavo per cadere all'indietro quando questi mi afferrò per un polso ed evitò l'impatto a terra.
    Mi massaggiai il capo che avevo sbattuto contro un giubbino di pelle pieno di borchie, e stavo per partire alla carica, come il mio carattere mi spingeva sempre a fare, ma fui prevenuta da qualcuno forse più fumantino di me.
    “Hey, perché non stai più attenta, ragazzina”
    mi apostrofò Jacob Frye guardandomi con aria canzonatoria. Non riuscivo mai a capire cosa pensasse davvero, né tanto meno avevo compreso come avesse preso la mia presenza tra loro, a Montereggioni, dopo gli eventi dell'Abstergo.
    A volte credevo che mi sopportasse solo perché era sua sorella Evie a imporgli di fare il bravo, ma era pur sempre una mia impressione.
    “Mi sembra che entrambi fossimo distratti... tu, con la tua visuale ‘dall'alto’ avevi più probabilità di vedermi, o sbaglio?” dissi piccata e con una nota ironica nella voce. Non volevo dichiarare guerra, volevo al contrario passare inosservata, ma al contempo non avevo intenzione di apparire una sbadata. Eh già, perché fino a quel momento non avevo mai provato a integrarmi sul serio. Mi limitavo a condividere luoghi e situazioni comuni senza mai mettere nulla del mio. Preferivo essere invisibile e mantenere un profilo basso.
    Adesso, però, che avevo scoperto il mio scopo ultimo, ossia di entrare nella Confraternita, sempre dopo aver ultimato il mio viaggio, non sapevo se avessi fatto meglio a tagliarmi la lingua. Farmi dei nemici come Jacob Frye non mi avrebbe certo fatto guadagnare punti ai loro occhi.
    Avrei voluto aggiungere qualcosa per smorzare il mio tono un po' troppo mordace, ma la reazione dell'altro mi stupì non poco.
    Si fece una grassa risata e mi rispose.
    “In effetti, da laggiù potresti avere qualche difficoltà, te lo concedo! Da qui, invece è tutto diverso, si respira una bella aria, nanerottola!” disse indicando l’altezza della mia testa e della sua, sottolineandone la differenza.
    Strinsi i denti, sorvolando sul suo sarcasmo spicciolo, odiavo quando qualcuno mi faceva notare la mia bassa statura, ma non feci rimostranze. Approfittai del fatto di non averlo indispettito in alcun modo.
    Sapevo che aveva un carattere socievole, ma anche parecchio attaccabrighe e con me ci sarebbero state davvero fin troppe probabilità di andare a cozzare.
    “Bene allora, appena potrai, mi dirai come ci si trova a stare alla tua altezza, spilungone...” Mi morsi la lingua. Diamine! Lo avevo fatto di nuovo. Ma chissà, magari avrebbe apprezzato il mio sarcasmo in perfetta sincronia con il suo.
    “Ma certo... ti illuminerò un'altra volta però, adesso ho un po' di fretta. Ci vediamo, nanerottola” rispose tronfio, senza il minimo segno di offesa o di riprovazione. E mi scompigliò i capelli corvini, che erano semi raccolti in due chignon ai lati della testa, decorati con ciocche colorate di viola e blu.
    Lo guardai storto, mentre lui mi faceva un occhiolino birbante e se ne andava. Seguii la sua andatura ciondolante per un paio di minuti, fino a che non scomparì dalla mia vista.
    Forse, in fin dei conti, non mi odiava, almeno non tanto.
    Ai tempi della prigione eravamo nemici, ma prima di fuggire, le posizione di noi ex Grigi si erano chiarite e ognuno con i suoi tempi, stava provando a mettere da parte, i vecchi dissapori.
    Io ero stata la prima scettica, quando Ezio mi aveva contattata per salvare Altair, ma in un secondo momento, mi ero davvero resa conto della differenza abissale che c'era tra i nostri gruppi e quanto io bramassi di far parte del loro, per onorare le mie origini e il mio senso del giusto.
    Seguendo Liam eravamo stati manipolati e speravamo di fare del bene, ma quando avevo percepito la pressante preoccupazione e l'ansia che coloravano il volto di Ezio per le sorti di Altair, avevo compreso fin nel profondo che sino ad allora ero stata dalla parte sbagliata, ahimé.
    Tutti gli altri Originali, nessuno mai si era permesso di attaccarci apertamente, né a me, né alle altre. Avevano la maturità necessaria per comprendere le nostre ragioni. Sapevo però, che tra gli Assassini, i nuovi acquisti o alcuni evasi, serpeggiava il seme della discordia e del rancore.
    Non vi avevo mai badato e speravo per loro che non venissero mai allo scoperto o che non ferissero mai, con la loro malizia, la mia Yelena o la stessa Yulia, in quel caso, non mi sarei trattenuta in nome di una possibile futura integrazione.
    I miei pensieri furono interrotti da una voce alle mie spalle.
    “Lin? Cosa fai lì impalata a guardare fuori dal cancello?”
    Era la mia lei e tutto il peso del messaggio che ero venuta a portare mi schiacciò con ferocia.
    “Ho appena incontrato Jacob, dissi con non curanza...” per farle intendere di aver appena finito di parlare con lui e non che fossi lì da cinque minuti buoni, persa nei meandri dei miei rragionamenti.
    Yelena alzò un sopracciglio. Sembrava strano anche a lei che mi fossi “fermata a parlare con qualcuno”, ma non disse nulla in merito, invece aggiunse.
    “Sì, è venuto ad accompagnare Evie. Si è assentata per un impegno imprevisto, che a quanto pare coinvolgeva il fratello. Li ho sentito confabulare nell’aula dei bambini di quattro anni.” disse con fare quasi cospiratorio.
    “Capisco...” dissi assente e un po’ a disagio.
    Yelena aveva di certo notato quanto fossi silenziosa, forse più del solito. Nell'ultimo periodo l'avevo abituata alle mie pause, ai momenti in cui mi estraniavo.
    “Sei venuta per pranzare con me o per arrovellarti sui tuoi ragionamenti contorti?” mi chiese con un sorriso sulle labbra, voleva smorzare la tensione con la sua battuta. Io lo apprezzavo ma era riuscita a mettermi solo più ansia.
    “Vieni, andiamo a sederci...” dissi incamminandomi verso l’interno del cortile, puntando la panchina sulla quale eravamo solite sedere durante la pausa pranzo. Adoravamo stare all'aperto e goderci il sole invernale, anche se a volte le temperature si facevano parecchio rigide.
    La presi per mano e la condussi al mio fianco. Lei portava con sé un cestino che era solita preparare prima del mio arrivo.
    Ci sedemmo e la sua espressione era speranzosa, ma allo stesso tempo preoccupata.
    “Ho trovato la soluzione al mio tormento e alla mia costante insoddisfazione. Devo fare un viaggio...” iniziai a dire, ma lei mi interruppe con il suo innato entusiasmo.
    “Come, cosa, quando partiamo?” chiese con gli occhi brillanti. Poi notò il mio sguardo cupo e si impensierì. “Cosa sta succedendo Lin? Cosa stai cercando di dirmi?”
    Il suo tono era leggermente esasperato adesso.
    Ne aveva passate tante al mio fianco, ne ero consapevole, così come sapevo che stavo per darle la soluzione al mio problema, ma che sarebbe stata una ferita per lei. Non volevo più attendere e iniziai a parlare come un fiume in piena.
    “Ho bisogno di andare via, Yelena. Di partire... da sola. Devo ritrovare le mie origini... studiare ciò ero e ciò che sono. Accrescere i miei poteri e le mie capacità. Questo è l’unico modo che ho per salvarmi. Trovare lo scopo della mia vita e perseguirlo.”
    “Mi stai dicendo che mi vuoi lasciare. Vuoi andartene da qui per trovare la tua strada? Lontana da me?” disse mentre tratteneva un singhiozzo in gola e gli occhi lucidi.
    “Non ho nessuna intenzione di dirti addio. Tu sei il mio amore e il mio tesoro, non ti lascerei mai per sempre. È solo una cosa temporanea, ma che devo assolutamente fare.”
    Era evidente che non credeva alle mie parole e questa cosa mi ferì nel profondo.
    “Non ti sto mentendo... devi credermi. Io ritornerò qui, da te, per continuare da dove abbiamo interrotto. Sei importante per me!” dissi convinta.
    “Ma non sono abbastanza! Non lo sono mai stata... Da quando siamo state trascinate qui da mia sorella, abbiamo dovuto iniziare una nuova vita, che io non ho scelto. Sono sempre gli altri a scegliere per me. Ma almeno avevo te al mio fianco, l’unica di cui mi fidassi davvero. Adesso, invece, te ne vai e io rimarrò imprigionata qui, da sola! Ho sempre visto la tua insofferenza che è sfociata in vera e propria sofferenza. Ho fatto di tutto per aiutarti e per starti accanto, ma non è servito a nulla, perché stai andando via da me... mi stai abbandonando...” Adesso qualche lacrima aveva scavalcato le ciglia ed era precipitata giù.
    “Non devi dire così. Tu sei la mia àncora e se non sono impazzita è stato solo grazie a te. Ma devo capire chi sono e chi voglio diventare, e se resto qui non lo scoprirò mai... devo andare in Cina, nel Paese nella mia antenata Shao Jun. È lì che troverò le mie risposte.
    Tentavo in tutti i modi di farle comprendere le mie ragioni, le mie necessità.
    “Non ti voglio mettere da parte, ma devo capire di cosa ho bisogno per continuare su questa via. Voglio diventare un’Assassina, ma non lo sarò mai davvero se non mi addentro nella storia dei miei avi che lo sono stati. Per me è molto importante...” Il mio tono era quasi implorante. Sapevo che non poteva capire a pieno la mia scelta, ma speravo che almeno la potesse accettare per la mia felicità.
    “Sai... in un primo momento, avevo sperato, in un impeto di certezza, che mi avresti portata con te, ma tu mi hai chiusa fuori. Saremmo potute partire insieme. Ti sarei stata di aiuto nelle tue ricerche, nel tuo girovagare. Non ti avrei mai lasciata andare senza di me” mi disse e le sue parole erano lame affilate condite dalla rassegnazione. “Tu, invece, sei come tutti gli altri, Yulia, Liam che hanno sempre progettato la mia vita a loro piacimento. Adesso, stai facendo la stessa cosa, separandoti da me e lasciandomi incastrata in una logica che odio, che detesto!”
    Mi avvicinai a lei e le sfiorai una guancia con le dita e asciugai due goccioloni innocenti, anche se lei continuava a guardarmi ferita.
    Mi si spezzava il cuore.
    “Non posso portarti con me, Yelena. Devo fare questa cosa per conto mio... non so dove mi condurrà il mio viaggio, ma ovunque sarà, devo affrontarlo da sola con tutti i pericoli e le difficoltà del caso. Fa parte della mia iniziazione, chiamiamola così, lo capisci? dissi per tentare di essere più chiara possibile. “Devi essere forte... e...”
    “Aspettarti?!” disse piccata e scostando brusca la mia mano dal suo volto. “Pensi davvero che me ne starò qui buona buona non sapendo dove sei, quando tornerai e che fine hai fatto? Non farò per l'ennesima volta la parte della bambolina che esegue i comandi del burattinaio.” Era in collera e addolorata insieme... era stata in grado di ferirmi di nuovo.
    “Stavo per dire che non devi farti abbattere dalle avversità. Che puoi contare su tua sorella e non sarai sola. Lei ha sempre pensato al tuo bene.” dissi semplicemente.
    “ Lei mi controlla, ecco cosa fa.” sentenziò. Io proseguii: “So bene che non posso chiederti di restare qui e aspettarmi fino al mio ritorno. Sarebbe egoista da parte mia. Sappi solo che io ti porterò sempre nel mio cuore. Qualsiasi cosa accada” conclusi con un magone in gola. Non potevo immaginare un mondo senza lei al mio fianco a illuminare le mie giornate. Avrei ringraziato i numi mille e mille volte, se tornando l'avessi ritrovata di nuovo qui per me, ma non potevo chiederglielo. Questo mai. Sarebbe dovuta essere una sua scelta.
    “Mi stai lasciando davvero, allora...” pareva quasi non credere alle sue parole. “Sei proprio sicura della scelta che hai fatto?” mi chiese in ultima istanza.
    Gli presi le mani tra le mie e le strinsi forte. Lei tentò di divincolarsi, ma non glielo permisi.
    “Sì, è la mia decisione definitiva... non ho altro modo per ritrovare me stessa.” Non c’era altra via per perseguire il mio scopo, ma l'avrei portata sempre con me, nel mio cuore e nella mia mente, in attesa di riabbracciarla al più presto.
    Si alzò con uno scatto e si liberò dalla mia presa.
    “Bene... allora c’è ben poco da aggiungere” disse tentando di mantenersi fredda, ma io sapevo che dentro stava morendo un po’, così come stava succedendo a me mentre la guardavo e la ascoltavo lanciare la stoccata finale.
    “Va' pure... fai buon viaggio e spero che avrai fortuna, trovando ciò che cerchi. Sappi però, che se e quando tornerai, non sarò ancora qui ad attenderti. E non ti accoglierò di nuovo a braccia aperte. Mi hai tradita, ferita, e non so se riuscirò mai a perdonarti.” Dopo aver parlato mi voltò le spalle e si allontanò con passo lungo. Voleva mettere più distanza possibile tra lei e me, tra lei e il dolore che le stavo causando.
    Ed era proprio qui, mentre guardavo la schiena longilinea e i capelli biondo sole di Yelena, che avrei segnato l'inizio del mio percorso.
    La mia prima vera prova era stata proprio quella di allontanarmi dalla donna della mia vita, ma sapevo che quando sarei ritornata, perché ero certa che lo avrei fatto più forte e consapevole di me, avrei lottato con le unghie e con i denti per riconquistare il suo amore e per riparare il suo cuore che io stessa avevo appena infranto.
     
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    La sua sagoma scura si stagliava sul selciato, colpito da una luna talmente luminosa da sembrare più una stella che un satellite. La sua andatura ondeggiante rappresentava un vero e proprio segno di riconoscimento, tanto quanto il bastone-pugnale e il tirapugni d’acciaio da cui non si separava mai. Indossarli di nuovo, potervisi appoggiare senza averne alcuna necessità, era stato come rinascere a nuova vita. Anche la bombetta classica, portata inclinata a dimostrazione della sua sempiterna anima ribelle, era tornata sul suo capo, al momento giusto prontamente sostituita dal cappuccio, nascosto sotto il giaccone di pelle lungo fino al ginocchio.
    Quella sera, però, non aveva indossato la lama celata, né portato altre armi con sé, credeva che non ce ne fosse bisogno, anzi sperava che fosse così con tutto se stesso. La persona con cui si doveva incontrare, nel bosco, alla periferia di Monteriggioni, non era un nemico… per lui almeno.
    Al borgo, il coprifuoco era già scattato, oltre la mezzanotte non si potevano più varcare le porte d’ingresso senza dover dichiarare intenti e motivazioni. Per questa ragione, aveva deciso di utilizzare a suo favore una breccia nelle mura, accanto alle porte principali, ma coperta da una fitta vegetazione. Avrebbe fatto leva, aiutandosi con i rami degli alberi e gli spuntoni di roccia, per andare oltre. Non era la prima volta che sperimentava questo genere di fuga, ma non pensava che fosse già stata scoperta… Eppure, avrebbe dovuto intuirlo che Arno Dorian non avrebbe faticato a leggergli nella mente e a beccarlo con le mani nel sacco.
    Una volta sul cornicione delle mura, pronto a scalare in discesa la parete, intravide un’ombra che lo fece sussultare: per poco non perse l’equilibrio. L’uomo era seduto sulla pietra grezza, sgranocchiava una mela, mentre le gambe penzolavano nel vuoto. Quando si voltò verso il fuggitivo, i suoi lineamenti delicati furono colpiti dai raggi della luna, rivelando due occhi azzurri come il lontano oceano.
    “Non puoi non creare sospetti se chiudi la taverna a mezzanotte, quando di solito resti lì a sbronzarti fino alle quattro del mattino…” Arno lo apostrofò con voce tronfia, un leggero sorriso sulle labbra, prima di dare un altro morso alla mela.
    Jacob sbuffò sonoramente, sedendosi al suo fianco, non sarebbe potuto andare via senza almeno una spiegazione, anche se mai e poi mai avrebbe rivelato il vero motivo della sua sortita.
    “Lo sapevo che non avrei dovuto accettare di gestire un pub, dannazione! Posso bere solo dopo un certo orario e nel mentre mi ritrovo a deglutire dietro avventori che si scolano barili interi… E tu, invece? Sei il comandante, perché diavolo ti metti a fare il gufo notturno quando potresti startene al calduccio nel tuo letto?” Jake non perse occasione di fargli notare quanto poco sfruttasse i vantaggi di essere al comando delle guarnigioni di terra, incaricate di proteggere il borgo e tutte le zone limitrofe, per prevenire o rispondere ad attacchi improvvisi. I Devianti erano sempre in attività e i Templari non avevano perso tempo a spargere il loro infido dominio su tutto il pianeta Terra.
    “Lo sai che non sono mai andato d’accordo con le gerarchie, Jake. Fare lo stesso lavoro delle reclute aiuta ad aprirsi a punti di vista totalmente diversi… E poi, ero venuto a bere qualcosa, finito il mio turno, ho visto la taverna chiusa e niente, ho pensato che avresti utilizzato la tua via di fuga stanotte.”
    “Ecco, come tu odi le gerarchie, io odio le catene. Qui dentro, mi sembra di essere chiuso in una scatola. Avere un pub, indossare i miei vestiti di un tempo, avere mia sorella al mio fianco mi riporta ai vecchi fasti… ma il borgo è talmente piccolo che, a volte, mi sembra di essere ancora in quella dannata prigione.” L’Assassino sbottò, prima di accendersi una sigaretta e aspirare una profonda boccata. Aveva sempre evitato di parlare di quel lungo periodo, ci aveva gettato su una coperta pesante, preferendo darsi ai bagordi per ritornare alla normalità. Ma tutto ciò non significava che fosse svanito nel nulla.
    “Non ti chiederò dove stai andando…”
    “Bene, perché non te lo avrei detto.”
    “Ti chiedo solo di stare attento. Fuori di qui, i nemici sono tanti, troppi.”
    Jacob si voltò verso Arno, gli offrì un tiro alla sigaretta, che l’altro accettò con un muto cenno di assenso. Aspirò e lasciò che il fumo li avvolgesse entrambi. Era preoccupato per lui, ma anche per tutti loro. Arno Dorian era fatto così, prima venivano gli altri e poi se stesso.
    “Se solo ci provassero ad attaccarmi, allora sì che avrei modo di scaricare lo stress della lunga immobilità. Una sana rissa da strada, quanto la sogno!” Jacob sospirò con il suo solito fare ironico, ma dietro le sue parole si celava tanta, tantissima verità. Gli mancava l’azione, solo con quella riusciva a non pensare, a non riflettere, a eliminare strane sensazioni che gli strisciavano nelle vene e alle quali non si era mai riuscito ad abituare.
    “Smettila di fare il cazzone e stai attento…”
    “E tu smettila di preoccuparti e vattene a dormire. Domani sera vieni, ti offro una birra…”
    Arno non rispose, si limitò a scuotere il capo e a gettare il torso della mela al di là delle mura, dalla stessa parte in cui il suo amico scomparve nell’oscurità.
    […]
    Jacob Frye arrivò al luogo dell’appuntamento mezz’ora dopo l’incontro con Dorian. Si era mosso lesto, ma cauto, raggiungendo una piccola radura, una macchia di solito verde ma adesso resa argentata dal riverbero della luna. Fece un fischio, simile al verso di un animale notturno, era quello il segnale convenuto. Attese qualche minuto prima che la figura di una giovane donna facesse capolino oltre la sagoma degli alberi, ma ancora distante dall’essere colpita dalla luce lunare. Allora, fece lui il primo passo, avrebbe dovuto temere una trappola, un’imboscata, un tradimento, era perfettamente logico che potesse accadere… ma se durante il tragitto quel timore lo aveva sfiorato, adesso era del tutto scomparso. Andò verso il centro della radura, le braccia un po’ alzate e la mano che non reggeva il bastone aperta, per mostrare di essere disarmato. Era certo che lei stesse cercando di capire soprattutto quello prima di farsi avanti.
    “Andiamo, kaiserina, vuoi uscire allo scoperto o no? Preferisci che mi tolga i vestiti così che tu possa perquisirmi meglio?” L’ironia e la provocazione erano le uniche armi che avrebbe usato contro di lei quella sera. O almeno così credeva.
    La ragazza, nascosta dall'alta vegetazione, aveva udito il segnale e una forte ansia l’aveva invasa. Non si trattava di paura, né di incertezza, era l'attesa di rivederlo, di incontrare di nuovo i suoi occhi chiari e il suo sorriso sghembo che la facevano impazzire. Aveva fatto una follia. Era scappata di casa, da Berlino, e si era recata in Italia, in un luogo ben preciso e concordato. Aveva bisogno di allontanarsi dalla sua famiglia, ma dove sarebbe potuta andare? Poi, l'idea balzana era giunta a stuzzicare il suo cuore e la sua mente. Un bosco sarebbe stato il posto perfetto per incontrarsi e... parlare? Vedersi...? Non sapeva neppure lei perché lo avesse cercato e contattato, ma quando lo vide farsi avanti, ebbe la certezza di aver fatto la cosa giusta. Le motivazioni e gli estenuanti ragionamenti li avrebbe lasciati a dopo.
    Si avvicinò cauta e lo ammirò in tutta la sua prestanza, illuminato per intero dai raggi della luna.
    Riflettendoci, non lo aveva mai visto con abiti diversi dalla divisa della prigione e i capelli adesso erano più lunghi rispetto alla rasatura militare imposta all'Abstergo, sebbene arrivassero a coprire appena il collo. Portava uno strano cappello, di foggia antica, e un bastone in una delle mani protese. Era chiaro che non la considerasse un'arma, almeno non contro di lei in quel momento.
    “Eppure pensavo che non avessi problemi con la memoria. Mi chiamo MOIRA. E... no, non credo sia necessario spogliarti, non per il momento almeno.” Moira uscì allo scoperto completamente. Si avvicinò a lui con un sorriso sicuro. Neppure lei sapeva da dove riusciva a prendere tutta quella sfrontatezza, ma voleva essere all'altezza della sua ironia. Non era più una ragazzina sprovveduta e non si sarebbe comportata come tale. Al contrario...
    Jacob Frye restò per un lungo attimo senza fiato. La tenuta da combattimento di Moira avrebbe dovuto fare paura, eppure a lui smuoveva qualcosa nel basso ventre che ben conosceva. Quella stessa sensazione di piacere e pericolo che aveva provato quando era nell’Abstergo, sotto le sue mani che miravano un po’ a torturarlo e un po’ a farlo uscire fuori di testa. Si era, fin da subito, creato un legame… non certo romantico, ma di sicuro travolgente.
    “Lo sapevo che non vedevi l’ora di mettermi le mani addosso, questa volta però non ci sono catene a tenermi buono buono…” Aveva parlato avvicinandosi sempre di più, abbassando le braccia e limitandosi a sorridere come se di fronte avesse una delle persone più importanti della sua vita… e non la sua aguzzina. Erano queste le contraddizioni che lo caratterizzavano.
    Anche Moira sentì una strana sensazione muoversi nel basso ventre, ma non aveva ancora capito di cosa si trattasse. Non poteva certo essere un sentimento positivo. Ciò che lei aveva condiviso con Jacob era stato qualcosa di strano, ambiguo e sconcertante, ed era per quel preciso motivo che aveva deciso di raggiungerlo. “In effetti... in alcuni momenti, mi hai regalato un divertimento quasi molesto. Non ti sei mai arreso, mai. Con o senza catene, non credo sarebbe stato diverso.” Gli si avvicinò ancora di più, tesa come una corda di violino. Era pronta a qualsiasi evenienza, anche se una vocina giù, in fondo all'anima, le diceva che non le avrebbe fatto del male.
    Era proprio una pazza da legare. Si trovava al cospetto di un nemico giurato della sua famiglia, un Assassino, e non lo aveva chiamato per tendergli una trappola. Affatto. Era lì quasi per una forma di vendetta inconscia. Avrebbe voluto urlare per l'esasperazione che provava, ma sapeva che con Jacob avrebbe trovato un po' di distrazione... di pace, forse? Non aveva bisogno di andare in un bosco sperduto dell'Italia per scrollarsi di dosso la sua dannata frustrazione. C'era un'altra ragione ed era proprio di fronte a lei, in questo momento. “Cosa ti fa credere che non voglia ancora farlo? Metterti le mani addosso, intendo. Adesso, libero dalle catene, potrebbe addirittura essere più interessante.” Si sentiva incendiare la gola e il ventre per le parole che aveva detto, perché davvero desiderava essere toccata da lui, ovviamente non con la violenza che ci si dovrebbe aspettare tra due avversari.
    Jacob le fu addosso in un istante, quelle parole avevano colpito dritte al centro di un qualcosa che non aveva nome, ma era forte e dannatamente seducente. Con le braccia le circondò la vita, incrociandole sulla parte bassa della schiena prima di attirarla verso di sé. La differenza di altezza era notevole ma non sembrava un ostacolo all’incrocio dei loro sguardi e dei loro respiri, erano diventati uno solo. Lui si avvicinò ancora un po’ al profilo della ragazza, sfiorando con le labbra la punta del suo naso. “Non riesco proprio a immaginare il motivo della tua chiamata, quando è arrivato il messaggio in codice sul mio cellulare quasi cadevo dalla sedia. Sì, avevo bevuto già qualche whiskey, ma lo reggo abbastanza bene. Come hai fatto ad avere il mio numero? È un cazzo di usa e getta che cambio ogni settimana…” le parlava alla medesima distanza di quel leggero bacio, non si era mosso di un solo millimetro. Così doveva essere.
    Moira aveva rischiato avvicinandosi a lui, ma proprio perché si aspettava una simile reazione. Le pareva di conoscerlo fin troppo bene, o forse era quella strana cosa che serpeggiava tra loro a unirli nei pensieri e nelle azioni. Jake non la teneva molto stretta, avrebbe potuto liberarsi dalla sua morsa, ma scelse di non farlo. Adorava la sensazione di averlo addosso, tanto vicino da fondersi. Il suo profumo intenso di spezie e tabacco quasi la stordì, ma riuscì comunque a rispondere, non allontanandosi neppure lei, di un millimetro.
    “Sai bene chi sono e quali sono i nostri mezzi. Nessuno è irraggiungibile, ma stai tranquillo, sono stata discreta e ho organizzato il nostro incontro tutta da sola. Per quanto riguarda il motivo... beh, volevo solo vedere che fine avevi fatto dopo la fuga. Ho saputo... che c'è stato un incendio che ha distrutto tutto... volevo accertarmi che le fiamme non avessero rovinato il tuo bel faccino. Sarebbe stato un tale spreco.” Aveva tentato di mascherare il disagio e la sua reale preoccupazione con il sarcasmo, l'unica arma che aveva per difendersi. Poi... un impulso improvviso le concesse un'audacia che non sapeva di possedere. Accarezzò con la punta della lingua le sue labbra, percepì la barba ispida, ma anche l'umido calore del suo alito.
    Jacob stava per rispondere con un’altra delle sue stoccate ironiche, ma fu costretto a tacere, persino a smettere di respirare. Quella piccoletta lo voleva morto, o quanto meno svenuto. Non ebbe molta scelta in realtà, doveva semplicemente baciarla con la speranza di non ricevere in cambio lo stesso trattamento della prima e unica volta che ci aveva provato. Anche se, adesso, non c’erano gorilla in grado di fermarlo… erano solo loro due… certo, lei era una deviante, avrebbe potuto polverizzarlo con uno qualsiasi dei suoi poteri, ma se non lo aveva fatto fino ad ora… Assaporò la sua bocca e la percepì all’improvviso timida, ebbe la medesima sensazione di quando erano stati nella cella punitiva dell’Abstergo: sembrava che non fosse poi così esperta come lasciava intendere. Si allontanò un po’, la guardò negli occhi, intenzionato a scorgere ogni sua più piccola reazione.
    “L’incendio è stato appiccato dal tuo paparino, con la chiara intenzione di farci fuori tutti quanti, ma alla fine siamo riusciti a metterci in salvo…”
    La sensazione di piacere fuso che il bacio le aveva lasciato fu soppiantata da una stilettata rovente al petto. Suo padre... l'Abstergo... Devianti, Assassini... Buoni o cattivi, bene o male. La cruda realtà le si riversò addosso. Moira si dimenò e prendendolo alla sprovvista lo allontanò da sé con una spallata al petto, si liberò dalla sua presa e gli regalò uno sguardo di fuoco.
    “Cosa ti aspettavi facesse davanti a una rivolta in piena regola? Che vi aprisse lui stesso le porte e vi invitasse a uscire?” Odiava tutta quella situazione. Non avrebbe voluto proprio parlarne. Ma cosa le era saltato in mente? Jacob era stato un prigioniero dell'Abstergo, un evaso, e lei se ne stava lì a giocarci come se fossero in una delle celle di punizione. Nulla aveva senso. Niente di ciò che stava facendo. Era stanca di dover affrontare tutti quei dissidi. Suo padre... il suo unico riferimento, le aveva mentito insieme a sua madre. La stavano trattando come se fosse una bambina capricciosa e lei era furiosa. “Forse è meglio se vado... è stato un errore venire qui. Una follia.” E fece per allontanarsi, sebbene sentisse uno strappo lacerante dentro di sé.
    Jacob non le impedì di sfuggirgli, l’aveva provocata di proposito e la reazione non era poi così diversa da come l’aveva immaginata. Neanche lei aveva la più pallida idea di cosa stava accadendo.
    “Sai cosa facevano al Livello Due di quella maledetta prigione? Esperimenti sui prigionieri. Grazie ai nostri alleati siamo riusciti a sabotarlo e a crearci una via di fuga. Due dei miei migliori amici sono stati sezionati come cavie da laboratorio… tutto questo per ordine del tuo paparino. Eppure, sono qui, di fronte a te. Ho risposto al tuo messaggio e non ho, neppure una volta, avuto la tentazione di farti fuori. Questo è davvero folle!” Se voleva andarsene, aveva la strada spianata, Jacob non l’avrebbe fermata. Ma dentro di sé, sapeva che non lo avrebbe fatto.
    Moira si trasformò in una statua di pietra dopo aver udito le sue parole. Esperimenti, cavie... ma cosa andava blaterando? Per quanto ne sapeva, gli Assassini erano nemici e per questo erano prigionieri. È così che si fa con gli avversari, si cerca di bloccarli con ogni mezzo per evitare di riceverne dei danni. Con loro dentro, tentavano in tutti i modi di sapere dei loro amici ancora in libertà...
    Si voltò e tornò sui suoi passi, ma era incerta, si sentiva come un burattino rotto, senza fili.
    Avrebbe voluto attaccarlo, colpirlo con tutta la forza che aveva in corpo, dirgli che non credeva a ciò che aveva detto, che erano tutte bugie, ma... come avrebbe potuto. Solo pochi giorni prima aveva scoperto quante menzogne erano in grado di raccontare i suoi genitori.
    Lei era una Guerriera. Era stata scelta dal Galaxy Couldron per proteggere la Terra e invece le avevano tolto anche questo. Il suo futuro, la sua possibilità di diventare qualcuno che non fosse solo "la Kaiserina". “Stai mentendo... anche tu ti stai prendendo gioco di me. Perché?! Dimmi qualcosa che sia vero...” glielo disse con voce rotta da singhiozzi muti e senza lacrime. Lo afferrò dal bavero del giaccone e lo scrollò senza smuoverlo.
    Jacob la strinse per le spalle e poi la avvolse in un abbraccio che la schiacciò contro di sé. Percepiva il suo busto sussultare, il volto premuto contro il suo torace, consapevole che anche il suo cuore la stava assordando. Non era bravo a gestire il dolore altrui, in realtà non era in grado di farlo neppure con il proprio, ma questo non era importante. Ciò nonostante, Jake non faticava a riconoscerlo quando lo vedeva. Moira ne era sopraffatta, ecco il vero motivo per cui l’aveva chiamato. Poteva davvero essere lui la sua ultima spiaggia? Era messa così male?
    “Io non mento mai, piccola, tranne quando gioco a poker, ma questo non conta” le rispose, mentre la teneva stretta. “Ed è chiaro che non lo sapevi… ciò non toglie che sia la realtà. Però, ti dirò anche un’altra cosa vera: voglio stare con te, ok? Non so come, non so quando, non so nemmeno il perché a dirla tutta, ma non voglio che tutto questo finisca. Quindi, troviamo una soluzione.” Jacob la sentì irrigidirsi e questa volta si trovò a sperare che non scappasse via, di solito era lui quello che se la dava a gambe, non avrebbe saputo come reagire.
    Moira, ferma tra le sue braccia forti, ancorata al suo petto ampio e accogliente, sentì che poteva finalmente sfogare tutta la sua frustrazione. Questa volta, però, non usò Jacob al pari di un sacco da boxe, come era solita fare per scaricare i nervi, ma ebbe una reazione totalmente fuori controllo: pianse! Lasciò andare le lacrime che aveva respinto, che aveva incatenato al di là delle ciglia, e si sciolse come una diga quando si rompe e lascia libero il fiume.
    Odiava tutto e tutti. La sua famiglia bugiarda, la sua natura che la rendeva nemica dell'uomo che la stava... consolando?
    Stringeva forte il tessuto del giaccone e la sua fronte era appoggiata al torace di Jacob. Voleva nascondergli il volto, ma dopo un tempo che le parve infinito si calmò, e provò guardarlo. Aveva preso atto della sua dichiarazione. Le aveva detto che voleva stare con lei. Ma come?
    “Sai meglio di me che tutto questo è assurdo” gli disse con aria rassegnata. “Come potremmo stare insieme? Siamo parte di due mondi lontani, avversi... e dopo quello che mio padre vi ha fatto, io...” non riuscì a finire la frase, tanta era la delusione e la rabbia. Poi, lo osservò dritto negli occhi e ci si perse dentro. Era tanto sicuro, la sua voce possente... diceva sul serio. E lei... beh, lei non si sarebbe tirata indietro. “Va bene... voglio provarci. Siamo due pazzi scatenati, ma è questo che ci ha attirati come una calamita al metallo, no?” gli cinse la vita con le braccia. Era troppo piccolina per avvolgerlo completamente, ma ci provò lo stesso. “Adesso però, basta arrovellarci. Abbracciami e basta...”
    Jacob sentì il suo corpo minuto ma ben allenato sotto le mani, fece come gli ordinava ma non perché fossero di nuovo aguzzina e prigioniero, ma solo perché gli andava di farlo, sentiva che male non le avrebbe fatto e chissà, magari in qualche strano modo contorto, sarebbe davvero riuscito a consolarla.


    Edited by KillerCreed - 1/3/2021, 00:54
     
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    Evie Frye camminava avanti e indietro, piantonando l'entrata del locale di suo fratello. Quella sera aveva chiuso fin troppo presto e la notizia aveva fatto scalpore, giungendo alle sue orecchie.
    Evie si era allarmata, perché Jacob non rinunciava mai a una bella bevuta post chiusura, visto che non poteva toccare nemmeno un goccio durante il servizio. Addirittura si organizzava con Arno ed Edward, si chiudeva all'interno e non ne usciva fino all'alba.
    Si era insospettita e, recandosi da lui, aveva scorto la sua ombra allontanarsi verso le mura, quindi lo aveva seguito. Una volta raggiunto il portone principale, aveva incontrato Arno Dorian, il quale le era venuto in contro. Gli aveva chiesto se avesse visto Jake, ma lui aveva negato. Non aveva insistito, ma era certa che lo stesse coprendo e che lo avesse incontrato eccome. Arno non era un tipo che raccontava frottole, né tanto meno un esperto di conversazione, per questo era chiaro come il sole che l'avesse intrattenuta con delle stupide chiacchiere sul tempo e sulla splendida notte di luna piena, solo per distrarla e consentire a suo fratello di svignarsela chissà dove, di sicuro al di fuori della città.
    Dorian era molto intelligente e quando aveva capito che non sarebbe più riuscito a tirarla ancora troppo per le lunghe, si era defilato con la sua solita galanteria e il suo innato charme.
    Evie non aveva neppure tentato di attraversare l'enorme portone e affrontare le sentinelle con la loro prassi di controlli e di domande, dunque, rassegnata ma non meno agguerrita, era rientrata e si era piazzata davanti al pub. Era certa che da lì sarebbe passato Jake prima di andare a dormire. Rifletteva frenetica, mentre creava un solco sull'acciottolato sconnesso.
    "Dove si sarà andato a cacciare? Si starà mettendo certamente in qualche guaio. Lui è una calamita per i guai e quando arrivano sono sempre giganteschi. Ah, ma quando arriva mi sente. Gli farò una lavata di capo che se la ricorderà a vita. Avrà trovato forse qualche passatempo? Una ragazza di certo..."
    La sua mente era un fiume in piena, impossibile da arginare. Era sempre stata tanto apprensiva nei confronti del suo gemello. Ma perché doveva darle sempre così tanti pensieri? Mai una volta che se ne fosse stato buono buono, senza combinare danni, che poi lei avrebbe dovuto riparare.
    Le sue elucubrazioni furono interrotte da uno scalpiccio di passi, che la misero in allarme. Era davvero molto tardi e ormai non c'era più nessuno in giro.
    Quando dietro l'angolo di un edificio vide spuntare Jacob, fu invasa da due sensazioni contrastanti, da un lato la furia cieca e dall'altro un caldo sollievo per vederlo di ritorno sano e salvo. Non appena giunse davanti al suo locale, Jake alzò lo sguardo e si ritrovò quello infuocato della sorella a fissarlo.
    “Bentornato, fratellino…” La sua voce voleva essere ironica, ma era venuta fuori più secca di quanto avrebbe desiderato.
    “Buonasera sorellina, ti va un drink?” Jacob non aveva alcuna voglia di bere, né di tenere compagnia alla sorella che – dal suo sguardo eloquente – era in vena dell’ennesima ramanzina. Aprì il locale e le fece cenno di entrare prima che qualche avventore più mattiniero che notturno decidesse di fare una capatina fuori orario. Una volta dentro, accese solo le luci sopra il bancone di legno, ma si intravedeva chiaramente l’arredamento vintage che richiamava un perfetto irish pub. Andò verso gli scaffali, si munì di due bicchieri adeguati e qualche minuto dopo servì alla sorella il suo solito vodka-lemon e per sé una dose generosa di whiskey irlandese.
    Evie rimase in silenzio finché Jacob non finì il rito di servire i loro drink. Non aveva fretta, sebbene una certa ansia le si agitava nel petto. Così, seduti al bancone, uno di fronte all'altra si fronteggiarono.
    “Potresti dirmi dove sei sparito in mezzo alla notte e dopo il coprifuoco?” chiese, mantenendosi calma.
    Jacob sospirò, ecco che si arrivava al nocciolo della questione, senza fronzoli, in fondo si trattava di Evie Frye. “Sorellina, mi spieghi perché dovrei dirti cosa faccio e dove vado? Ho passato la maggiore età da moltissimo tempo ormai…” Era certo che non avrebbe gradito la sua risposta ironica, ma era veramente stufo di quei continui interrogatori. Da quando erano usciti dall’Abstergo era diventata ancora più apprensiva, in maniera inversamente proporzionale al suo bisogno di libertà.
    Evie sbuffò rassegnata. “Non mi aspettavo risposta differente. Io non so perché mi ostino a tentare di tenerti sulla retta via quando so perfettamente che tu, di tua spontanea volontà, ti andrai a buttare dritto in un burrone. Lo so, me lo sento dentro e alla stessa maniera mi sento inutile.” Una punta di esasperazione colorò le sue parole, ma non voleva arrendersi all'idea di abbandonare suo fratello, solo perché era il solito combinaguai. “Ascoltami, Jacob. Sono consapevole che non mi sopporti quando ti controllo, ma non credere che io lo faccia per piacere o per torturarti. Sono preoccupata per te e vorrei solo che non ti facessi del male. Parla con me... ” Intuiva che da tempo c'era qualcosa che lo tormentava, qualche pensiero balzano, ma era ovvio che non gliene avesse mai parlato e che lui tentasse di mascherarlo con il suo solito atteggiamento da cazzone, ma lei lo conosceva troppo bene.
    Il fratello buttò giù ciò che restava del suo bicchiere in un sol sorso, appoggiandolo poi con forza sulla superficie del bancone. Si sporse verso Evie col busto, così da esserle il più vicino possibile prima di rispondere. “Sei la mia famiglia, ti voglio un bene dell’anima, vivere di nuovo con te in un posto che possiamo chiamare casa mi manda sulla luna… ma quell’anno rinchiuso, il costante terrore di perdere qualcuno a cui tenevo, le ingiustizie a cui abbiamo dovuto assistere… mi hanno fatto comprendere quanto abbia bisogno di sentirmi libero. Anche solo una passeggiata fuori di qui, sotto le stelle, senza pensare al coprifuoco o ai miei doveri di Assassino, ecco, mi danno l’ossigeno che mi serve.” Omise tutta la parte sulla necessità di spaccare qualche faccia, ma non era il momento per sottolinearlo.
    Evie non si allontanò e sostenne lo sguardo ardente del fratello. Era chiaro che la prigionia aveva lasciato segni profondi su tutti loro. Lei non ne era stata immune, ma era brava a mascherare i suoi lievi attacchi di panico nel trovarsi in posti all'aperto, e circondata da numerose persone. Non ne aveva parlato con nessuno e non avrebbe mai voluto far preoccupare proprio lui. Ma quello era un fatto, una reale conseguenza delle pressioni psicologiche e fisiche che avevano subito nell'Abstergo.
    “Ti capisco, fratello, tutti noi abbiamo i nostri fantasmi da superare e le nostre ferite da curare, solo vorrei che non ti cacciassi in qualche guaio. Uscire dopo il coprifuoco dalle mura di Monteriggioni non è sicuro. Non avresti nessuno ad aiutarti se venissi attaccato. Il mondo là fuori è cambiato tanto. Non è la Londra che conoscevano in ogni via, ponte e anfratto.”
    “Ne sono consapevole, ma converrai con me che sono perfettamente in grado di badare a me stesso. Sono centinaia di anni che lo faccio, nonostante tu continui a vedermi come un fottuto poppante… E non storcere il naso, dovresti provare anche tu a dirla qualche parolaccia, forse ti ammorbidiresti un pochino!” Jacob amava stuzzicarla e quei loro battibecchi – ormai da tempo immemore – era il loro personale modo di dirsi “ti voglio bene”. “Piuttosto, sorellina, ci sarebbe un altro modo per toglierti una buona dose di stress dal corpo… non hai incontrato nessuno in questo posto che ti infiammi un pochino?” Jacob le fece un occhiolino, mentre si versava un altro po’ di whiskey.
    “Ma cosa ci posso fare io se non perdi occasione di comportarti da 'fottuto poppante'? Oh, hai visto che ho detto una parolaccia?!” Evie si fece contagiare dall'ironia del fratello. Era di nuovo lì, con il suo sarcasmo tagliente per sviare l'attenzione da qualcosa di importante e le loro conversazioni finivano in tragedia, per lei ovviamente, che si trovava vittima delle sue dannate frecciatine.
    “In quanto allo stress, sappi che tu sei la causa principale del mio e no, nessuno è in grado di 'infiammarmi' come dici tu. Io ho troppo da fare con la scuola e i bambini, e anche troppo esigente, mi sa. Invece, mi pare di capire che tu non ti faccia mancare nulla...” disse indicando con una mano intorno a sé, il pub. Lo avrebbe volentieri strangolato. Lo odiava quando metteva in mezzo la sua vita amorosa, o meglio la sua vita sessuale. Per Jacob non c'era differenza.
    “Credimi, non sono gli impegni a tenerti lontana da certe cose, soprattutto le più piacevoli… Ti ostini a idealizzare il tuo defunto marito, non credo che debba ricordarti che sono passati secoli da quando la morte se l’è preso. Devi rifarti una vita e te lo dico non solo perché così forse mi lascerai un po’ in pace – sì, in effetti è gran parte della ragione per cui lo dico, ma sono dettagli – ma anche perché hai avuto la fortuna di restare giovane e bella… è un vero spreco!” Jake la fissò negli occhi, dietro alle sue parole in apparenza sempre scanzonate si celava una preoccupazione inversa. Erano gemelli loro due, eppure avevano caratteri così opposti da sembrare provenire da mondi totalmente diversi. In ogni caso, il desiderio di protezione era reciproco, anche se ognuno lo dimostrava a suo modo.
    Evie sgranò gli occhi. Avrebbe dovuto essere abituata alla schiettezza del fratello, ma ogni volta ne rimaneva schiacciata. Doveva ammettere che da molto tempo non si concedeva una storia d'amore con tutti i crismi, si era solo abbandonata a stupide infatuazioni, che non avevano mai portato a nulla di concreto. Neppure lei ne conosceva il motivo, però, alla fine, ne usciva sempre profondamente insoddisfatta.
    “La tua preoccupazione mi commuove, caro fratello. In mia difesa, devo dire che ho avuto altri uomini dopo Henry, ma nessuno mai ha avuto la capacità di rubarmi il cuore. Io non sono come te, Jacob. Non mi abbandono al semplice piacere carnale, per me una relazione deve essere molto di più. È anche qualcosa di mentale e di intenso per emozioni. Non mi aspetto che tu capisca, ovvio...” Non poteva pretendere che Jake, il suo adorato e scapestrato Jake, potesse comprendere le sue sensazioni e come aveva deciso di vivere la sua vita, ma ci aveva provato a spiegarlo. Anche se si sentiva strana a parlare con lui di certe cose...
    “Ecco, vedi? Cosa ci voleva a mettere tutto sul piatto? Non ti devi scandalizzare a parlare con me di queste cose, sono naturali…” Lo sguardo birichino che le rivolse era stato invece scoccato per metterla ancora più a disagio, sfruttando il suo tasto debole. Ma Jacob tenne quell’atteggiamento per pochi attimi, prima di scoppiare in una risatina. “Sì, in effetti, ammetto che è parecchio strano immaginarti in certe situazioni…” Un schiaffo indispettito sul braccio lo fece tacere, ma già lui aveva esibito una smorfia un po’ disgustata. Naaah, non era il caso di continuare su quella strada. Evie gli aveva fatto da mamma, da sorella, da amica, da nonna, da zia, da prozia… insomma, era la sua unica famiglia e se le consigliava di lasciarsi un po’ andare era solo perché voleva vederla felice. “Promettimi una cosa, però. Semmai dovessi incontrare un uomo capace di rapire anche il tuo cervello, oltre ad altre parti, non tirarti indietro… provaci e basta, ok?”
    Evie lo aveva colpito senza molti riguardi. Non poteva tollerare oltre le sue battute grottesche. Per fortuna, alla fine, aveva ritrovato un minimo di serietà, rara e pellegrina.
    “Non credo di essere tanto disperata da dover accettare dei consigli amorosi proprio da te, ma apprezzo il pensiero. Io te lo prometto, ma anche tu devi farmi una promessa, solenne per giunta.” Fece una pausa ad effetto, per tenerlo ancora un po' sulle spine. “Che anche tu, quando finalmente incontrerai una ragazza che ti farà sentire qualcosa che non sia solo fisico, non te la farai scappare.” Evie si augurava con tutto il cuore che ciò potesse avvenire presto, così che suo fratello avrebbe magari potuto mettere la testa a posto e comprendere davvero cosa significava amare.
    Jacob si esibì in un’altra smorfia, a metà tra lo scettico e il pensieroso. Rifletteva su cosa aveva provato poche ore prima, mentre teneva Moira tra le braccia – senza baciarla, toccarla, provocarla – sentendo le sue lacrime contro la camicia scura. Non sapeva se fosse davvero una buona idea farlo: pensare non gli veniva mai molto bene, anzi, quando lo faceva si perdeva in meandri che non gli piacevano affatto. Tuttavia, anche se non sapeva dare un nome a ciò che gli si agitava dentro, la risposta che diede alla sorella era sincera. “Te lo prometto, sis.”
    Poi, versò altri due drink e vece tintinnare i bicchieri, lasciando che il suono riverberasse all’infinito come a suggellare il giuramento tra fratelli, per loro sacro.
     
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    Roberta
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    Il viaggio di ritorno dalla Luna lo aveva passato in silenzio, a rimuginare, ad arrovellarsi sul dialogo avvenuto con Athena. Sebbene avesse affrontato una riunione molto importante per decidere le sorti del suo pianeta e del suo ruolo come Giudice Supremo, l'unica cosa che le martellava in testa era il suo voler essere una moglie e una madre.
    Per anni le avevano impedito di crearsi una famiglia sua, di donare amore a un uomo e a un figlio, e quando tutto questo era avvenuto per caso, era accaduto l'irreparabile, un disastro epocale che aveva finito per mettere in pericolo le persone che più amava al mondo.
    Adesso questo incubo era finito, non avrebbe più dovuto subire gli oneri che il ruolo di Giudice le aveva sempre imposto. E così avrebbe potuto continuare a vivere al fianco di Edward senza più sotterfugi, né bugie, ma alla meravigliosa e splendente luce del sole. Adesso, però, avrebbe potuto fare un'altra cosa che le era divenuta indispensabile come respirare. Non poteva attendere oltre.
    […]
    Nike camminava rapida, quasi avesse le ali ai piedi. Portava con sé una notizia meravigliosa, che avrebbe fatto felice il suo amato Edward.
    Si stava dirigendo verso il suo luogo di lavoro. L'hangar dove tenevano tutti i mezzi in riparazione e quelli in manutenzione, si trovava appena fuori le mura, perfettamente occultato da una fitta e variegata vegetazione, ma lei sapeva come arrivarci.
    Sapeva anche che vi sarebbero state delle sentinelle nascoste tanto quanto la struttura e che al suo arrivo, sarebbero sbucate dal nulla per attenderla.
    Giunta davanti a quello che rappresentava l'ingresso, seppur invisibile, due uomini si fecero avanti. La salutarono con riverenza e la fecero entrare, facendo scattare un meccanismo complesso, ma silenzioso come un’ombra che vaga nella notte. Era conosciuta come la moglie dell'Assassino Edward Kenway e le porte erano sempre aperte per lei, sebbene fosse andata ben di rado a trovarlo durante le ore di lavoro, preferiva aspettarlo in casa per viversi quanto meglio potevano la loro quotidianità.
    Poco dopo, si trovò all'interno. Un enorme grotta, scavata nella montagna era tenuta stabilmente da un’impalcatura di metallo, che a mo' di rete tratteneva la parete rocciosa che circondava l'intero ambiente. Non si era mai soffermata su come facessero entrare o uscire i mezzi e le navicelle che riparavano, e in quel momento, era interessata ancora meno.
    Intercettò un ragazzo vestito con una tuta da meccanico blu, che si affrettava a raggiungere qualcuno. Chiese di Edward e questi scattò subito sull'attenti, riconoscendola.
    Come sempre accadeva, suo marito non si trovava negli uffici, ma in mezzo ai motori e ai suoi uomini.
    Lo scorse in tutta la sua prestanza, circondato da un nugolo di meccanici, a confabulare sulla riparazione di chissà quale pezzo.
    Lui, come se avesse percepito la presenza di Nike, senza che si fosse annunciata, alzò lo sguardo e lo inchiodò nel suo.
    Ogni volta che incontrava i suoi occhi di mare, perdeva un battito.
    Edward spostò l'attenzione dal pezzo che stava tentando di riparare, pur avendo scarse risorse a disposizione. I ricambi erano merce molto rara, e ogni volta doveva ingegnarsi per trovare il modo di rendere nuovamente operativi i mezzi, fondamentali per le loro missioni e per le attività di Monteriggioni. Incontrando lo sguardo splendido di Nike, dimenticò all'istante il dilemma che aveva per le mani e le andò incontro. Era via da qualche giorno per un incarico istituzionale, e gli era mancata profondamente. Lei aveva qualcosa di importante da dirgli, in caso contrario, avrebbe atteso la sera, quando entrambi tornavano nella piccola casa che avevano scelto all'interno del borgo.
    Nike non era affatto il tipo che si lasciava andare alle effusioni in pubblico, ma avrebbe voluto stringerlo a sé con forza, tanta era la felicità che provava.
    Si limitò a prendergli le mani tra le sue.
    "Edward, vengo direttamente dalla riunione che si è tenuta sulla Luna con le Guerriere ed Edymion, il Cancelliere della nuova Repubblica. Ho delle novità importanti, vitali oserei dire." La voce le tremò un po' sul finale per l'emozione.
    Edward inspirò con forza l'aria tra i denti. Dovevano per forza essere buone notizie, considerando la gioia che lei non tentava in alcun modo di nascondere, eppure stentava a fidarsi della buona sorte che una volta faceva parte integrante della temerarietà con cui agiva. Le cose, ultimamente, non erano poi state così positive, e la prigionia prolungata, la lontananza da lei, lo avevano lasciato con una sensazione di apprensione continua, che spesso sfogava in attacchi di rabbia improvvisi.
    La baciò velocemente, con un senso di possesso che non riusciva a frenare, e poi insieme uscirono dall'officina. I dintorni erano tranquilli, e lui sapeva dove trovare un posto in cui parlare senza essere disturbati.
    Nike si fece guidare dal suo Edward. Lo vedeva sempre così rigido, così malinconico. Da quando si erano ritrovati avevano faticato molto a ritrovare un po' di serenità, l'ombra dell'Abstergo pesava ancora su di lui e la prolungata e forzata assenza su di lei.
    Ma adesso era diverso, Nike avrebbe inserito un cambio di rotta nella loro vita, che avrebbe solo potuto condurli verso la felicità.
    Si inoltrarono in una piccola radura, non era molto lontana dall'hangar, ma era appartata e protetta. Era il loro posto, quando volevano godersi uno scorcio di tranquillità. Si sedettero su un tronco rovesciato, che usavamo a mo' di panca.
    Nike non aveva lasciato neppure per un secondo la mano di Edward e una volta vicini, se la strinse ancora di più in grembo.
    "So che nell'ultimo periodo ne abbiamo passate tante, amore mio. Ma ti porto una splendida notizia che cambierà le nostre vite per sempre." Dopo una piccola pausa, e affrontando l'ostinato silenzio del suo uomo, continuò: "Non sono più il Giudice Supremo di Giove. Ho abdicato in favore di una persona di mia fiducia." Ecco, aveva sganciato la bomba. Restò in attesa di una qualsiasi reazione.
    Edward si era seduto, spalla contro spalla con sua moglie. Era incredibile quanto, pur essendo tali da diversi secoli, i momenti in cui avevano davvero potuto viversi come una coppia erano stati esigui, a causa di tutti gli ostacoli che si presentavano con un susseguirsi quasi incredibile di difficoltà. “Così quei sacerdoti maledetti finiranno di condizionare la nostra esistenza? E potrai rimanere qui, con me, sulla Terra?” Si portò una mano al volto, strofinando il mento, la bocca, la mandibola. Poi il suo sguardo si perse nel vuoto, i gomiti appoggiati sulle ginocchia. Lentamente, un sorriso perfido spuntò sul viso. “Andrei subito su Giove per tirargli il collo. Dopo tutto quello che abbiamo sofferto a causa loro e della loro meschinità...” Guardò la sua amata. “Che cosa significherà per noi tutto questo, per la nostra... famiglia?”
    Nike lo osservò con una dolcezza infinita negli occhi. L'irrequietezza che lo caratterizzava stava esplodendo nei suoi movimenti. Stava tentando di metabolizzare quell'informazione tanto grande quanto l'universo.
    "I Sacerdoti non avranno più alcun potere su di me e su di noi. Adesso sono solo la Guerriera di Giove e dovrò assolvere ai compiti che mi legano alla nuova Repubblica e alle mie compagne. Sì. potremo vivere insieme, qui sulla Terra, e mi potrei spostare sulla Luna in caso di necessità." Gli accarezzò la guancia ricoperta da un sottile strato di barba. Lo amava con tutta se stessa. "Potremo continuare la nostra esistenza come marito e moglie, senza più nasconderci, senza più il timore di essere scoperti e di subire delle ripercussioni. So che tu avresti agito molto prima, facendo fuori i Sacerdoti, fonte di ogni male, ma non avremmo risolto nulla, se non peggiorato ancora di più la situazione." Gli posò un bacio sulla guancia e gli parlò nell'orecchio a voce bassa, quasi volesse rivelare un segreto. "Potremo anche recuperare nostro figlio, Edward. Possiamo dire tutta la verità..." Pensare a Haytham le procurò una forte fitta al petto.
    Le labbra di Nike ad un soffio dalla sua pelle gli procurarono brividi eccitanti lungo la spina dorsale. Accantonò di malavoglia i desideri che si risvegliarono, perché altri pensieri richiedevano la sua attenzione, urgentemente. Il primo di questi era l'immenso fallimento legato a suo figlio. Al solo ricordo di quanto era avvenuto, una morsa di acciaio gli stritolò lo stomaco. “Già... già... parlargli, raccontargli quanto è davvero accaduto, sempre che lo voglia ascoltare...” Rifletté qualche istante. “Dovrebbe trovarsi qui sulla Terra, dopo il voltafaccia che hanno fatto i Templari, ma dove?”
    "Nessun sa dove si trovi il Quartier Generale dei Templari, qui sulla Terra, e credo che a buon ragione lo tengano ben nascosto. Magari potremmo iniziare a cercare dal luogo in cui viveva prima di arrivare sulla Luna. Credo sia negli Stati Uniti d'America." Il solo pensiero di avere di nuovo di fronte suo figlio la riempiva di sentimenti contrastanti: senso di libertà, gioia, paura, dubbio.
    “Sì, hai ragione, cominceremo da lì... magari Connor potrà esserci d'aiuto...” Si sfregò le mani sulle cosce, accorgendosi solo ora di quanto erano macchiate di grasso e sporco“Non so come potrebbe reagire alla nostra vista... sa essere davvero una testa dura, come tutti i Kenway...”
    "Pensi davvero che Connor possa sapere qualcosa di Haytham? Per quanto ne so, non scorre buon sangue tra i due." Poi fece una pausa. "Anche io mi sono chiesta un milione di volte, mentre venivo qui da te, quale potesse essere la sua reazione. Credi che ci rifiuterà? Ci lascerà parlare? Ci darà l'occasione di spiegare?" Osservò Edward con attenzione. Lo vedeva a disagio, nervoso, quando invece aveva sperato di scorgere in lui la sua stessa gioia.
    L'uomo sbuffò, non tanto per negare quanto detto da Nike, ma per buttare fuori il disagio e la colpevolezza che provava. L'irruenza gli era costata moltissimo, quella volta. “Ti sei mai domandata, in questi anni, perché non mi abbia cercato? Haytham crede che sua madre sia morta durante un attacco nemico ma non può aver dubbi sulla mia identità, no?” Il silenzio al termine sembrò pesare più del normale. O era solo una sensazione di Edward?
    Nike gli piantò il suo sguardo liquido addosso. Aveva ragione. Si era sempre chiesta il motivo per il quale Haytham non avesse mai indagato sul conto di Edward avendo il medesimo cognome, ma in quel caso, aveva preferito soprassedere e non scoperchiare argomenti spinosi, che avrebbero potuto rivelare una verità ancora più grande.
    "Sì, me lo sono chiesta, ma con il fatto che tu poi ti sei allontanato per andare sulla Terra, e le vostre strade si sono divise, non ho approfondito la questione. Con questa domanda mi vuoi dire che tu hai una risposta?" Nike tremava dentro, con il timore che il suo amato le avesse nascosto qualcosa di molto importante.
    “Credi che me ne sarei davvero stato buono solo perché un qualsiasi “nessuno” era venuto a intimidirci?” Mantenne lo sguardo fisso in quello di lei. Aveva evitato di raccontarle la verità per non darle un dispiacere, non perché avesse di che vergognarsi. Era suo figlio. “E i Sacerdoti, come potevano impedirmelo?” Una nuova pausa, più lunga. Avrebbe preferito che Nike dicesse qualcosa, mentre invece le sue labbra erano chiuse ermetiche. “Appena recuperai la memoria e tornai sulla Terra, per riprendere il mio posto tra gli Assassini... trovai il modo di andarlo a cercare. Non fu una rimpatriata molto commovente, purtroppo...”
    Avrebbe dovuto immaginare che Edward non avrebbe accettato di buon grado il ricatto che avevano subìto... ma addirittura che le avesse taciuto un simile evento, la feriva profondamente.
    Serrò gli occhi per tentare di metabolizzare la notizia. Edward aveva incontrato Haytham, ci aveva parlato, e lei non ne aveva saputo niente. Fece un respiro profondo per mantenere una calma che anelava a ogni costo.
    "Io... io dovuto vedere nostro figlio da lontano, al pari di un'estranea, ho seguito le sue azioni e le sue gesta come capo dei Templari dell'Impero, l'ho quasi spiato, come una ladra che adocchia il suo bramato bottino. Ho dovuto cedere a un vile ricatto e mi sono logorata l'anima e il cuore per non reagire. Tu... lo hai incontrato, sei andato da lui senza dirmi nulla." Fece una pausa. Stava sfogando tutto il dolore che stava provando, per non aver potuto partecipare alla vita di suo figlio e il fatto che Edward le avesse taciuto qualcosa di tanto importante, ingigantiva la sua sofferenza, anche se in maniera del tutto irrazionale, sentiva sotto pelle di essere stata tradita.
    Edward girò il busto verso di lei. Con precauzione la abbracciò, senza stringerla, nel caso lei avesse voluto respingerlo. Ora si sentiva contrariato dal silenzio che aveva mantenuto. Temeva che si sarebbe arrabbiata, ma c'erano sempre state poche alternative. Nike era praticamente sorvegliata e sottoposta a rigidi regolamenti quando era su Giove, lo aveva potuto vedere lui in prima persona. “L'ho fatto per noi. Non ti ho avvisata perché non volevo darti delle speranze, e dopo... a cosa sarebbe servito?”
    Nike non si sottrasse all'abbraccio del suo amato. Per quanto la sua menzogna la stesse lacerando, temeva che se si fosse allontanata da lui, sarebbe crollata lì, in mezzo al nulla.
    "Posso comprendere i motivi che ti hanno spinto a mentirmi, ma fa dannatamente male lo stesso." Appoggiò il capo nell'incavo del collo di Edward e lui la strinse a sé, senza più remore. "Cosa è successo, Edward? Cosa vi siete detti?" Sapere di loro, del loro incontro forse l'avrebbe aiutata a comprendere, strapparsi di dosso la sensazione di vuoto che sentiva in mezzo al petto.
    Edward sospirò pesantemente. “Non è andata bene, te l'ho detto. Io l'ho affrontato senza dargli il tempo di abituarsi alla notizia che aveva ancora un padre.” Baciò i capelli di Nike per prendere tempo per riflettere. Rievocare momenti dolorosi non era facile, e sapere che con quelli feriva lei era ancora peggio. “Ero appena tornato alla mia vita precedente, e non andavo troppo per il sottile nelle decisioni o nelle discussioni, lo ricorderai...” Nike annuì contro la sua spalla. Lui cercò di rilassare le braccia, la schiena, che erano rigide dalla tensione. “Beh, fatto sta che invece di abbracciarci come nella fiaba del figliol prodigo, gli animi si sono velocemente riscaldati, o almeno il mio...”
    "Gli hai detto di essere suo padre, che era stato Birch a ucciderti e a portarti via da lui... e Haytham ha reagito male? Cosa gli hai detto di tanto grave per ottenere un rifiuto?" Era allibita. Aveva immaginato migliaia di volte il momento in cui si sarebbero rivelati al figlio, confessando tutti i soprusi subiti a causa dei Sacerdoti, ma anche il vile tradimento di Birch, che nell'ombra aveva tramato per liberarsi di Edward. E cosa ne aveva ricavato? Doveva sapere.
    “Non gli ho detto niente di tutto questo, okay?” Edward rispose in malo modo, nella voce una collera che gli arrochiva il tono. “Non ne ho avuto il tempo! Ero arrabbiato con il mondo, con i Sacerdoti, con la vita, con la consapevolezza che avevo perso del gran tempo e non mi sarei più potuto vendicare di Birch, a quel punto!” Strinse le mani che ancora abbracciavano Nike, affondandole nel tessuto dei suoi abiti. “Me la sono presa con lui, con Haytham... era diventato un Templare, dannazione!”
    Nike rimase di sasso e si allontanò rigidamente da lui per guardarlo negli occhi. Gli prese il volto tra le mani.
    "Edward, mio testardo e impulsivo Edward. Sei morto, abbandonando Haytham al suo destino; ti ho riportato alla vita, hai perso la memoria, hai sofferto moltissimo per recuperarla, per ricordare la nostra vita insieme, nostro figlio. Perché non gliene hai parlato? Come poteva essere più importante la fazione a cui appartiene, rispetto al fatto che è la tua unica progenie. Sangue del tuo sangue?" Fece una pausa. Cercava di immedesimarsi in lui, nelle decisioni insensate per trovarvi un senso. "I Templari ti hanno tolto tutto, è vero... ti capisco... ma Haytham è nostro figlio." La disperazione traspariva da ogni singola parola e dalla leggera pressione che esercitava sul viso di Edward.
    Le prese le mani e le abbassò con decisione. I suoi occhi erano rabbiosi. “Stesse osservazioni che potrei fare anche io, no? Suo padre torna dal mondo dei morti e invece di voler scoprire cosa è veramente successo quando lui era ancora in fasce, pensa bene di rifiutare ogni confronto e decide di chiudersi nei suoi dogmi esecrabili.” La sua espressione era una smorfia di ostilità. “Non stai parlando di un bambino, Nike! Lui è un uomo, non il piccolino che hai abbandonato per non farlo uccidere dai nostri nemici!”
    Nike ricacciò indietro le lacrime che rischiavano di farle perdere il controllo già precario sulle sue emozioni.
    "Hai ragione... parlo di lui come se fosse ancora il bimbo che ho tenuto tra le mie braccia per nutrirlo. E invece... sono passati secoli..." La sua voce si spezzò irrimediabilmente. Temeva di non poter proseguire, ma si sforzò. "Mi sono persa la sua intera vita, la mia coscienza di madre mi rimorde dentro e mi accusa di non aver fatto abbastanza! È per questo che non riesco a comprendere, ma ci proverò. Avete le vostre differenze, dogmi sacri legati al vostro Credo, ma non possiamo metterli da parte solo per un momento? Dobbiamo incontrarlo... avere l'occasione di dirgli che anche sua madre è viva e che suo padre ha rischiato e perso tutto per lui... Lui deve sapere e avere la libera opportunità di scegliere cosa pensare e come reagire. La questione Assassini e Templari, la potremo discutere in seguito." Disse accorata, con la speranza che Edward potesse accogliere la sua richiesta. "Ti prego..." Mormorò esasperata, di fronte al silenzio testardo del suo amato.
    Edward serrò la mandibola fino a farsi dolere i denti. Il tormento di Nike era il suo. Per alleggerire la stessa sofferenza aveva fatto irruzione nella vita di suo figlio chiedendogli di rinunciare a tutto per la loro felicità. Aveva ben poche speranze da puntare su un nuovo incontro, anche se questa volta poteva contare sulla ponderazione e l'obiettività della sua amata. Fece un cenno con la testa, un mezzo assenso. “Questa volta avremo nuove possibilità. Non chiedo altro che di poter rivendicare una relazione che desidero fortemente e che in molti si sono messi d'impegno per negarmela. Farò delle ricerche per rintracciarlo, e appena saprò andremo da lui.” Le accarezzò il viso, asciugandole una lacrima minuscola che stava scivolando sullo zigomo. “Non posso prometterti altro, però...”
    Nike gli lanciò le braccia al collo in un ultimo sfogo di sollievo. Aveva temuto per un piccolo istante che Edward le avrebbe opposto un rifiuto, ma non era accaduto.
    "Sapevo dentro al mio cuore che non mi avresti ostacolata. Anche tu desideri ritrovare nostro figlio e tentare di recuperare un rapporto, qualsiasi esso sarà. Deve sapere che i suoi genitori hanno lottato con le unghie e con i denti per poterlo tenere al sicuro e che finalmente oggi, la minaccia è cessata! Non mi importa di come reagirà, ma non potrei continuare a vivere come se nulla fosse accaduto un giorno di più."
    Aveva detto queste parole, immersa nel profumo di sandalo e patchouli, l’essenza rassicurante che li aveva accompagnati fin dal loro primo incontro, impossibile da dimenticare. Poi si slacciò dal suo collo e lo guardò intensamente.
    "Attenderò con ansia l'esito delle tue ricerche così potrò far riposare il mio cuore in pace e potremo finalmente vivere le nostre vite per come abbiamo sempre desiderato. Insieme e liberi."
    Un caldo bacio unì le loro labbra a suggellamento di una promessa che non li avrebbe più allontanati l'uno dall'altro.


    Edited by SydneyD - 8/3/2021, 19:28
     
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    :Edward:
    Ancora contrariato per la discussione avuta con Nike, Edward si sentiva in dovere di mantenere l'unica promessa che le aveva fatto, e di farlo al più presto. Doveva trovare Haytham, il luogo in cui si era sistemato adesso che i Templari erano tornati ad infestare la Terra. Non che i Devianti fossero migliori, ma sapere che ora, in maniera diretta e indiscutibile, suo figlio fosse tra i nemici che dovevano combattere lo faceva stare male, un misto di dolore e di vergogna per il fatto stesso che, se se lo fosse trovato davanti durante una missione, non sapeva come avrebbe potuto reagire.
    Molto probabilmente, si sarebbe ripetuta la scelta che aveva già coinvolto il figlio di suo figlio, ovvero Connor. Quella di uccidere il padre, o di essere da lui ucciso. Un destino avverso e drammatico quello dei Kenway, in cui lui svolgeva certamente un ruolo da protagonista. La vita brutale che aveva condotto per anni, la scelta di votarsi ad un Credo che aveva in sé le medesime caratteristiche feroci e dannose, poteva essere solo il frutto di predisposizioni impresse nei geni che aveva trasmesso ai suoi eredi.
    Scosse la testa per scacciare pensieri troppo negativi e rifletté sul da farsi. Sapeva solo in maniera vaga quale fosse stata la vita di suo figlio prima di diventare un Templare al servizio dell'Impero Lunare, ma era facile stabilire chi poteva fornirgli quelle informazioni. Sarebbero servite a fissare il punto di partenza nel piano per mantenere la promessa: rintracciare Haytham, scoprire le sue abitudini, individuare il momento e il luogo più propizio per affrontarlo.
    Riuscì a trovare Connor solo a sera, quando lo vide rientrare dal portone della cinta muraria in abiti da lavoro. Il suo compito era di cacciare selvaggina per rimpinguare le scorte di carne per il nutrimento di tutti gli abitanti: portava sulla spalla alcune prede e sul viso un'espressione distaccata e fredda, il modo infallibile che usava per tenere tutti lontano. Questo aveva fatto sì che non si era mai instaurata tra nonno e nipote una benché minima confidenza; oltretutto, tale atteggiamento era stato respinto a chiare lettere da Connor stesso.
    “Una buona giornata di caccia, a quanto vedo!” Lo salutò Edward. Connor gli rispose con un cenno del capo. Non fece nulla per nascondere l'intenzione di proseguire per la sua strada, ma Edward ignorò tale desiderio, poggiandogli una mano sulla spalla.
    “Avrei bisogno di parlare con te, magari davanti a un buon rhum? O anche un'aranciata, se la preferisci!” Connor non sembrò apprezzare l'umorismo dell'altro. Edward fece un verso deluso.
    “Va bene, vorrà dire che berrò da solo, ma preferisco parlare con te in santa pace, se me lo permetterai, fratello.” Edward gli passò il braccio sulle spalle e lo condusse prontamente al pub gestito da Frye. Il locale era una tappa giornaliera fissa, e il suo compagno di sbornie riservava sempre un tavolo per lui, che lo aspettava fino alla chiusura per bere e blaterare insieme fino a tarda notte. Quando li vide entrare, Jacob corrugò la fronte, perplesso per lo strano assortimento dei nuovi arrivati.
    Con il suo sproloquiare, alla fine era riuscito a ammorbidire l'espressione ostinata di Connor. Si erano seduti al solito tavolo, al lato del bancone in legno scuro, lucidato in maniera maniacale dal suo proprietario, che si lamentava sempre di dover sgobbare quando gli altri se la spassavano, ma era orgoglioso del suo locale come un padre può esserlo del figlio.
    Quantomeno, per la maggior parte dei padri e dei figli, pensò Edward senza illusione.
    Osservò Connor. Sapeva che il discorso che stava per intavolare avrebbe fatto andare suo nipote su tutte le furie – Edward sogghignò tra sé e sé: nel caso di Connor, questo voleva dire che la bocca si sarebbe storta da un lato e le sopracciglia si sarebbero sollevate con piglio oltraggiato. Pazienza. Poteva sopportarlo. Aveva sopportato ben altro, per cercare di prendersi cura delle persone che amava, e spesso senza alcun successo in contropartita.
    “Come va la nuova vita? Mi pare che vi siate ambientati bene, tu, Athena e Chloe...” Connor annuì, con un sorriso infinitesimale.
    “E' una vita a misura di uomo, questa. Si seguono i ritmi della natura ed è più semplice rispettare anche le tradizioni che per molto tempo ho dovuto ignorare” L'uomo si guardò intorno, come a cercare il motivo per cui si trovava lì. Chiaramente non lo trovò, perché gli domandò subito dopo, con quieta curiosità: “Edward... volevi parlarmi di qualcosa di preciso?” L'ex pirata tamburellò per qualche secondo le dita sul dorso dell'altra mano, poi rispose di getto, nel classico atteggiamento di un giocatore incallito che scommette il tutto per tutto.
    “Voglio rintracciare Haytham. Ho bisogno di parlargli per tentare di riavvicinarmi a lui. Ma non so da dove iniziare a guardare, con tutto il mondo a disposizione. Forse tu... che lo hai conosciuto prima che diventasse un uomo dell'Impero, potresti darmi qualche indizio.”
    “Prima che lo uccidessi, intendevi dire?” Ecco la smorfia storta e lo sguardo sdegnato.
    “Esatto.” Connor si mosse con fastidio sulla sedia, lo sguardo concentrato un punto indefinito oltre la spalla di Edward.
    “Non mi sono mai pentito del mio gesto. Quell'uomo non merita alcuna fiducia, e sprecheresti solo tempo con lui.” Il tono piatto delle sue parole sottintendeva il disprezzo che il figlio provava tuttora per il padre.
    “Connor, non azzardarti a criticare le mie scelte. Io ho accettato le tue, per quanto non mi piaccia il fatto che non possa far parte della tua famiglia felice come dovrei, invece!” Edward gli rinfacciò la questione con ira, ma ottenne da Connor una reazione inesistente. Si squadrarono per qualche momento, uno con il fuoco negli occhi, l'altro con totale freddezza.
    “So che possedeva una casa a Boston, che aveva acquistato quando si era fatto strada nei ranghi dell'Ordine. Una volta ci incontrammo lì.” Per un attimo, i ricordi riuscirono a far filtrare qualche emozione sui lineamenti scuri dell'uomo. Ma non erano pensieri piacevoli, chiaramente. “Non so che cosa ne fu, o se è ancora esistente, ma ti posso fornire alcuni riferimenti per rintracciarla.” Gli fornì in modo succinto la posizione e la struttura dell'abitazione, poi si sporse in avanti, con l'intenzione di alzarsi e lasciare il locale. “E' tutto. Non voglio più parlare di quella persona, è chiaro?”
    Edward fece un cenno del capo per assentire, poi dedicò la sua attenzione al boccale di birra che Jake gli aveva messo davanti pochi secondi prima. Non alzò più lo sguardo sul nipote, che salutò Frye con un cenno e sparì oltre l'ingresso. Solo a quel punto, Edward mostrò la sua rabbia, calando un pugno sul tavolo.
    “Incontro galante?” Sogghignò il ragazzo da dietro il bancone.
    “Credimi, Jake, i Kenway sono davvero delle teste di cazzo!” Sibilò Edward a denti stretti.
     
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    Nike era seduta su una scomoda seggiola di legno, un enorme tavolo in ciliegio le stava di fronte. Avrebbe goduto di quell'ambiente caldo e ampiamente illuminato se non fosse stata divorata dall'ansia. Portava le mani in grembo e si torceva le dita con frenesia.
    Sapevano che di lì a breve, Haytham sarebbe apparso oltre la soglia dell'enorme biblioteca e finalmente lo avrebbe visto.
    Edward era riuscito a trovare svariate informazioni utili che alla fine li avevano portati a Boston, all’università di Harvard. Qui, Haytham faceva il professore di Storia e conduceva la sua vita pubblica, mescolandosi alla gente comune, quando lui, al pari di tutti loro, comune non era affatto.
    Mille dubbi l'assalirono, ma nessuna incertezza sarebbe stata in grado di farla vacillare dalla sua scelta. Avrebbe detto tutta la verità, senza remore. Suo figlio doveva sapere.
    Edward era al suo fianco, ma non era seduto, le aveva appoggiato le mani sulle spalle per darle forza, ma allo stesso tempo, era in grado di percepire la sua tensione.
    Poco dopo scorse la figura imponente di Haytham avvicinarsi nella loro direzione. Camicia bianca, pantaloni classici e un giaccone a tre quarti che snelliva il suo corpo massiccio. Non li aveva ancora scorti, ma da lì a breve avrebbero incatenato i loro sguardi. Era inevitabile.
    Haytham Kenway si muoveva sicuro per quei corridoi che ormai considerava la sua nuova casa. Ne aveva cambiate molte nella sua lunga esistenza e con ogni dimora mutava la sua intera vita. Aveva dovuto riabituarsi a respirare come facevano sulla Terra, il che non era così scontato. Aveva dovuto riposizionare al meglio la sua maschera di impassibilità anche se dentro al petto c'era una voragine che aveva un solo nome. Ma non lo pronunciava mai ad alta voce, in realtà non lo faceva neppure nella sua mente. Era lì, innominato, eppure presente... doloroso. Ma stava andando avanti, in attesa di capire come rimettere insieme i pezzi di un qualcosa che aveva decentrato ogni certezza e ideale... Harvard era stata la sua piccola àncora di salvezza. Tornare proprio lì, come se il tempo non fosse davvero trascorso ma come se avesse vissuto un semplice fermoimmagine, era stata l'unica sua distrazione. Unica, per adesso, visto che per un certo periodo tutti i Templari - persino le cariche più importanti - avevano avuto un periodo di stop dalle attività, per la necessità imprescindibile di fondersi nuovamente con la società. Per lui, almeno questo, non era stato affatto difficile.
    Arrivò nella biblioteca al solito orario, alcuni libri e un tablet sotto braccio. Aveva ancora un paio d'ore prima di iniziare la prossima lezione e, come di consueto, si era recato in un luogo che gli comunicava pace e serenità. Tuttavia, quel giorno, anche quel posto sarebbe stato teatro di un vero e proprio terremoto... non certo fisico, ma di sicuro interiore.
    Edward Kenway e la Guerriera di Giove, sua moglie, erano seduti al tavolo che di solito occupava lui... e lo stavano aspettando.
    Edward controllò l'avvicinarsi di suo figlio pronto a reagire, qualora lo avesse visto fare qualche mossa nel tentativo di evitare l'agguato che avevano preparato per lui. Sembrava molto remota la possibilità che si sarebbe dato alla fuga, non in un posto pubblico, non per il poco che lo conosceva. Anche se avrebbe potuto scrivere dei libri, sulla caparbietà e il caratteraccio dei Kenway. Infatti, Haytham si avvicinò con fare guardingo ma apparentemente rilassato.
    Alcuni studenti erano concentrati sui loro dispositivi, nei numerosi tavoli dell'immensa sala bibliotecaria, che più che un luogo di studio pareva l'atrio di una stazione, tanto era immensa. Detestava quei luoghi, intrisi del sapere assoggettato all'autorità, ma li trovava estremamente adatti alla prosopopea templare.
    Strinse lievemente la mano sulla spalla di Nike, un invito tacito al coraggio e alla calma. Per lei o per lui stesso? Fece una smorfia al pensiero.
    Haytham era arrivato al tavolo che di solito occupava quando studiava per la sua attività di copertura. Edward prese un respiro enorme e lo trattenne, mentre sputava fuori nel tono più conciliante che poteva parole che avrebbero bruciato come lava, se le avesse custodite troppo in corpo: “Dimentichiamo quello che ci siamo detti la volta scorsa e fammi il grande favore di ascoltare quello... che avrei dovuto dirti allora.”
    Nike accolse il gesto del marito con grande sollievo. Lo aveva visto teso e con la mascella serrata. Aveva temuto per un minuscolo attimo, che avrebbe facilmente ripreso la rappresaglia lasciata a metà con Haytham. Respirò a fondo e intervenne a sua volta.
    “Maestro Kenway, so che potrebbe apparirti strana la mia presenza qui, in questo momento. Mi hai conosciuta come Guerriera e Giudice Supremo di Giove, ma non sono solo questo. Io ed Edward abbiamo bisogno di parlarti di qualcosa di molto importante. Quando vi siete incontrati... l'ultima volta, non c'è stato modo di discutere con calma e adesso è giunto il momento di farlo.” Nike tremava dentro, sebbene all'esterno apparisse come sempre molto formale e compassata. Avrebbe dovuto reprimere i suoi sentimenti di madre per impedire che offuscassero le sue capacità razionali. Non avrebbero avuto altre occasioni.
    Haytham osservò di sottecchi Edward, ascoltò le sue parole senza mostrare particolari reazioni, eppure i ricordi erano arrivati puntuali nonostante il tempo trascorso da allora. Serrò le labbra per non rispondere sgarbatamente, non era più il caso, vista la circostanza in cui si trovavano. Fece un leggero inchino verso la Guerriera di Giove, che non appena parlò catturò tutta la sua attenzione. C'era qualcosa nel suo sguardo che lo metteva a disagio. Lo dissimulò al meglio, ma non era certo di esserci riuscito al cento per cento.
    “Avete fatto un lungo viaggio per essere qui, immagino che avrete fatto anche le vostre ricerche e quindi sapete che non ho lezioni nelle prossime ore. Avrei tanti motivi per non ascoltarvi, ma a dirla tutta non mi interessa elencarli adesso. Vi chiedo solo di essere rapidi…” Si sedette con un movimento fluido, appoggiando le braccia sulla superficie chiara del tavolo. Dita intrecciate e sguardo penetrante rivolto ai suoi interlocutori. “Ebbene?”
    Edward si sedette a sua volta. Si era ritrovato a esultare anche solo per quella prima, minuscola vittoria. Non voleva dire molto il fatto che Haytham non si fosse girato sui tacchi alla loro vista, ma intanto, come fosse un miracolo, eccoli tutti e tre seduti allo stesso tavolo, a condividere il tempo. Come avevano fatto secoli prima.
    Non avevano concordato alcun piano, con Nike, sul modo di proporre al figlio la verità del passato. Un fatto strano che lei non avesse insistito per pianificare ogni dettaglio come al solito, ma comprendeva che era molto di più di una missione, quella che stavano affrontando. Erano in gioco ben più che le loro vite o la salvezza del mondo. Ed era molto difficile stabilire le parole più efficaci, i toni più convincenti per fare breccia nel muro che si innalzava tra di loro.
    Rispose immediatamente alla domanda, ricacciando in gola una replica irascibile all'accusa di rubare il tempo di Haytham. Stava combattendo, e forse anche umiliandosi, per riprendersi quello che i suoi nemici gli avevano tolto, e lo doveva fare tra una lezione universitaria e l'altra!
    “Vorremmo parlarti di ciò che è davvero successo quando eri troppo piccolo per capire, o anche solo ricordare... devi ascoltarci perché sono certo che la storia che ti hanno raccontato...” Ingoiò saliva per impedire che la rabbia gli serrasse la gola. “... le persone che ti hanno cresciuto sia diversa, e di molto, dalla nostra. Cioè, dalla verità!” Sottolineò l'ultima parola con enfasi.
    Nike afferrò la mano di Edward seduto al suo fianco e la strinse. Le sembrava un sogno di poter essere finalmente insieme a suo marito e suo figlio nella stessa stanza, sebbene fosse una sala enorme e dispersiva. Ma loro erano stati in grado di creare una sorta di bolla in cui si erano immersi.
    “Tuo padre ha ragione, Haytham.” Fece una pausa ricca di tensione. “Io... io sono...” vacillò per un momento. Non era certa di come avrebbe dovuto dirgli la verità sulla sua identità. Come avrebbe reagito?
    Poteva notare la confusione e l'attesa sul volto di suo figlio. Doveva farsi coraggio e buttare lì la realtà dei fatti.
    “Insomma, non sono solo chi tu conosci, ma sono anche la moglie di tuo padre e la nostra unione è avvenuta proprio qui sulla Terra, a Londra, molti secoli orsono. Il nostro rapporto non era ben visto dai Sacerdoti del mio pianeta, perché io come Giudice Supremo avevo l'obbligo di rimanere da sola, per dedicarmi anima e corpo al mio popolo. E invece... ho conosciuto tuo padre e me ne sono innamorata e questo è accaduto prima che tu nascessi...” Aveva lasciato la frase in sospeso, ma era chiaro dove volesse andare a parare. Nessuno intervenne. Edward le avrebbe dato il tempo e lo spazio necessario; Haytham era interdetto.
    “Io... sono... tua madre.”
    Haytham restò in silenzio per un tempo infinito, deglutì vistosamente come a tentar di mandar giù quella notizia assurda, sbattendo le palpebre qualche volta in più del necessario. Aveva la sensazione di aver ricevuto un pugno in pieno viso, e non solo parole. Parole. Potevano essere solo sillabe finte, vuote, un escamotage per arrivare dritti al fianco della fazione opposta e tanto odiata: i Templari? Sì, doveva essere per forza un trucco. Le pupille di Haytham si strinsero, diventando due fessure dubbiose, attente. Doveva capire a che gioco stavano giocando.
    Tossicchiò per schiarirsi la gola prima di parlare. Poi puntò il suo sguardo su colei che affermava di essere sua madre...
    “E avete pensato di venire da me, a raccontarmi tutto, perché adesso Nike non è più Giudice Supremo, ho capito bene? E, capirete la mia perplessità in merito, ma quali prove avete di ciò che dite?” Aveva davvero sangue eterno mischiato al suo umano? Tentava di non farsi sconvolgere, ma non era facile, no... non lo era per niente.
    Edward appoggiò le braccia sul tavolo, sporgendosi lentamente verso il figlio, che lo guardò. Quello che l'Assassino vi lesse era troppo confuso per poterlo interpretare. Haytham si aggrappava a prove oggettive per trovare un terreno solido sul quale posare i piedi, e questo lui lo comprendeva bene, ma voleva chiarire una cosa, ancora più importante.
    “Saresti stato in pericolo anche tu, se i Giudici avessero scoperto la tua esistenza. I Templari non ti avrebbero protetto, e neanche chi o cosa ti ha riportato in vita dopo essere morto. Quindi sì, abbiamo aspettato tutto questo tempo per reclamarti...” Infilò una mano nel giubbotto, senza smettere di fissare gli occhi chiari del figlio, somiglianti in maniera strabiliante sia ai suoi sia a quelli di Nike. Una cosa incredibile, ma veritiera. “Appena nascesti, decisi di celebrare in qualche modo la nascita della nostra famiglia. Siamo stati felici, in quel breve periodo. Feci fare un nostro ritratto.” Mentre parlava, dalla tasca sfilò una fotografia, e la lasciò scivolare verso le mani del figlio.
    “Eri così piccolo...” aggiunse Nike trattenendo l'emozione. “Avevi solo pochi mesi quando i Sacerdoti si sono insospettiti a causa della mia lunga assenza dal pianeta. Dopo la tua nascita, mi recavo per brevi visite, che potevo fare sfruttando il modo diverso in cui scorre il tempo, per assolvere ai miei compiti di Giudice Supremo. Ma poi tornavo sempre da te, da tuo padre. Un giorno, però, i Sacerdoti hanno scoperto dove mi trovavo e sono venuti a prendermi. Ho fatto di tutto per nascondervi e proteggervi. Hanno ucciso tutti i servi della villa, ma non vi hanno trovato. Allora, ho deciso che l'unico modo per potervi tenere al sicuro era lasciarvi sulla Terra, mentre io sarei tornata ad occupare il mio posto. Era l'unico modo...” Nike era provata dal racconto e nell'ultima parte aveva arrancato... non sapeva se sarebbe servito portare alla luce gli eventi del passato, ma ormai non vi era più motivo per nascondersi.
    Haytham non toccò la foto che Edward aveva posato sul tavolo, ma quando Nike gliela avvicinò ancora un po' i suoi occhi non poterono più tergiversare. E fu allora che il suo sguardo fu calamitato da tre figure ben distinte, suo padre e Nike erano tali e quali a come ce li aveva di fronte in quel momento. Neppure una ruga era spuntata sui loro volti giovani e fieri. Anche gli sguardi erano gli stessi, forse quello di Nike era più malinconico nel ritratto, mentre nel presente era addolorato... quel racconto sembrava averla spossata, come se buttar fuori ogni cosa la stesse prosciugando. E c’era anche un neonato, estraneo per lineamenti, ma poteva essere benissimo lui.
    Haytham continuò a non toccare la foto, anche se un istinto primordiale gli intimava di afferrarla e conservarla. Non lo fece.
    Non era un trucchetto, questo era ormai assodato, ma restava il fatto che i secoli non si potevano cancellare, né ciò in cui aveva imparato a credere, convinto che la sua famiglia fosse un'altra, quella che l'aveva cresciuto...
    “Non so cosa sia successo dopo, non sono nemmeno troppo sicuro di volerlo sapere in realtà, sono passati così tanti secoli... che ho la sensazione di avere una pietra al posto del cuore. Forse è proprio così.” Confessò i suoi pensieri senza troppe remore. In fondo, erano andati lì per parlare, allora lo avrebbe fatto anche lui. “Ho vissuto la mia vita senza conoscere mia madre, convinto che mio padre mi avesse abbandonato. Ma non ho sofferto. Sono stato addestrato per diventare l'uomo che sono... adesso, ora cosa dovrei fare di preciso? Rinnegare i Templari? Chiamarvi padre e madre, adesso che non ho più bisogno di genitori?” Haytham strinse i pugni sul tavolo, la tentazione di arraffare la foto era forte, ma non poteva cedere a quegli inutili sentimentalismi. Tutto ciò che gli stavano raccontando, di fatto, cosa cambiava?
    “Ah, è così allora? Non c'eravamo quando avevi bisogno di noi, hai imparato a fare a meno di ogni rapporto umano, e ora ti rifiuti di rivedere la tua opinione sull'idea di famiglia!” Stava alzando la voce, irato, ma la mano di Nike sul braccio lo riportò alla calma, almeno di poco. Si appoggiò pesantemente allo schienale della sedia, che scricchiolò in maniera udibile. “Non vuoi davvero conoscere come sono andati i fatti? Credevo che i Templari ti avessero insegnato il valore della verità e della giustizia... Speravo che anche senza la nostra guida fossi diventato un uomo con più integrità di quanto valuto ogni appartenente al vostro Ordine.” Strinse i denti, più deluso che furioso, in quel momento. Parlò con voce ancora più bassa, in cui vibrava il dispiacere. “Non ti obbligheremo a fare nulla. Sono... contrariato – a minimizzare – per le tue azioni, ma la libertà di scelta fa parte di ciò per cui lottano gli Assassini. Quindi, rimani pure chi credi, ma non ignorarci.”
    Nike, dopo lo sfogo improvviso di Edward, temette di veder crollare le sue difese, e far uscire tutto il dolore di madre che provava. Il suo amato voleva davvero recuperare un rapporto che sembrava ormai perso, sepolto sotto strati di tempo e menzogne. Doveva agire in qualche modo per far capire ad Haytham che non avrebbero sprecato una simile opportunità. Oltre ad avere la mano sul braccio di Edward, la sua àncora, ma anche il suo freno, allungò l'altra mano, per posarla sul pugno chiuso del figlio, appoggiato sul tavolo liscio. Una mossa azzardata forse, ma l'unica che le dettava il cuore.
    “Haytham... quello a cui teniamo davvero è che tu sappia il motivo per cui i tuoi veri genitori non sono stati al tuo fianco quando ne avevi più bisogno, quando eri troppo piccolo per camminare da solo o comprendere il significato delle Fazioni. Adesso non ci sono Templari, Assassini o Eterni. Noi siamo qui, una volta per tutte, proprio perché finalmente liberi dal giogo del ricatto e solo adesso potrete essere sani e salvi” pronunciò queste parole rimirando prima Haytham e poi Edward, per poi ritornare su Haytham.
    “Tuo padre è stato ucciso quando avevi pochi anni di vita, io l'ho salvato e portato su Giove... non riesco neppure a raccontarti tutte le sofferenze patite per averti perduto e poi... anni e anni dopo ti rivedo ormai uomo, vivo e Gran Mestro di un nuovo ordine che stava nascendo nell'Impero” si fermò di colpo, preda dell'emozione. “Puoi solo immaginare la gioia che ho provato... ti avevamo perso, e ti avevamo ritrovato... Stavo per venire da te, a dirti tutto, a sapere tutto ciò che ti riguardava, in gran segreto, perché la minaccia dei Sacerdoti gravava ancora sulle nostre teste, quando... qualcuno mi ha fermata... e in quel momento mi è crollato il mondo addosso per l'ennesima volta...”
    Haytham era ancora rigido sotto il suo tocco, ma non si era scostato.
    Edward stava per intervenire per porre fine alla sofferenza bruciante di Nike e al suo racconto, ma lei lo fermò, ancora una volta stringendogli il braccio.
    “Devo raccontare fino all'ultimo questa storia, e poi sarà lui a decidere cosa vorrà fare... ma deve assolutamente sapere” disse rivolgendosi al marito, che scalpitava, sempre più nervoso.
    Haytham pareva una statua di sale e nessuna espressione evidente segnava il suo volto. Nike non si fece intimorire e proseguì. “L'uomo che mi ha anticipato sul tempo nel venirti a cercare era molto strano. Non potrei mai dimenticarlo. Era chiaro di pelle, occhi di ghiaccio e capelli biondissimi, pareva quasi albino. Era freddo e sicuro di sé, imperturbabile. È comparso dal nulla, sulla mia strada e sembrava conoscere ogni mia singola intenzione e mossa. Mi ha minacciata, dicendomi che se mi fossi avvicinata a te per rivelarti tutta la verità sulle tue origini, avrebbe raccontato ai Sacerdoti di voi e a quel punto – sia tu che Edward – sareste stati in pericolo di vita... di nuovo... come sempre con la spada di Damocle a pendere sulle vostre teste...” Nike, all'improvviso si sostenne al tavolo, liberando i due uomini dalla sua presa. Si sentiva stordita e provata, come se stesse scalando una montagna a mani nude e senza poteri. Doveva resistere, non poteva mollare proprio adesso. “Non abbiamo nessuna pretesa su di te e su ciò che provi, ma questa è la pura e semplice verità e non appena ho abdicato come Giudice Supremo, abbiamo potuto farci avanti senza che nessuno corresse più dei pericoli.”
    Dopo che Nike lo aveva liberato dal suo tocco, Haytham ebbe quasi la sensazione di vacillare. Era stata una sensazione strana, che avesse usato qualche potere su di lui? Forse ciò che sentiva era lo slancio più naturale che una donna potesse avere, umana o meno, quello di essere madre... e lei lo era, sua madre. Non riusciva a capacitarsene, ma furono le sue parole successive a farlo quasi sprofondare nella sedia, con la voglia matta di finire giù, ben oltre la superficie del pavimento levigato. Lui conosceva l’uomo di cui parlava, lo aveva riconosciuto dalla descrizione, e non faticava a immaginarlo nel compiere un'azione simile. Aveva avuto prova della sua spietatezza, ma anche del suo essere machiavellico. Lui stesso ne era stato una vittima? Di sicuro aveva usato i Monoliti per conoscere il futuro della sua pedina di punta, di colui su cui aveva fatto affidamento per la creazione dei nuovi Templari su un pianeta diverso dalla Terra. Cosa sarebbe accaduto quindi, se Edward e Nike gli avessero rivelato la verità nonostante la minaccia dei Sacerdoti? Sarebbero morti? E quindi lui non avrebbe potuto permettersi una perdita simile. Aveva manipolato la sua intera esistenza... da quando era venuto al mondo, tutti lo avevano fatto, senza preoccuparsi di chiedergli cosa diamine desiderasse lui... tutti tranne le persone che aveva davanti.
    Le parole di Edward gli tornarono in mente: "Credevo che i Templari ti avessero insegnato il valore della verità e della giustizia... I Templari del suo tempo sì, gli avevano insegnato l'importanza della verità, anche se lo avevano cresciuto nella menzogna. Durante tutti questi pensieri vorticosi era rimasto immobile, lo sguardo fisso sulla foto, sulla quale si concesse di appoggiarvi un pugno serrato. Percepiva il dolore della Guerriera, non credeva che potesse essere possibile, ma qualcosa dentro di lui vibrava... Si decise ad alzare gli occhi su di loro. Edward lo fissava greve, Nike come se fosse sull'orlo di un abisso e per la prima volta nella sua vita, provò un moto di tenerezza, che non fosse rivolto alla sua Cerere. Cerere. Quanti avevano sofferto a causa sua... ma quanti aveva deciso per lui, generando altra sofferenza?
    “Non abbandonerò i Templari. Non lo sono diventato per imposizione, ma perché credo in ciò che professano, su questo non saremo mai in accordo per ovvie ragioni...” Tossì per cercare di schiarirsi la gola improvvisamente serrata. “Ma non vi ignorerò, non più. Ciò che mi avete raccontato spiega molte cose, tuttavia, tante altre sono ancora nebulose. Se volete, possiamo ritrovarci questa sera a casa mia. Sono certo che conosciate l'indirizzo, potremmo discutere... di tutto il resto... bevendo e mangiando qualcosa...” Quanto aveva faticato a dire quelle parole? Lui che invitava a cena dei perfetti nemici? Eppure, non erano dei veri nemici, quelli ce li aveva in casa, di nuovo. Il pugno era ancora chiuso sulla foto, mentre attendeva una risposta...
    Edward appoggiò il mento sul punto più alto dello sterno, lasciando andare con sollievo il respiro che aveva trattenuto fino a quel momento. Lui e Nike erano davvero riusciti a raccontargli la verità senza che lui si trincerasse dietro un muro di ostilità! La sua amata era stata sul punto di crollare, ma con il suo appello accorato aveva toccato le corde giuste, raggiungendo il cuore del figlio. Edward aveva osservato attentamente il viso impenetrabile mentre sua madre parlava, e aveva notato come a un certo punto il suo contegno granitico si fosse incrinato. Da quel momento, Edward aveva cominciato a sperare.
    La richiesta di continuare il loro incontro in un luogo diverso, addirittura a casa sua, era un risultato che rasentava il miracolo. La sua natura sospettosa fece capolino per qualche secondo, avvertendolo della possibilità che si trattasse di una trappola in cui un Assassino e una Guerriera potevano cadere per mano di un Templare, ma la ignorò.
    Sorrise invece. Quegli incontri sarebbero rimasti segreti per la sicurezza di tutti loro, così come l'identità di Nike, questo non c'era neanche il bisogno di chiarirlo.
    “Non ti nasconderemo nulla di quello che vorrai sapere, non desideriamo altro, io e tua madre.” Haytham si era alzato, e con un gesto studiato aveva fatto sparire la foto del dipinto nella sua tasca. Il tempo a loro disposizione era terminato, ma prima che se ne andasse, voleva dirgli un'ultima cosa. “Haytham...” Suo figlio lo guardò con un accenno di impazienza. Nonostante tutto, avevano ancora molti ostacoli prima di poter dichiararsi una famiglia autentica. Lui era un Assassino, suo figlio un Templare, uno scontro futuro non si poteva escludere di certo, ma... “... grazie.”
    Nike temette che il cuore potesse scoppiarle nel petto e per la prima volta dopo tempo immemore, era per pura gioia. Basta sofferenza, basta dolore. Avevano di fronte una nuova occasione. Non si sarebbe illusa di poter diventare la famigliola felice, ma allo stesso tempo, avrebbe approfittato di ogni singolo istante passato insieme. Erano un dono prezioso. Guardò Haytham andare via, con la mano ancora in una tasca, lì dove custodiva la foto di loro tre insieme.
    Strinse la mano di Edward e lo guardò con occhi dolci e sognanti. Poi lo abbracciò e appoggiò la guancia al suo petto.
    Non si sarebbe aspettata epilogo migliore. Lei e suo marito avevano portato a termine una missione molto importante, forse la più importante di tutte. Avevano aperto un varco per entrare in punta di piedi nella vita di Haytham, loro figlio.
     
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    Era quasi il tramonto. Ezio lasciò una mezz'ora prima il suo lavoro ufficiale nell'ufficio del podestà. Avrebbe fatto un giro veloce per il borgo, poi sarebbe tornato da Pandia. Percorse le stradine fino alle mura che circondavano interamente Monteriggioni e salì sui bastioni. Conosceva a memoria ogni singola pietra, e nonostante questo, non si annoiava mai della vista sulla campagna circostante. In certi giorni particolarmente tersi, si potevano vedere le torri di Siena, o quello che ne rimaneva... Non fu stupito di riconoscere una figura familiare appoggiata ai merli, come di vedetta.
    Arno Dorian aveva notato i movimenti dell'amico, la piccola piazza era ben visibile dal suo punto di osservazione e sapeva bene che - come lui - adorava salire sulle mura di cinta per riempirsi occhi e cuore della vista sulla campagna toscana.
    "Stiamo diventando troppo prevedibili, Auditore. Se ci fossero nemici nei dintorni saremmo morti da un bel pezzo..." La voce dell'Assassino era bassa, ma una vena scherzosa la permeava rendendo il suo accento più morbido.
    Ezio diede una pacca leggera sulla spalla dell'altro. Con tono altrettanto leggero gli rispose: “Ti ho mai detto che detesto quando mi chiami per cognome? Non siamo mica sotto le armi...” Strinse le labbra, quando ricordi spiacevoli salirono a galla. Erano alla stregua di un incubo, si ripeteva spesso. Anche se gli incubi potevano essere concreti e spaventosi.
    "Sì, me lo ripeti da sempre, ma fa un certo effetto comunque. Il tuo è un cognome importante..." Arno lo prese in giro un altro po', mentre si metteva più comodo e lo invitava a sedersi accanto a lui. "Cos'è quella faccia triste? Ultimamente, ti ho visto perso nei tuoi pensieri un po' troppo spesso rispetto a quanto ero abituato... e ne parlo con cognizione di causa!" Lo stesso Arno era appena uscito da un abisso nero pece, che lo aveva tenuto prigioniero molto più delle sbarre dell'Abstergo.
    L'espressione di Ezio si rilassò alla battuta dell'amico, poi i suoi occhi si persero lontano, pensierosi. “Tornare qui mi ha riportato un sacco di ricordi. Mancavo da troppo tempo e ora, mi sembra quasi di vivere in un idillio permanente.” Sospirò soddisfatto, mentre si sedeva sulla pietra squadrata accanto ad Arno. “Benvenuto a casa mia! Non credo che tu fossi mai stato qui, in passato!”
    "No, in effetti non ero mai venuto qui, ma si vede che è il tuo ambiente. Io sono più da vicoli di città... Parigi mi è rimasta nel cuore, lo sai, ma qui sto bene e mi fa piacere saperti felice dopo tutto quello che hai passato. Perché sei felice, vero?" La domanda non era affatto retorica. Arno sentiva che c'era qualche ombra nell'umore, ma soprattutto tra i pensieri di Ezio. Lui conosceva bene quella sensazione e ne riconosceva i segni. Qualcosa era cambiato in lui ed era quasi certo che non c'entrasse affatto l'esperienza all'Abstergo. Ma poteva anche sbagliarsi... chi era davvero lui per giudicare una cosa simile?
    Ezio non rispose. Da quanto tempo non se lo chiedeva più? Anni. Anni, davvero. Era più impegnato a sopravvivere ad una guerra, ad una prigionia insensata, al terrore di perdersi o di perdere. Ritrovare Pandia aveva in parte acquietato i mostri, ma ci sarebbe voluto molto più tempo, per eliminarli completamente. “Cerco di esserlo, e valutando la situazione, significa già molto.” Lo guardò attento. “E di te, che mi dici?”
    Arno fece una piccola smorfia con la bocca, sapeva quanto Ezio fosse bravo a far scivolare i discorsi in altre direzioni, non ricordava più chi dei due avesse insegnato a farlo all'altro.
    "Sarebbe bello se la scintilla che mi ha portato da te al Livello 2, qualche mese fa, si decidesse a farsi nuovamente viva... ma nonostante questo vado avanti, cerco di assaporare ogni attimo e, come dici tu, vista la situazione da cui veniamo è già un piccolo miracolo... Ora che ti ho risposto però, più o meno, devi togliermi una curiosità. Pandia. Quando è nato questo amore folle? Perché io non me ne ero proprio accorto, non credo neppure di avervi mai visto assieme..." Arno fissava l'amico con fare indagatore, ma anche con un certo piglio curioso. Le confidenze tra uomini viaggiavano su binari diversi ma non per questo mancava l'interesse o la necessità di buttar tutto fuori.
    Ezio sorrise furbo, e posò le mani sulle spalle di Arno. “No, no, aspetta! Non te la cavi così! Ecco cosa era il tuo fare così desolato! Stai spasimando per la bella Guerriera di fuoco!” Rise divertito dallo sguardo spiazzato di Arno. Era felice che nella vita dell'altro potesse entrare una nuova donna, e sperava che questa non lo avrebbe portato ad una passo dalla follia come era successo quando si erano conosciuti, secoli prima. Inoltre, la sua reazione leggermente eccessiva era un riflesso acquisito da quanto era obbligato a gestire il suo segreto con le persone che gli erano più vicine.
    "E tu cosa diamine ne sai? Non l'ho detto ad anima viva... e poi spasimare è un termine un po' troppo grosso. L'ho cercata è vero, ma diamine, sta su un altro pianeta... chissà quale nella miriade che ci circonda..." Senza rendersene conto Arno si era perso nei suoi pensieri rivolti a Vesta, la dea che gli aveva davvero fatto perdere la testa in un modo che non riusciva a spiegare. Probabilmente era tutto nella sua mente, erano successe talmente tante cose e poi... poi non l'aveva più rivista... "È davvero così evidente?" chiese infine, un po' preoccupato.
    “Solo a chi ti conosce bene come il sottoscritto!” Fece una faccia buffa. “Per tutti gli altri, sei il solito asociale, musone e lievemente depresso di sempre!” Il sorriso si allargò ulteriormente all'occhiata di Arno. Era bello, e molto più semplice, farsi trasportare dalla leggerezza dell'altro se stesso, e non dare retta alla soffocante tensione che aveva offuscato la sua forza vitale prima di ritrovarsi catapultato in questo nuovo mondo, così uguale eppure così diverso. “Hai una passione per le rosse, non è così difficile da cogliere...”
    Arno si lasciò prendere in giro bonariamente, ci era ormai abituato, anche se negli ultimi tempi aveva captato una nota stonata in quel mood scherzoso, come se Ezio stesso si abbandonasse a qualcosa che non fosse totalmente suo. Ma non aveva mai detto nulla in proposito, non si fidava troppo delle sue sensazioni. Spesso lo avevano tradito. "In realtà ce n'è stata solo una, fino ad ora. E semmai la vedrei come una maledizione... l'ultima volta non è finita bene..." La malinconia aveva fatto di nuovo capolino, ma non voleva che accadesse, non gli piaceva quella condizione viscosa e a tratti invitante. "E smettila di dar credito alle voci, non è vero che sono musone, depresso ecc ecc..." concluse infine, giusto per alleggerire di nuovo l'atmosfera.
    Ezio rise ancora con noncuranza. "E come avrei fatto a sopportarti per tutto questo tempo, se avessi dato retta alle voci su di te?" Dopo, tornò di nuovo serio, ma era chiaro quanto fosse lui il primo a non credere a quanto diceva. "Secondo i Mentori della tua Confraternita di origine, eri un tipo poco propenso alla disciplina, bellicoso, irriverente e beffardo sino all'insubordinazione. Tenace ma ottusamente testardo.” Scosse la testa fintamente dispiaciuto. “Avrei dovuto farti fuori la prima missione che abbiamo svolto insieme...”
    Lo sguardo di Arno si adombrò al ricordo di quel periodo assurdo della sua precedente vita. Aveva lottato, con unghie denti cuore e anima, affinché l'impossibile diventasse possibile... ma invano. Si era ritrovato senza unghie e denti, col cuore rotto e l'anima spezzata.
    "Adesso non credo di essere molto diverso da allora, sono solo cresciuto un po'... diciamo così. E questo lo devo a te. Anche se hai una faccia poco raccomandabile, mi hai salvato da me stesso."
    Ezio si strinse nelle spalle. Scavare nei ricordi di questa vita era faticoso, ma ne era incuriosito e voleva scoprire il contesto in cui era nata la sua amicizia con Arno. Così cominciò a raccontare, quasi a se stesso. “Era il 1789... Avevo inseguito quel Templare per mezza Italia, e alla fine era riuscito a rifugiarsi a Parigi. Sperava che il caos della rivoluzione appena nata lo favorisse nei suoi loschi fini. E io non volevo farmelo scappare. Per questo contattai Pierre Bellec, il Maestro del ramo francese. Devo ancora capire perché decise di mandare te, a supportarmi...”
    Un leggero sorriso comparve sulle labbra di Arno Dorian.
    "Forse aveva creduto che tu - col tuo fervore per la Confraternita - saresti riuscito a portarmi 'sulla retta via'. Temevano le mie idee fin troppo progressiste e a ancora mi chiedo se non avessero ragione. Ma all'epoca ero accecato da un sentimento... L'unica cosa buona che ne è venuta fuori, anche se con qualche anno di ritardo, è stata la nostra amicizia." E non erano parole dette tanto per dire. Ezio Auditore gli aveva davvero salvato la vita, dandogli uno scopo e una direzione proprio quando credeva che non ne avrebbe più avuti, proprio quando aveva gettato la spugna.
    Ezio annuì con un sorriso concentrato. "E' vero... mi avevi creato dei grossi problemi, inizialmente... poco ci mancò che ti colpissi, quando ti misi in mezzo per parlare con il Templare e convincerlo ad ascoltare i tuoi discorsi di pace e amore universale." Tornò a guardare Arno. “Sei sempre stato così assoluto nelle tue convinzioni... Per questo non feci parola della tua cattiva condotta, una volta rientrati al Covo. Ero convinto che avessi agito con onestà e coraggio, nonostante tutto.”
    Arno sbuffò piano, incapace di trattenere quella reazione.
    "E' sempre stato così, per un ideale ero disposto anche a morire, ma poi anche questo è venuto meno, almeno per un certo periodo. Se avessi spifferato tutto alla Confraternita non avresti trovato nessuno da salvare qualche anno più tardi..." Diede una leggera spallata a Ezio, ci provava a tenere alto il morale, ma quei discorsi lo riportavano a un'epoca davvero buia e non solo per i fatti che poi erano passati alla storia. Aveva perso tutto... eppure, alla fine, aveva ritrovato ciò che gli serviva per andare avanti. La vita nasce dal putrefazione, dopotutto.
    “Ti avrebbero giustiziato di sicuro... e quando seppi della morte di Élise ebbi il timore di non arrivare in tempo. Ma ti ritrovai...” Fece una smorfia impudente, arrivando a ricordare il seguito. L'altro Ezio aveva violato le regole, le aveva interpretate prendendosi una libertà che non gli competeva. Azioni che gli erano costate care, una volta che i Mentori, soprattutto suo fratello, ne erano venuti a conoscenza, ma non si era mai pentito di quanto fatto.
    E anche lui, con un passato di responsabilità sulle spalle molto più tangibile, lui che era stato uno dei Mentori più importanti assieme ad Altaïr, concordava con quanto quell'Ezio aveva deciso. “... e ti giocai un bello scherzo, vero?”
    Arno strinse le labbra in una linea dolorosa, mordendosi subito dopo il labbro inferiore, tormentandolo con i denti. Passò qualche lungo attimo prima che riuscisse a trovare le parole giuste per rispondere. Da sempre quello era stato un tasto debole. Tutta la sua vita dopo la morte di Élise lo era stato. Aveva fatto di tutto per gettarsi tra le braccia della Signora Morte, ma neppure Lei lo aveva accolto. E poi, era arrivato Ezio.
    "Mi hai fatto bere un'acqua miracolosa e mi hai donato la super longevità, chiamiamolo scherzo su... di certo non ero degno e tu hai rischiato tutta la tua carriera e forse qualcosa in più per questo colpo di testa. Ancora oggi mi chiedo cosa diavolo ti è passato per la mente in quel momento..." Scosse il capo incredulo. "E in che condizioni mi hai trovato... non lo dimenticherò mai..."
    Ezio sollevò un sopracciglio, quasi rincresciuto di aver sollevato l'argomento. Arno era sempre sul limite pericoloso dell'autodistruzione. Aveva un carattere che si spendeva incondizionatamente, senza mezze misure. Ricordava con estrema chiarezza le vibranti accuse dell'altro Arno, la feroce ostilità contro le Guerriere, che riteneva degli oppressori per l'umanità. L'integrità appassionata era la sua cifra, in questo e in ogni universo mai esistito.
    “Stavi uno schifo! Ti eri rintanato a Versailles, come se non aspettassi altro che di morire soffocato nell'alcool o nel tuo vomito... non potevo sopportare che sprecassi il tuo addestramento, la tua lealtà in quel modo. Avevo provato a parlarti, per convincerti che l'autocommiserazione non era la scelta giusta...” Si interruppe, ragionando. Cercava risposte frugando in ricordi non suoi. “Vedendo che non ottenevo nulla in quel modo, una sera aggiunsi una quantità sufficiente di acqua al vino scadente con cui ti stordivi.” Prese un lungo respiro, gli occhi che vagavano per il paesaggio ormai tinto dei colori serali. “Non capisco neppure io perché presi quella decisione. Sapevo solo che dovevo farlo, ad ogni costo.” Si girò verso Arno, nuovamente con la sua espressione ironica. “E in tutto questo tempo, non mi hai mai ringraziato!”
    Arno ebbe la sensazione che Ezio stesse "raccontando" qualcosa che non conosceva, come quando leggi una storia e la riporti ad alta voce. Era stata una nota stonata talmente flebile che forse aveva solo immaginato. Ma non era la prima volta che questo spillo pungeva qualcosa dentro di lui. Ricordare non era facile, specialmente con centinaia di anni in mezzo, tuttavia, le immagini evocate dal suo amico, per lui erano tanto vivide da riprendere a fare male.
    "Sì, non ti ho mai ringraziato, perché ancora oggi non mi sento del tutto degno di far parte di questa élite tanto ammirevole. Non sono convinto che tu abbia fatto la cosa giusta, ma una volta in ballo mi sono ritrovato a dover ballare... e allora sì che avevi raggiunto il tuo scopo, ne avevi dato uno a me per continuare a esistere..." L'Assassino osservò Ezio di sottecchi, la sua espressione concentrata - e a tratti esitante - mentre raccontava continuava a turbarlo, anche se lo sguardo era rivolto alla campagna toscana, la fronte era rimasta aggrottata. "Non vorrei essere invadente, ma c'è un pensiero che mi frulla in testa da un po'. Forse è solo una fantasia, ma io te la dico lo stesso... Mi sembri diverso, Ezio. Non peggiore, né migliore, ma tanto diverso... All'inizio mi sono dato la spiegazione che gli esperimenti all'Abstergo avessero comunque lasciato la loro traccia, ma poi ci ho riflettuto e mi sono convinto che non è così. Forse sono solo un pazzo..." Arno lasciò tra le righe la domanda, convinto che lui ci sarebbe arrivato lo stesso.
    Ezio allargò le mani davanti a sé e rispose velocemente, quasi seccato. “Arno, sono io, sono Ezio! Cosa vedi di diverso in me? Con tutto quello che abbiamo passato, credi che le conseguenze non vengano fuori?” Strinse i denti, tentando di rimediare allo scatto troppo impulsivo. “Odio sentirmi debole e non controllare la mia vita...”
    "Nessuno di noi ama sentirsi debole, nessuno. Ciò che vedo è lo stesso Ezio di sempre, nonostante gli orrori che hai vissuto. Ciò che sento è tutt'altra cosa... sei qui, ma non sei tu. E' come se ti sforzassi di pescare ricordi altrui, ti sei concentrato per raccontare il nostro primo incontro e tutto il resto... io potrei raccontarlo persino mentre dormo. E non si tratta del tempo trascorso..." Arno rispose con voce calma, guardandolo fisso in volto. Aveva aperto il discorso e avrebbe messo tutto sul tavolo. Tra loro la sincerità era stata sempre al primo posto, certo, sempre dopo "lo scherzetto" che gli aveva giocato tantissimi anni prima.
    Ezio avrebbe potuto mentire. Continuare a mantenere la facciata che aveva retto per tanti mesi, che avrebbe resistito con tutti, tranne con chi lo conosceva meglio. E a quelle persone lo legavano dei rapporti di immenso valore, che non avrebbe voluto danneggiare per niente al mondo. Inoltre, non aveva senso negare allo stremo, se di mezzo non c'era la paura della reazione – stupita, inorridita, incredula - degli altri. Quella paura non la aveva, era certo di se stesso.
    Inoltre, il mistero che includeva lui e le altre persone che arrivavano da un altro universo aveva un significato ben preciso, una spiegazione di rilevanza cruciale che però non aveva ancora compreso. Sapeva che era importante, ma non sapeva perché.
    Incrociò le braccia al petto. Si rese conto che non aveva idea di dove iniziare, nel confidare verità così scioccanti. I secondi di silenzio stavano diventando minuti, ma Arno rimaneva immobile e in paziente attesa: non affrettava una risposta intuendo la difficoltà, ma esigendo anche sincerità. Erano amici fraterni, più che confratelli.
    “Non temo il tuo scetticismo. So bene che la nostra amicizia è costruita sulla fiducia reciproca, non solo sulla stima e sulle idee condivise. Ma è complesso e al contempo semplice da dire...” Chiuse gli occhi, poi li riaprì. “Ho i ricordi di due persone diverse nella mia mente. Da un anno a questa parte.”
    Arno continuò a crogiolarsi nella sua immobilità. Era rassicurante e gli permetteva di riflettere. Aveva lasciato il tempo a Ezio per trovare le parole giuste ma adesso era il suo turno per prendersi il giusto tempo per rispondere. Ciò che gli aveva confessato era pesante, a tratti anche incredibile, ma dopo quanto avevano vissuto nell'ultimo anno - compreso l'incontro con una dea del fuoco - nulla avrebbe potuto davvero scioccarlo. Si volse verso di lui e gli diede una lieve spallata, a metà tra lo scherzoso e l'incoraggiamento.
    "Potresti anche dirmi che sei diventato un alieno e non mi stupirei... ma se vuoi parlarmene, sono qui. Strano è strano ma poi non così tanto... Siamo quasi immortali, abbiamo sempre a che fare con Eterni e Devianti e Templari tornati dalla Luna, la tua ragazza è una Guerriera che viene da un altro pianeta... E a questo proposito, lei... lei fa parte dei tuoi nuovi ricordi? Per questo non l'ho mai conosciuta prima?" Anche se erano trascorsi lunghi attimi, alla fine l'aveva inondato di sillabe.
    Ezio rise stupito. “Beh, se la metti su questo piano, allora è tutto all'ordine del giorno!” Si morse il labbro. “Pandia non fa parte dei nuovi ricordi, ma dei miei... o meglio, di quelli che penso mi appartengano di più. Sono la memoria della vita che ho vissuto realmente. I ricordi che ho di questo mondo, piuttosto, li chiamerei nuovi. Quando mi concentro su questi, ho l'impressione di averli comunque vissuti ma sono meno intensi.” Si alzò in piedi per assecondare la necessità di scaricare l'energia nervosa che aveva accumulato in quegli ultimi minuti. “Nelle due vite molte cose sono uguali, o si differenziano in misura minima. Per questo mi è facile accettare e far convivere il tutto. Anzi, a essere sincero, questo Ezio ha vissuto una vita nettamente migliore della mia!” Esclamò con enfasi.
    Arno ascoltò senza interromperlo anche se una valanga di domande stava per rompere l'argine della sua mente. Era curioso per natura, ma sapeva quando era il momento di tacere. Tuttavia, le rivelazioni di Ezio riuscirono a turbarlo un po' e fece l'unica domanda che credette davvero importante.
    "Quindi noi due siamo amici solo nei tuoi ricordi 'nuovi'? Nei tuoi ricordi 'intensi' cosa eravamo invece? Non abbiamo vissuto ciò che hai appena raccontato presumo..."
    “Certo che siamo amici! Questa vita è reale come l'altra, chiaro?” Ezio corrugò la fronte. Voleva che il concetto fosse chiaro, senza ombre. L'amicizia che c'era tra di loro aveva un grande valore di per sé, e non perché, anche... “Nell'altra vita avevamo la medesima storia alle spalle. Ci eravamo conosciuti negli stessi anni, e per il tuo valore avevo deciso di farti entrare nel gruppo ristretto degli Assassini più capaci. La scelta era mia e solo mia. Diventasti immediatamente il mio braccio destro e... qualcosa di più... ” Ridacchiò all'occhiata allibita di Arno. “Non mi fraintendere! Avevi sposato mia sorella Claudia, quindi eravamo cognati.”
    Arno si rilassò all'istante alle risposte di Ezio, come se lui fosse stato un palloncino e qualcuno con uno spillo lo avesse sgonfiato. Non se n'era reso neppure conto, ma aveva persino trattenuto il respiro. La sua amicizia era davvero importante e anche solo l'idea che potesse sbiadire al lume di biechi scherzi del destino lo avrebbe devastato. Ma non era così. In ogni mondo esistente, erano destinati a essere amici, compagni d'armi, addirittura parenti. Almeno quello il Fato non glie l'avrebbe mai sottratto.
    "Ti prego non dirmi che tua sorella Claudia aveva i capelli rossi... Ma soprattutto, dimmi che con lei sono stato felice..." la sua voce uscì fuori scherzosa, ma dentro un po' tremava. La domanda gli era venuta spontanea, facendo un collegamento diretto con la battuta precedente di Ezio.
    “Claudia era castana ma aveva un caratterino tutt'altro che dolce.” Ezio divenne serio. “Arno, non credo alla predestinazione. La vita dell'altro era solo sua e non influenzerà quello che sei e diventerai.” Tornò a guardare la sua amata campagna, i dolci pendii, le strade sterrate, i campi coltivati. Quella non era cambiata affatto rispetto a quando era ragazzo. Anzi, nella sua vita precedente i mutamenti erano stati più marcati, a causa del progresso tecnologico e industriale. Arno si era alzato in piedi, silenziosamente. Ezio gli diede un piccolo buffetto alla spalla. “Pandia mi starà aspettando con la cena pronta. Riprenderemo il discorso quando vuoi, ma sono lieto di averne parlato con te.”
    "Vai, vai, il pensiero di una sola Guerriera mi basta, non voglio mettermene contro qualcun altra per rapimento del suo compagno..." Arno si ritrovò a guardare Ezio, le iridi marine adesso molto più serene. "Ma grazie per avermelo detto... Adesso togliti dai piedi mi hai distratto abbastanza con questo tuffo nei ricordi, sciò!" Lo spintonò appena, attento a non fargli perdere l'equilibrio. E fu lieto di ritrovare un sorriso spensierato anche sul volto dell'amico, prima di vederlo saltare sui rami dell'albero di fronte e toccare terra. Era arrivato il suo momento per godersi attimi di pure felicità. Era certo che presto sarebbe toccato anche lui. Almeno lo sperava con tutto se stesso.


    Edited by Illiana - 18/3/2021, 18:47
     
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