Present Day #2021: Mandalore

Season 6

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    Annarita
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    Amavo il silenzio, mi ci ero sempre trovato bene fin dai tempi dell’addestramento. Avevo una naturale propensione a osservarlo, sia con la voce ma soprattutto col corpo. Per questa ragione avevo scelto una casa lontana dal centro di Mandalore, più vicina invece alle pendici di una piccola cascata che si infrangeva in un laghetto d’acqua trasparente. I suoni della natura erano diventati la mia unica compagnia e ne ero diventato profondamente geloso. Con fatica ero riuscito a raggiungere la mia dimensione ed ero sempre stato convinto che l’avrei difesa con unghie, denti e armi se necessario… ma mai avrei immaginato che l’arrivo di una persona esterna avrebbe portato un nuovo equilibrio, addirittura migliore del precedente. La mia casa era diventata nostra. Diversi angoli portavano la chiara impronta di una presenza femminile, senza però invadere quella spartana che negli anni aveva assunto, sotto il mio diretto controllo. La cucina, il salottino, la camera padronale erano diventati suo appannaggio; una piccola stanza – che inizialmente era l’armeria – era diventata la mia camera da letto. Avevamo bisogno di spazi separati per sostenere le regole del credo, che mi impediva di mostrarle il volto, ecco il perché di questa soluzione. Con l’andare del tempo, però, queste divisioni si erano fatte meno nette, soprattutto da quando – complice il buio – mi ero tolto il casco in sua presenza. Durante i periodi senza missioni, la notte avevamo cominciato a condividere la stanza principale. Il letto era meno grande in due, ma dormendo vicini avevo scoperto che lo spazio non era una condizione importante. Un pezzo alla volta, l’armatura era venuta via, troppo scomoda per accogliere tra le braccia il corpo morbido e caldo di Omera. L’unica regola imprescindibile era che ogni cosa sarebbe dovuta avvenire nella più completa oscurità e per garantirmi ciò, lei aveva realizzato delle tende pesanti da affiggere alla finestra. Le tirava la sera e le scostava solo quando io me n’ero già andato.
    Avevamo raggiunto un ottimo compromesso, forse il migliore a cui avrei potuto ambire… Avevo però scoperto che dormire assieme era dolce e doloroso assieme. I miei muscoli reagivano a ogni suo tocco, carezza, respiro. A volte, mi trovavo costretto ad alzarmi perché non volevo innervosirla con il mio muovermi agitato, accaldato, spesso sudavo come se avessi addosso la mia armatura. Altre notti invece, crollavamo esausti per la stanchezza e allora nulla di tutto ciò accadeva, potevo godere della sua vicinanza senza temere di disturbarla.
    Negli ultimi tempi, in attesa di notizie da parte degli Jedi, avevo preso un incarico piuttosto spinoso che mi aveva tenuto lontano da casa per diversi giorni. Fui di ritorno all’alba di una giornata che si preannunciava calda e afosa. I soli dovevano ancora spuntare e il mio desiderio era quello di far trovare a Omera – al suo risveglio – una specie di colazione. Avevo viaggiato su un pianeta famoso per alcune sue prelibatezze, tra spezie e dolcetti fatti a mano grazie a una sapienza antica.
    Attento a non far rumore, avevo preparato il caffè, una tazza della sua tisana preferita, una spremuta di pompelmo a cui vi aggiunsi dei fiori di anice che lei adorava. Poi, scaldai il mio bottino culinario: focaccine dolci e piccanti, paste di leggera sfoglia ripiene di creme assortite di cui non conoscevo neppure il nome, biscotti di frutta secca. Al termine di questo arduo compito, mi resi conto che mancava una cosa essenziale, che lei non dimenticava mai… fiori freschi sul tavolo. Riuscii a racimolare delle margherite rosse selvatiche… non ero del tutto soddisfatto, ma mi sarei dovuto accontentare.
    Meditai di fare prima una doccia per darmi una sistemata, ma tra non molto sarebbe giunta l’ora in cui lei si alzava di solito e desideravo andare a svegliarla di persona. La luce del giorno stava lentamente inondando il salottino, trasformandolo in un gioiello dalle tonalità rosso-dorate, non potevo attendere oltre. A passo lento, mi avviai verso la camera, ma solo quando notai la porta semichiusa e una sfera di luce fuoriuscire dalla fessura un piccolo campanello di allarme mi colse: che fosse uscita? E dove era andata così presto? Al lago di sicuro no, ci ero passato prima di arrivare in casa, l’avrei di certo vista. Non mi restava che entrare e cercarla, con il cuore un po’ in tumulto perché già la speranza di vedere i suoi occhi schiudersi grazie al mio leggero richiamo era sfumata via…
    Appoggiai una mano sulla porta e la scostai un po’, stavo per chiamare il suo nome ma mi bloccai all’improvviso. Omera era dentro, le mani appoggiate sul davanzale della finestra, il viso rivolto verso i soli nascenti. Le palpebre erano abbassate e il suo profilo deciso era ammorbidito da raggi luminosi. Il busto era coperto da un telo da bagno che arrivava a metà coscia, le spalle – e la cicatrice che tanto odiavo – in bella vista, mentre i capelli umidi erano appoggiati su un lato.
    Forse per il caldo aveva deciso di fare un bagno prestissimo e solo ora veniva fuori dalla doccia, bagnata… certo, ovvio che lo era! E per questo non aveva udito il mio affaccendamento in cucina… Dovevo cercare di ragionare. Non potevo star lì a guardarla senza palesarmi ancora per molto tempo, ma qualcosa mi tratteneva dal rivelare la mia presenza. La sua espressione rilassata? Il colore della sua pelle bronzea colpita dall’alba? Le forme del suo corpo che raramente avevo avuto modo di ammirare? Non ne avevo la più pallida idea, sapevo solo che mi ero trasformato in una statua di cera… che si stava sciogliendo dall’interno. Ancora quella sensazione di forte calore allo stomaco e al basso ventre… Omera mi aveva spiegato che era normale, ma io ogni volta mi sentivo come se fossi ammalato, anche se pian piano mi stavo abituando.
    Passione, ecco come l’aveva chiamata lei. Sì, in questo momento mi sentivo molto appassionato… e quando intuii che stava per togliersi l’asciugamano per vestirsi, il primo istinto fu quello di serrare l’uscio di colpo per proteggere la sua intimità; tuttavia, il secondo istinto fu più perentorio: bussai leggero sulla porta. Perché continuare a guardarla come un ladro quando ormai la consideravo la mia Cya’re [amata]? E chissà forse sarebbe diventata qualcosa di più… non solo nella mia mente…?
    “Mando?” Aveva alzato il volto di scatto, era talmente immersa nei pensieri da non avermi neppure percepito.
    “Sì, sono io. Posso entrare?” Una domanda retorica la mia, riuscivo a vederla anche se parzialmente e le sue guance si erano colorate ma non di imbarazzo, era gioia quella che scorgevo? Forse anche un pizzico di confusione. Speravo di non averla urtata col mio arrivo improvviso, decifrare le sue espressioni era una pratica su cui ancora avevo molto da imparare.
    “C-Certo! O-Ovvio! Sei già tornato che piacere, scusa io...” Ecco, solo ora stava realizzando in quali "condizioni" l’avevo sorpresa. “Non ho sentito ero così presa dal bagno prima e dal paesaggio adesso... ehm... spero che non ti infastidisca...” Ora mi spiegavo la sua confusione e agitazione, non voleva turbare il sottoscritto. Peccato che il turbamento fosse già alle stelle, assieme alla passione, ma non poteva sapere ciò che avevo fatto prima, perciò mi limitai ad annuire in silenzio mentre facevo il mio ingresso nella camera.
    “Dovrei essere cieco o stupido per far sì che tu riesca a infastidirmi. Piuttosto, perdona la mia invadenza, avrei dovuto annunciarmi a dovere… solo che pensavo fossi ancora addormentata ed ero venuto a svegliarti… Era troppo presto quando sono arrivato…” D’accordo, la mia frase iniziata con un certo carisma, aveva perso via via qualsiasi attrattiva fino a farmi sembrare un perfetto idiota, ma anche a questo ormai ci ero abituato.
    Omera si portò una mano alla bocca e sorrise. Il suo non fu un sorriso di derisione, al contrario, mi parve così tenera che smisi di respirare. Le cose non migliorarono quando lei si avvicinò, posò le mani ai lati del mio caso ed eseguì un Kov’Nyn a occhi chiusi. Ero sempre in apnea, ogni volta che lo faceva, come se fosse la prima.
    “Non scusarti per la tua invadenza, personalmente credo che dovresti esserlo di più...” Il suo sguardo era malizioso, mentre tornava a fissarmi dritta nella visiera. Mi sentivo nudo, senza protezioni, nemmeno il metallo Nh avrebbe potuto nulla contro quella sensazione di lava che scorre. Io stavo cercando le parole giuste per ribattere quando il suo sguardo cadde oltre le mie spalle, attraversò la porta spalancata e intravide qualcosa. “Son certa di non aver ancor messo nessun fiore fresco in tavola, eppure intravedo delle splendide margherite rosse...” Non potevo averlo immaginato il tono suadente con cui aveva pronunciato il colore dei fiori…
    “Le ho trovate fuori, non sono intenzionali. Insomma, sì, volevo mettere dei fiori in tavola, ma non ho trovato nulla di più adatto…” Ecco ero decisamente nel panico, perciò sbuffai, appannando la visiera come un dilettante. Intanto, avevo preso le mani di Omera e le stringevo nelle mie come se fosse un’àncora a cui aggrapparsi. La vidi fissare quell’intreccio e abbandonarsi a un sorriso.
    “Io le trovo perfette...” concluse con tranquillità. “Dimmi dunque, mi stavi cercando... era solo per dirmi che eri tornato o...”
    Sospirai, non sapevo bene se di sollievo o di apprensione. Come al solito, quando ero al fianco di Omera tutte le mie normali reazioni andavano a farsi benedire. "No, cioè sì, ero venuto ad avvisarti del mio ritorno, ma c'è una cosa che ho preparato... volevo fartela vedere..." La presi per una mano e feci per condurla nel salottino, era l'unico modo per mettere fine a quella scena a dir poco patetica. Poi mi bloccai, la percorsi con lo sguardo e mi diedi dell'imbecille. "Forse, vuoi prima vestirti... immagino..."
    “Perché… tu vuoi che lo faccia?” mi chiese genuinamente e senza aspettare una mia risposta, incatenò le sue dita alle mie e mi seguì. Una volta di fronte al desco preparato con cura, Omera quasi boccheggiò per la meraviglia e gli occhi le si riempirono di piccoli cristalli luminosi. “M-Mando è... è... bellissimo... è... Mai nessuno ha fatto qualcosa del genere per me, sai? Non sai quanto vorrei baciarti ora...” Abbassò lo sguardo, forse pentita di ciò che aveva confessato di slancio. Continuavo a faticare a respirare, ma fu la sua genuina emozione a mandarmi in frantumi... anche se in senso positivo. Il respiro si fece affannato e ascoltando le sue parole, il suo desiderio, la strinsi al mio petto in un abbraccio che voleva trasmetterle un unico messaggio: anche io avrei voluto baciarla in questo preciso istante. Perché, perché doveva essere tutto così complicato? Non me lo ero mai chiesto prima e ora ne capivo il motivo. Nessuno si era mai donato a me in tal modo, né io lo aveva fatto mai con altri.
    "Perché non assaggi qualcosa? Poi potremo riposare un po' assieme nella nostra camera, che ne pensi?" Ero stremato dalla stanchezza era vero, ma il bisogno di sentirla vicina stava diventando troppo impellente. Non avrei chiuso occhio neppure costretto.-
    “Credo sia un'idea perfetta...” sussurro lei di rimando con le labbra a pochi centimetri dal mio casco, ancora stretta a me. Poco dopo, come una bimba di fronte alla tavola delle feste, pareva indecisa: allungava una mano, ma poi virava su un'altra portata. Alla fine scelse un dolcetto colorato e saggiandolo chiuse gli occhi per assaporarlo al meglio. “Mmm che prelibatezza! Mi spiace che tu non possa goderne, promettimi che metterai via qualcosa e più tardi li assaggerai anche tu...”
    Per me fu come ritornare alla vita a ogni suo singolo morso. La sua espressione estasiata era la ricompensa che anelavo e mi ripagava delle infinite gaffe compiute lungo il percorso. Ero seduto composto, come al mio solito, ma solo a un certo punto mi ero reso conto di essermi sporto verso di lei, come una calamita fa con il magnete di carica opposta.
    "Questo è tutto per te, io li ho mangiati sul posto... Su, non ti fare problemi..." Non era del tutto vero, durante le missioni raramente mi concedevo dei pasti seri ma non avrei sottratto neppure una briciola a quella goduria di assaggi.
    “È raro godere di tali bontà è stato molto gentile da parte tua pensare a me, non è scontato, sai?” mi domandò un po’ retorica, prima di mordersi il labbro inferiore. “E credo che del sano riposo ci farebbe bene... magari potrei farti un massaggio, alle spalle per allentare le tensioni...” Si rendeva conto di star osando su un terreno un po’ traballante, ma con la sua delicatezza non risultava mai fuori luogo.
    "Per me è scontato pensare a te... ogni momento. Appena ho visto le focaccine mi sono ricordato di quella volta che hai provato a riprodurle tu... ma qui le materie prime non sono così buone... e allora, niente, ho portato un po'di cose che di sicuro ti saranno utili" spiegai sincero. Poi la guardai un po' meglio e mi resi conto che sotto gli occhi c'erano degli aloni più scuri. Non aveva dormito bene? Anche lei aveva decisamente bisogno di riposo. "Perché sei così stanca? Non hai riposato in questi giorni?"
    “Non te lo posso nascondere...” Fece una pausa, ma riprese subito dopo a parlare. “Armorer mi ha affidato dei primi incarichi in solitaria, nulla da allontanarmi molto, ma abbastanza per farmi iniziare a camminare da sola... Mi spiace solo che tu te ne sia accorto, uso qualche rimedio naturale, ma... ahimè non riescono a cancellare del tutto questi brutti segni sul mio viso...”
    La prima sensazione che percepii fu di estremo orgoglio, se Armorer aveva deciso di affidarle i primi incarichi, era chiaro che la considerava all'altezza. Subito dopo arrivò la preoccupazione, per la sua incolumità. Ancora dopo, provai rammarico nel constatare che il suo pensiero fosse come appariva ai miei occhi... "Sono fiero dei tuoi primi incarichi, davvero..." dissi deciso, ma continuai senza esitazioni. "Sei bellissima sempre, temo solo per la tua salute... devi approfittare di ogni momento per recuperare le forze anche se a volte le condizioni non sono delle migliori..." Il minimo che potevo fare era darle qualche trucchetto. Solo che ora premeva più a me che terminasse di mangiare a sazietà e si mettesse a letto.
    “Non lo fare, temere per la mia salute intendo... Devo solo riposare, dunque bando le ciance e... ”
    Alzandosi, Omera ripose quel poco che di squisito era avanzato, poggiò le stoviglie nel lavandino e prendendomi per mano mi condusse in camera, poi sparì dietro il paravento per cambiarsi.
    “Sarò lieta di accettare suggerimenti su come riposare al meglio in missione, è chiaro che ho ancora tanto da imparare” la udì dire al di là del riparo.
    Mentre mi toglievo l'armatura, pensavo a quello che mi aveva detto, sul fatto che non dovevo preoccuparmi per la sua salute. In realtà, mi sembrava una cosa molto normale... ma forse non era così. Se fosse diventata la mia Riduur sarebbe stato invece regola imprescindibile, la cura del suo benessere sarebbe stato un mio dovere.
    La luce inondava la stanza, perciò prima di togliere il casco mi sedetti sul bordo del letto e attesi che lei tirasse le tende. Solo allora levai anche il copricapo e mi parve di ritornare a respirare. Il suo profumo arrivò aromatico, portava con sé le spezie delle delizie appena mangiate e quando appoggiò le sue mani sulle mie spalle, iniziando a massaggiarle, sussultai. "Il trucco è trovare un luogo sicuro, dove sai che non potrai essere preso alla sprovvista, dopodiché usi il casco... o beh, quando lo avrai... come cuscino e protezione, chiudi il mondo fuori spegnendo la visiera ed entri nel mondo onirico. Pochi minuti, con questa tecnica, valgono ore di sonno profondo." Quando mi trovavo al suo fianco senza armatura né casco mi sentivo come se fossi nudo e in un certo senso era così...
    “Ti ringrazio, sono in perenne accrescimento e conoscimento, ci tengo a diventare una brava Mandaloriana, sai ogni giorno che passa la sento la mia natura, una che per tanto ho cercato!” mi confidò in un sussurro, mentre le sue mani si muovevano decise per sciogliere i muscoli tesi. “Vedere la gioia dei bambini ogni volta che porto loro delle ricompense mi rigenera...” Notai una nota materna e malinconica nella sua voce.
    Abbassandosi leggermente, i capelli solleticarono senza volerlo il mio collo, mentre le sue mani scendevano lungo le mie braccia e il suo sussurro caldo arrivava al mio orecchio. “Vieni... riposiamo un po'...”
    “Hai desiderio di diventare madre, un giorno?” La mia domanda arrivò spontanea, senza che me ne rendessi conto, mentre mi sdraiavo sul letto e aprivo un braccio per far sì che lei potesse accoccolarsi sul mio petto, come di consueto. Omera arrivò puntuale, il suo viso adagiato sul pettorale rivestito solo da un leggero tessuto di lino; la sua gamba alzata fino a intrecciarsi alla mia; il suo ginocchio all’altezza del mio ventre di già rimestato per le emozioni che faticavo – come sempre – a controllare e decifrare. Omera si abbandonò a un sospiro profondo e mi allarmai non poco. Forse, avevo toccato un tasto troppo dolente? Infatti, la sentii irrigidirsi contro di me, anche se per pochi attimi, poi tornò a rilassarsi.
    “Sì...” rispose infine, la percepii alzare il viso e sapevo mi stesse guardando anche se l’oscurità era totale. Con un dito disegnò il mio profilo. “Non ho mai visto la maternità come una debolezza. C'è questa idea errata nella società che una donna che desidera essere madre sia una donna che rinuncia a se stessa e al suo percorso di vita. Una madre è una casalinga, una donna che si occupa solo del focolare domestico... secondo me no. Una madre è una Guerriera che ha un motivo in più per combattere, che ha una dose maggiore di coraggio e di determinazione per rendere la realtà in cui vive migliore, più equa, per chi dopo di lei verrà...”
    Non c’era una risposta sensata a quelle parole accorate. “Secondo me, saresti un’ottima madre e… anche una magnifica moglie… Non esiste la perfezione, ma se esistesse tu ci saresti molto vicina… Confida in questo e non potrai che avere successo, in tutto ciò che farai… I tuoi primi incarichi lo dimostrano.” Avevo parlato con voce calma, mentre la sua mano accarezzava la mia mascella e tremava un po’. Io ero stranamente saldo…
    Le sue labbra si avvicinarono alla mia guancia, la sfiorarono appena e anche se non pronunciò alcuna sillaba, percepii la serenità e felicità. Poi tornò a rannicchiarsi contro di me.
    “Riposiamo ora, qualcosa mi dice che sarà un'intensa giornata...”
    Diedi uno sguardo veloce al cicalino appoggiato sul comodino, anche io avevo la netta sensazione che avrebbe trillato a breve, perciò approfittai per godermi quei momenti assieme, che assomigliavano sempre di più a un vero miracolo.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 11/5/2021, 13:03
     
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    Roberta
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    L’acqua gelida scorreva sulle forme del mio corpo. La linea del mio profilo, le labbra carnose, la via in mezzo ai seni, l'addome… fino a cadere giù e schiantarsi sulle piastrelle candide. Amavo lavarmi con l'acqua fredda. Era come una sorta di catarsi che donavo al mio fisico, costantemente sottoposto a temperature altissime, asfissianti, costretto all'interno di un armatura integrale e impenetrabile.
    La mattina, appena sveglia, mi dedicavo alle mie abluzioni prima di indossare la corazza in senso fisico e metaforico.
    Tamponai spalle, braccia e gambe con un telo di tessuto grezzo, e poi mi avvolsi al suo interno, in attesa di concludere il mio rituale mattutino.
    Mi sedetti davanti allo specchio, quasi l'unico pezzo di arredamento nelle mie stanze. Avevo fatto togliere la maggior parte della mobilia pregiata che aveva decorato il Palazzo Reale di un tempo, lasciando solo il minimo indispensabile. Infatti, quella superficie riflettente non rappresentava né un vezzo, e tanto meno un invito alla beltà. Aborrivo la vanità e ogni senso estetico eccessivo che allontanava dalla Via e dai nostri valori di combattenti. La stessa armatura che indossavamo lo testimoniava a gran voce.
    Presi una spazzola e iniziai a pettinare i lunghi capelli ancora umidi. Arrivavano quasi al ventre e ogni volta era sempre più difficile trattarli. Quando superavano quella lunghezza li accorciavo da sola. Avrei potuto benissimo tagliarli, per maggiore comodità, ma mi ero rifiutata trincerandomi dietro una motivazione in apparenza sciocca, ma per me di vitale importanza. Era un ricordo di me bambina, sporca di fango e con un'arma in mano. I capelli erano cortissimi e alla mia tenera età, nulla avrebbe potuto distinguermi da un maschio, non in senso solo estetico. Mi considerava tale, lui mi trattava come tale. Mi allenavo, lottavo, a mani nude, con la spada e degli stupidi capelli lunghi sarebbero stati di intralcio, un vezzo femminile da aborrire, distruggere.
    Quando poi lui non era più tornato, ero rimasta sola con me stessa. Ormai proprietaria di diritto della mia armatura, avevo deciso di allungarli. Era la mia silente e personale rivalsa.
    Li intrecciai con cura su una spalla e poi arrotolai la treccia sulla testa. Dovevano restare ben ordinati. Neppure una ciocca sarebbe dovuta venire fuori dal casco.
    Mi guardai attentamente per l'ultima volta, l’acconciatura era perfetta, il mio viso non allo stesso modo, ma non ne me curai. Indossai gli abiti leggeri necessari e poi la corazza, gli spallacci, i gambali e per ultimo, nascosi le mie fattezze sotto il casco impenetrabile.
    Dovevo andare… avevo un incontro importante.
    […]
    Come tutte le mattine, anche quel giorno mi recai all'orfanotrofio a trovare i miei bambini. Ormai da tempo immemore avevo preso l’abitudine di accompagnarli mentre facevano colazione. Adoravo farlo. Pura gioia mi invadeva nel vedere i più piccoli e più grandi condividere il momento più importante della giornata, che precedeva quello più faticoso. Lo studio e l'allenamento.
    Entrai nel salone grande attraversando un arco monumentale in pietra. La sala era allestita con lunghi tavoli di forma rettangolare disposti in parallelo. I posti a sedere erano molti, ma non tutti erano occupati. I primi in ordine per chi accedeva, erano dedicati ai bambini, che non appena mi videro, iniziarono ad agitarsi, ad alzarsi e a venirmi in contro con un gran vociare. Tutti intorno a me per il saluto del mattino. I più grandetti, nei tavoli più lontani, coloro che avevano appena iniziato a indossare parti di armature, mi guardavano con rispetto, a distanza e mi salutarono con cenni solenni del capo. Erano cresciuti tanto e giorno dopo giorno acquisivano le movenze e le attitudini di Mandaloriani fatti e finiti. Mi attardai qualche minuto con i bimbi più scalmanati, gli accarezzavo i capelli o elargivo qualche parola dolce. Quando i volontari, che a rotazione si occupavano della mensa, suonarono la campanella, tutti seppero che la colazione era pronta. I bimbi si disposero in fila e si diressero con i vassoi verso le pietanze messe in fila insieme alle bevande. I più grandi attesero il proprio turno e quando tutti si furono serviti, tornarono a sedere in maniera ordinata.
    La disciplina era alla base della Via e imparare a dominarsi era fondamentale, un valore insegnato fin dalla tenera età, ma non eravamo dei vessatori e non approfittavamo mai della nostra autorità. Ero fermamente convinta che l’addestramento avesse delle tappe e delle età ben definite. L'infanzia era sacra e proprio in virtù del fatto che molti dei nostri trovatelli venissero da realtà violente e crudeli, volevamo fortemente che la loro permanenza nel nostro mondo diventasse un punto fermo, un nuovo inizio, per divenire uomini e donne migliori.
    Alla fine andai a sedermi. Ovviamente non avrei mangiato. Avevo sbocconcellato qualcosa nelle mie stanze, prima di uscire. In quel gruppo, solo pochi avevano ricevuto il casco. Ancora si trovavano in una fase in cui potevano toglierlo al cospetto dei propri compagni. Man mano che avanzavano di età e di maturità nell’addestramento, avrebbero dovuto ritirarsi e mangiare per conto proprio. Era un percorso di gruppo prima, che sfociava in uno più personale e interiore.
    Li conoscevo uno per uno, poiché ad ognuno di loro avevo costruito i pezzi di metallo che decoravano fieri i loro corpi.
    Si rivolgevano a me con reverenza e rispetto. Avrei preferito più familiarità, e in più di un'occasione l'avevo anche chiesta, ma tutti i ragazzi mi consideravano come un superiore, una figura al di sopra di loro.
    Non potevo fare molto per cambiare una simile visione, se perfino i loro addestratori mi vedevano come qualcosa di più di una guida, quasi una regina.
    Scacciai quel pensiero. Non volevo neppure tenerlo in conto. Io desideravo il bene del mio popolo e avrei fatto di tutto per sostenerlo, con ogni mezzo. I miei fratelli prima di ogni cosa, anche prima di me. Non mi interessavano gli appellativi o i ruoli altisonanti. Finché avrei avuto la possibilità di guidarli con onore e serietà lo avrei fatto, fino al mio ultimo respiro.
    Dopo che in giovani ebbero finito di mangiare, li lasciai andare affinché si dedicassero alle loro mansioni. Quando tutti si allontanarono, uno di loro restò, aveva il casco tra le mani, stava per indossarlo, ma era evidente che voleva parlarmi prima.
    “Dimmi ragazzo. Non devi temere nulla, tanto meno me.” dissi con voce paziente. Allora, il ragazzo alzò il mento in una posa marziale e parlò.
    “Io… io volevo ringraziarti. Per tutto quello che fai per noi, per essere chi sei. La nostra guida, la nostra ispirazione. I tuoi consigli sono preziosi come il metallo che forgi. Grazie! Solo… questo.”
    Adesso che aveva buttato fuori quelle parole sembrava più rilassato. Forse era da tanto che ci rimuginava su e solo adesso si era deciso a parlarmi. Il mio cuore si gonfiò di orgoglio, di tenerezza, di forza. Percepivo ogni singola sensazione con una vividezza quasi tangibile. Non ero fiera di me e di come mi aveva dipinto, bensì ammiravo l’onestà e la purezza del suo animo. Mi avvicinai a lui e presi il casco che aveva tra le mani. Io stessa lo appoggiai sul suo capo e poi lasciai i palmi dov’erano. Era ciò che più poteva assomigliare a una carezza. Volevo mi sentisse vicina.
    “Sono solo un’umile serva della Via. Sono felice che mi prendi ad esempio, ma sappi che il tuo cuore ha tutte le carte in regola per diventare un grande Mandaloriano, retto, onesto. Ricordati… io sarò sempre qui per te, per tutti voi. E tu, in futuro, farai lo stesso per i tuoi fratelli. Questa è la Via” Il ragazzo alzò la testa e io sapevo che mi stava fissando con intensità. Aveva recepito il messaggio. Seguì i suoi compagni e io mi avviai verso la mia fucina, era quello il mio regno.
    Attraversai una delle vie principali della città che la tagliavano a forma di croce e arrivai alla piazza centrale. Qui era affissa la bacheca utilizzata dai miei fratelli per recuperare le missioni dei vari clienti, che arrivavano da tutto il Sistema.
    Non ci ponevo mai attenzione, non era mio compito vagliare le richieste e carpire informazioni. Ma un'energia sconosciuta mi costrinse a piantare i piedi nel terreno, proprio all'altezza dell’enorme parete in legno. Voltai il capo e l'occhio cadde su una missione in particolare. Chi avesse potuto guardarmi al di sotto del casco, avrebbe visto la fronte corrucciata e le labbra strette in una linea dura. Non mi soffermai. Raggiunsi rapidamente la forgia e una volta lì feci convocare le due persone di cui più mi fidavo. Solo a loro avrei potuto avanzare la mia richiesta, del tutto fuori da ogni protocollo e regola.
    […]
    Nell’attesa mi ero messa a lavoro su un gambale. Uno dei miei trovatelli se lo era meritato.
    Udii dei rumori di passi e feci una pausa. Quando alzai il capo ritrovai Din e Omera a fissarmi. Di Din potevo intuire l'attesa placida, Omera aveva stampato in volto un sentimento di preoccupazione. Ogni volta che l'avevo convocata era stato per assegnarle delle semplici missioni.
    Nel suo caso, avevo supervisionato personalmente le sue scelte per farla iniziare con i pericoli minori e assicurarmi che acquisisse la giusta esperienza senza particolari rischi. Mi aveva stupita in maniera positiva. Era sempre pronta, scattante e prodiga verso la causa. Sarebbe diventata una Mandaloriana valorosa. Lo sentivo dentro. Proprio per questo, stavo valutando la possibilità di donarle il casco, a completamento della sua armatura. Quello sarebbe stata la meta ultima che l'avrebbe consacrata alla Via, sebbene sapessi che dentro il suo cuore e nella sua mente, Mandalore aveva scavato un posticino sicuro, ben ancorato alla sua volontà di proteggerlo.
    Mi riscossi dalle mie riflessioni. Non potevo far attendere oltre i miei ospiti. Lasciarli ancora sulle spine, li avrebbe fatti preoccupare oltre misura.
    Gli feci cenno di sederci al tavolo che usavo per le riunioni e lì mi apprestai a fare qualcosa di assurdo.
    “Scusate l’urgenza con cui vi ho convocati. La questione è di vitale importanza.” Non mi interruppero. Sapevano bene che c'era dell'altro.
    “Questa mattina sono passata davanti alla bacheca delle missioni. Una di queste ha attirato la mia attenzione. Come ben sapete non ho mai esercitato alcuna ingerenza sui lavori scelti dai miei fratelli. Solo nel tuo caso, Omera, del tutto particolare, mi sono permessa di seguirti nel percorso.” Lei mi guardò con sguardo riconoscente.
    “E i tuoi consigli sono stati fondamentali per me. Ti ringrazio.”
    “Non hai nulla di cui ringraziare. Stai facendo il tuo dovere con onestà e saggezza. Io ho potuto solo indirizzarti sul sentiero per seguire la Via, senza rischiare la vita. Tutto ha i suoi tempi. Ma non divaghiamo…” La mia voce si era fatta più dura, senza volerlo. Non potevo allontanare troppo il discorso che mi premeva di più.
    “È necessario che vi rechiate alla Bacheca per assicurarvi una missione. Solo voi potrete portarla a termine. Ci sono buone probabilità che l’obiettivo sia o abbia a che fare con il ‘giovane figlio’ descritto nella profezia.” Da quando gli Jedi erano entrati nelle nostre vite, molti equilibri erano saltati e questa strana forma di alleanza mi metteva in allerta, sempre sul chi va là. Non mi fidavo, ma allo stesso tempo, non potevamo lasciare nulla di intentato, se il nostro mondo fosse stato davvero in pericolo.
    “Quali sono le caratteristiche della missione. Come la riconosciamo?” Din era intervenuto senza la minima esitazione. Io mi sentivo come se avessi profanato un luogo sacro. Mi sentivo in difetto nei riguardi di regole per noi fondamentali. Ma al cospetto dei miei interlocutori non mi sarei giustificata. Era la decisione giusta da prendere, sebbene difficile. Altri non avrebbero compreso il vero senso di tutto quello che stavamo affrontando.
    “L’obiettivo è una persona dell’età di diciotto anni. Il Cliente mette a disposizione l’ultima posizione rilevata e un localizzatore. Deve essere recuperato vivo. Il pagamento ammonta a una cassa di metallo Nth.” Ero stata precisa e concisa.
    Non vi era molto altro da dire. Dovevamo fare in fretta.
    “Accettate entrambi la missione?” chiesi con una formula di rito.
    Sia Din che Omera dissero un “Sì” in contemporanea. Vedere quei due insieme, all'opera, mi riempì il cuore di speranza e di sicurezza. Ero certa che loro fossero le persone adatte per affrontare i rischi che una simile scelta comportava.
    “Adesso vi prego, andate. Il tempo è prezioso. Recuperate questa missione prima che un altro dei fratelli la individui. A quel punto, non potrò fare più nulla per impedirgli di partire. È vitale che siate voi i prescelti. Andate e parlate con il Cliente. Questa è la Via.”
    Speravo con le mie parole di essere stata chiara e di avergli trasmesso le mie sensazioni di urgenza. Dovevamo scoprire in qualche modo, contro quale minaccia avremmo dovuto combattere.
     
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    Asportai dalla mia divisa tutte le mostrine e i segni di riconoscimento dell'appartenenza e del rango all'interno dell'Ordine. Le depositai meticolosamente dentro uno scomparto estraibile a fianco del cockpit del mio caccia stellare. Avevo trovato un riparo ottimale per il mio A-Wing, al sicuro da possibili sottrazioni o danneggiamenti. Ero sempre oltremodo prudente quando mi muovevo fuori dall'area di controllo delle nostre truppe, e il pianeta Mandalore era appunto una delle zone non soggette alla nostra influenza.
    Uscendo dall'abitacolo venni accolto dalla luce densa del pianeta. Per i miei occhi abituatisi da poco nuovamente alla luminosità del sole sulla Terra, dopo secoli passati nella relativa penombra dell'ambiente lunare, ogni cambiamento minimo nelle condizioni di vita era ancora motivo di un frenetico adattamento per i miei sensi. Questo pianeta, almeno per la zona che finora avevo potuto osservare dal velivolo atterrando, appariva come un ambiente prevalentemente desertico. Le strade erano polverose e la vegetazione scarsa e legnosa, abituata a crescere senza molta umidità.
    Estrassi da una tasca della tuta, ormai un'anonima tuta blu da volo, un paio di occhiali con lenti a goccia per proteggermi dai raggi ultravioletti. Percorsi a piedi in pochi minuti il tratto di strada per raggiungere il piccolo agglomerato di case che costituiva la base dei Cacciatori di Taglie. Eseguii velocemente la prima parte del mio compito individuando la bacheca a cui dovevo affiggere l'annuncio con la richiesta di un contratto. Osservai per qualche secondo il tabellone: sulla parte superiore, quella con le ricompense più lucrose, non c'erano che poche missioni a disposizione, mentre più in basso fioccavano missioni di un livello più modesto: richieste, recuperi, trasporti. Sistemai la mia in alto: una cassa di metallo prezioso si poteva ben dire che fosse una ricompensa allettante, pari al valore che la persona da trovare aveva per noi. Mi auguravo solo che il pagamento considerevole e speciale avrebbe attirato candidati all'altezza del compito, e non individui maldestri che potevano danneggiare la “mercanzia”. Voltai la schiena alla parete e cercai con gli occhi una taverna o un luogo simile dove avrei aspettato il mio contatto. Contavo di non dover attendere troppo.
    Qualche giorno prima ero stato convocato in maniera riservata direttamente dalla persona al vertice del nostro Ordine, monsieur Mahkent. Avevo risposto con sollecitudine a quella chiamata, ovviamente non c'era altro modo con cui farlo. Quando l'uomo più potente dell'Ordine, il deus ex machina del grandioso disegno templare, la mente dietro l'ordine Sessantasei richiedeva il tuo lavoro, l'impiego delle tue capacità, potevi solo ringraziare per il grande onore che ti veniva concesso.
    La riunione fu rapida e concisa. Mahkent fu come sempre di poche parole: le rare volte che si mostrava in pubblico nel suo ruolo di comando, ovvero alle riunioni di aggiornamento dove tutti i capi sezione erano presenti, interveniva molto di rado, limitandosi ad ascoltare con profonda attenzione i nostri interventi. Quando il suo sguardo gelido e calcolatore si posava su una persona, per quella era come se la pressione atmosferica aumentasse e premesse sulla testa e sulle spalle. Era una sensazione fisica, simile al peso invisibile che schiacciava il corpo al sedile durante una manovra in volo ad alto G di accelerazione gravitale.
    Sfiorai con finta noncuranza la giubba in prossimità della tasca dove portavo il trasmettitore che avrei dovuto consegnare al mercenario; Mahkent me lo aveva consegnato dicendo solo che era programmato per localizzare la traccia energetica di una determinata persona, e che avrei dovuto usare i famosi Cacciatori di Taglie di Mandalore per farla catturare il prima possibile oltre che viva.
    Non sapevo nulla di più. Non avevo chiesto. Non si chiedevano spiegazioni, quando chi avrebbe dovuto fornirle era l'individuo tra i più misteriosi e temibili che esistevano. Sul suo passato gravitava una coltre spessa e impenetrabile, che non accennava a diradarsi neanche dopo discrete ricerche che avevo compiuto usando le risorse migliori a mia disposizione.
    Non mi pentivo di aver riposto fiducia nella promessa di un futuro che sembrava impossibile da realizzare, e non ero caduto neanche un attimo nella debolezza del dubbio in quei secoli interminabili nei quali mi ero adeguato a servire un padrone che non avevo mai apprezzato seriamente.
    Il tutto, solo nella vaga speranza che quanto preannunciato da Kenway e dal prodigio di un oggetto arcano si avverasse. La mia fede era solida, non ero il tipo di persona che si faceva corrompere da tentennamenti senza senso e motivo. Inoltre, anche se li avessi ascoltati, non esisteva nessuno con cui condividerli: con gli altri prescelti non avevo mai desiderato condividere i miei pensieri al proposito.
    La Chiave dei Titani che mi aveva scelto mi concesse realmente una longevità in cui non avrei mai sperato, e non solo: insieme a quella, il mio corpo era diventato più forte e resistente a malattie o ferite, veleni o droghe. Era un'attitudine unica, legata all'entità che aveva creato e destinato le chiavi ad ognuno di noi. I miei compagni avevano ricevuto altre capacità, e non potevo dire di conoscerle nemmeno tutte. Solo osservandoli ero riuscito ad intuire il potenziale di alcuni di loro, ma si trattava di informazioni che, per motivi di cautela e di sospetto, tenevamo strettamente riservate. Eravamo stati accolti da questa razza aliena che sembrava benevola, ma non eravamo come loro. Non conoscevamo il loro modo di pensare, e per quanto ci avessero concesso piena fiducia, non era opportuno abbassare la guardia, mentre attendevamo l'arrivo del nostro momento.
    Svolgevo il lavoro a capo della sezione aerospaziale dell'esercito imperiale con precisione e massima attenzione, come d'abitudine. La facoltà di volare e i viaggi spaziali, che sulla Terra del diciottesimo secolo parevano un concetto impensabile, erano invece una parte integrante ed estremamente sviluppata della tecnologia aliena. Ricevetti dai loro istruttori un addestramento eccellente, non posso negare che per mesi rimasi stupito e ammirato delle loro conoscenze. Ma ogni nozione che imparavo e capacità che acquisivo, avevano un unico scopo nella mia visione delle cose: sarebbero stati un vantaggio in più che avrei apportato quando fosse arrivato il momento di conquistare l'autonomia nei confronti dei nostri padroni e tornare nel mondo che avevamo abbandonato, forti di tutte le strutture, gli uomini e gli armamenti che, di fatto, noi Templari stavamo già controllando.
    Il giorno in cui l'Ordine Sessantasei venne diramato, avemmo poco tempo per organizzarci e muoverci secondo gli ordini ricevuti. Da parte mia, avrei dovuto allertare gli uomini e approntare i mezzi militari sotto la mia responsabilità per effettuare il trasferimento della nostra organizzazione. Lo scopo era prima di tutto di sottrarre agli Eterni e agli Imperatori la possibilità di reagire. Era forse la fase più delicata, perché la situazione avrebbe potuto degenerare velocemente in uno scontro, con il problema di non poter determinare le conseguenze in termini di perdite.
    Mi dedicai con rapidità ai miei incarichi, come tutti gli altri avrebbero fatto a loro volta. Eravamo uomini e donne determinati e pronti per realizzare un progetto eccezionale, di portata straordinaria.
    Dopo aver organizzato tutti i velivoli per la partenza, tornai alla mia dimora. Trovai la mia consorte nel giardino in cui amava passare gran parte del suo tempo, intenta a curare un cespuglio di fiori molto simili alle rose terrestri, di un colore iridescente. Mia figlia Naija, di una bellezza delicata molto simile a quella della madre, pura rappresentante del lignaggio lunare, la stava aiutando ad innaffiare con una giara d'argento dall'impugnatura cesellata. Il vaso somigliava molto ai lavori sopraffini che creavo per gli occhi e il gusto della corte reale francese, dei pezzi unici e impagabili che qui invece erano oggetti di uso comune.
    Comunicai loro brevemente che avrebbero dovuto preparare in poco tempo le loro cose, che avremmo lasciato la casa e la vita attuale per abbracciare un progetto grandioso, mirabolante, visionario. Neanche con mia moglie avevo mai fatto parola della speranza che avevo riposto nel luminoso futuro promesso. Non lo ritenevo opportuno: era mia moglie, e davo per assodato che mi avrebbe seguito senza discutere.
    Ma avevo sottovalutato la mia orgogliosa Althea.
    “Trasferirmi sul pianeta dominato dai Devianti? Thomas, non puoi essere serio!” Non aveva mai amato il mio primo nome, preferendo il secondo, a suo dire molto più musicale. E io le avevo concesso questo piccolo capriccio, per amor suo.
    “Non ti preoccupare di questo, li scalzeremo in poco tempo. E quel mondo diventerà il nostro, di noi Templari.”
    “Ma non il mio! E non quello di mia figlia!!” Lei si animò in maniera repentina, come se avesse deciso di ribellarsi a qualcosa che non reputava più accettabile. Era una reazione che, sinceramente, non mi aspettavo, e che mi disturbava. Avevamo pochi minuti, poi i mezzi sarebbero decollati anche senza che i passeggeri fossero tutti a bordo.
    "Intendi rimanere qui? E privarmi della mia famiglia?” Strinsi le labbra profondamente contrariato. “Io vi amo e non voglio dover scegliere tra il mio dovere e il mio cuore...”
    “Ma lo farai, purtroppo. Hai preso la tua decisione senza pensare a noi. Alla moglie alla quale hai giurato devozione eterna e a tua figlia, che non perdi occasione per dire che è la perla più rara che possiedi.” Sorrise amaramente, poi aggiunse: “Lo vedo e lo so, che partirai comunque.”
    “Devo farlo. Ho dato la mia parola, prima ancora che mettessi piede qui sulla Luna. Prima che ci incontrassimo, prima di ogni altro giuramento, per quanto questo fosse importante ai miei occhi.”
    Mia moglie mi guardò, superando le mie motivazioni con un cenno della mano. “Quindi non c'è nulla che potrei dire o fare per farti desistere. E, per la verità, non lo desidero neppure...”
    Le sue parole riuscirono a farmi provare un dolore fisico che da tanto, tantissimo tempo non saggiavo. Furono uguali alla lama che mi trapassò il petto, uccidendomi. Mi aveva massacrato con leggerezza, quasi non ne avesse l'intenzione. Al contrario, sapevo che ponderava i suoi movimenti con grazia e accortezza. Ma qui terminava quello che conoscevo di lei. Era come se vedessi quella donna per la prima volta, in tutta la sua bellezza eterea e crudele.
    “Credevo mi amassi...” Accusai, scandendo le parole lentamente.
    “Una volta, ma è tanto che non è più così. Da quando ho riconosciuto la vera natura del tuo amore.”
    Gettai uno sguardo a Naija, immobile dietro la madre. Da lì a poco sarebbe stata una donna e non più una ragazza. Mi accorgevo solo ora come si fosse eretto, poco alla volta, un muro invisibile tra me e loro. Anche lei sarebbe rimasta qui, mi avrebbe abbandonato.
    “Non capisco cosa intendi. La mia famiglia siete voi, vi ho sempre protetto e dato il meglio che potevo.”
    “Esatto. Siamo qualcosa che tu valuti, che pesi in ricchezza e vantaggi. Ci ami come ami gli oggetti che possiedi. Allo stesso modo. Siamo dei trofei che sfoggi durante i ricevimenti e le occasioni ufficiali.”
    “Menti!” Sibilai, sentendo aumentare la furia. Come osava parlarmi a questo modo? Aveva lasciato da parte i modi dimessi con cui si era fatta amare per sfoderare un rancore scioccante. Accusarmi con ingratitudine e arroganza, senza considerare le attenzioni affettuose con cui la avevo trattata in ogni momento?
    “Thomas, no, non mento. E te ne renderai conto quando lascerai, da solo, questa casa, per seguire le tue ambizioni spropositate. Ci abbandonerai allo stesso modo in cui abbandonasti la tua precedente famiglia, perché non esiste un posto per noi, nella tua vita.”
    Non risposi perché rimasi senza parole. Irrigidii i muscoli del collo e delle spalle per non afflosciarmi davanti alle sue offese, troppo veritiere per non essere micidiali.
    “Temo che ti pentirai velocemente dell'arroganza che stai mostrando...” Rilanciai con rancore.
    “Non mi pentirò mai di non averti seguito nel compimento del vostro atto indegno di tradimento nei confronti dell'Impero!” Il silenzio scese pesante nel giardino. Non avevo più nulla da dire, la rabbia e la disperazione mi serravano la gola, ma al contempo mi impedivano di compiere un atto sconsiderato.
    “Addio, padre!” Il breve intervento di mia figlia fu come l'ultima mandata a chiave data ad una porta che sarebbe rimasta sprangata per l'eternità. Lasciai pochi minuti dopo l'abitazione che avevo considerato casa per un discreto numero di secoli, senza mai sentirla mia, sempre proiettato come ero nel futuro che si andava concretizzando.
    E ora, dopo mesi passati da quell'ultimo incontro, mi accorgevo quanto ancora mi feriva il senso di vuoto che aveva lasciato.
    Spostai con il dorso della mano ancora guantata la ciotola di zuppa che avevo ordinato nella locanda, in attesa del cacciatore di taglie. Avevo sperato che assomigliasse a quella che avevo assaporato, dopo molto tempo di esilio, nella mia amata città, ma non mi sarei potuto sbagliare di più. Era immangiabile, per i miei gusti.
    Alzai lo sguardo di scatto, avvertito dalla percezione di una cambiamento nell'ambiente che era pacifico e silenzioso. Irrigidii la mandibola trovandomi un uomo in piedi davanti al tavolo, a poca distanza da me, come se fosse sorto dal terreno stesso. Era molto raro che venissi sorpreso così nettamente, e la circostanza che fossi smarrito nei miei pensieri non era sufficiente per giustificare la facilità con cui quell'uomo di media corporatura, ma coperto da un armatura di tutto rispetto, si fosse potuto muovere sottotraccia.
    Feci un cenno verso una delle sedie vuote, indicando al nuovo arrivato di accomodarsi per prendere accordi, ma lui ignorò il mio invito. Con un gesto fluido estrasse la richiesta di contratto che avevo affisso alla bacheca da sotto il pettorale e lo posò sul tavolo, avvicinandola con due dita della mano.
    “Siete voi il committente di questa missione.” Non era una domanda.
    Staccai la schiena dallo schienale per recuperare a mia volta il trasmettitore, il piccolo oggetto di metallo con una piccola antenna estraibile e un led che si sarebbe illuminato all'avvicinarsi del bersaglio. “Le informazioni che deve sapere sono riportate sulla domanda, non è necessario altro. E' di estrema importanza che il soggetto mi venga consegnato vivo.”
    “Diciotto anni, essere umano, localizzato per l'ultima volta sul pianeta Terra.” Ero certo che avesse ammiccato, anche se il casco gli copriva interamente il volto, inclinando da un lato la testa. “Non ho bisogno di altro.”
    “E per la ricompensa...” Iniziai a dire, ma il Mandaloriano mi interruppe. “La cassa di metallo nh la consegnerete al momento dello scambio, quando vi affiderò la persona che state cercando.”
    Annuii impressionato e vagamente stordito. Se oltre all'estrema efficienza e prontezza era incisivo allo stesso modo nel rintracciare il soggetto su cui Mahkent voleva mettere le mani, presto il piano che notre patron stava creando avrebbe ottenuto un nuovo tassello.
    “Mi metterò io in contatto quando avrò recuperato con successo il soggetto.” Il trasmettitore era già al sicuro in una custodia celata del suo vestiario. “Questa è la via.” Fece un diverso cenno del capo, questa volta. Incredibile come riuscisse a comunicare anche in quel modo.
    Il mantello ondeggiò in maniera impercettibile quando uscì dal locale. Mi alzai dalla sedia e mi avviai verso l'uscita a mia volta. La strada era deserta, ma intravvidi due figure svoltare in un vicolo molto più avanti lungo la strada principale dell'abitato. La prima parte della mia missione era conclusa.
     
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    Quando eravamo stati "convocanti" da Armorer non mi sorpresi di scoprire che era per ciò che sta accadendo con quei alleati inaspettati che avevamo incontrato lungo il tragitto. Pareva chiaro che i Mandaloriani non avessero mai lavorato nella condizione e proiettati verso ciò che si poteva considerare una missione che esulava dalle solite taglie di routine, ma era anche chiaro che dopo ciò in cui ci eravamo imbattutti e quello che avevamo scoperto era stato del tutto naturale e giusto agire in quel modo. Io stessa, all'epoca, avevo affrontato Armorer per palesarmi come colei che aveva cercato il dialogo ed aveva proposto un'alleanza. Da allora avevo notato come lei, con discrezione ed attenzione, non mi avesse tolto gli occhi di dosso trovando importante che fosse lei all'inizio a guidarmi nelle taglie esattamente come si faceva con i ragazzini alle primi armi, prima che trovassero la loro strada ed imparassero a camminare da soli.
    Fu dunque quando Din si assentò per incontrare il Cliente che Armomer mi trattenne, invitandomi a seguirla nella fucina. Io dal canto mio avevo imparato a non fare domande, con un gesto del capo silenzioso avevo congedato Mando e con la stessa riverenza muta avevo seguito la donna.
    Armorer non si perse nè in convenevoli nè in frasi inutili, raggiunse la sua zona di lavoro e da uno dei bancali prese un prezioso elmo. Era nuovo, bianco e riportava ghirigori blu preziosi. Aveva una linea sinuosa, tanto che perfino il visore risultava femminile ed elegante a suo modo.
    “Te lo sei meritato” esclamò solamente allungando le mani per porgermelo, mentre io lo guardavo con riverenza e forse anche con una nota di paura che non le sfuggì.
    “Che cosa ti turba?” mi chiese ferrea ed atona.
    Io presi un gran respiro e cercai le parole giuste.
    "Il peso che ne deriva..." risposi senza esitazioni con lo sguardo ora fisso nel suo di visore.
    “Sai Omera potrei dirti che molti uomini e donne si sono trovati al tuo posto prima di te, ma mentirei. Non c'è mai stata una selezione su chi meritasse o meno divenire Mandaloriano, ma da che ho memoria sono sempre stata l'unica donna ad indossare un casco... solo ora abbiamo bambine che forse un giorno lo faranno... dunque dopo di me, tu sei la prima...”
    Quella rivelazione non me l'aspettai come il dover prendere coscienza di ciò che rappresentasse, oltre la Via.
    "Mi stai chiedendo tanto... Mi stai chiedendo di essere la prima ed unica Nite Owls..."
    “La prima di molte altre spero, colei che potrà ispirare molte delle nostre bambine ad unirsi a questo corpo di elité un giorno...”
    "Perchè io? Perchè non tu?" forse stavo osando troppo chiedendo ciò, ma era chiaro che di fronte ad un passo così importante avevo bisogno non di certezze, quanto più di qualcosa che diramasse la fitta nebbia dei miei pensieri. E questo lei parve capirlo.
    “Credi che io abbia scelto il mio ruolo? E' la Via a farlo. A volte ci si imbatte nel proprio destino sulla strada per evitarlo”
    Ripensai velocemente a come effettivamente la strada che mi aveva portato lì era stata un caso a cui mi ero aggrappata, un viaggio iniziato per fuggire da quello che credevo fosse il mio ineluttabile fato. Soppesai dunque profondamente ogni singola parola, chiusi gli occhi e quando li riaprì c'era una fiamma diversa in me, una che mi sospinse ad allungare le mani, stringerle intorno al casco ed infine usarle per indossarlo.
    Mi sentivo diversa, più consapevole, più decisa, mentre l'oscurità di quella nuova condizione mi avvolgeva. Quando uscì dal palazzo la luce di Mandalore non mi invase come sempre perchè attutita da ciò che indossavo. Dal visore vidi gli sguardi di tutti posarsi su di me via via che camminavo. Da quel buio, simile ad un pozzo profondo, capì il valore della luce. Non temevo più le ombre, perchè oggi ne scorgevo le potenzialità e l'onore. Ringraziavo gli Dei per la mia inconquistabile anima perchè nella morsa delle circostanze non mi ero tirata indietro. Sotto i colpi d'ascia della sorte, il mio capo aveva sanguinato, ma mai si era chinato. Oltre la rabbia e le lacrime ero sopravvissuta in un viaggio che mi aveva portato in quel posto, in quel momento. Camminavo sempre più orgogliosa e fiera, comprendendo finalmente il significato della Via. Di ciò che per me rappresentava. Non avrebbe importato quanto stretta la porta sarebbe stata, quanto piena di castighi la vita, io ero la padrona del mio destino. Io ero il capitano della mia anima.


    1. PROSEGUE QUI ➡️Present Day #2021: Bologna⬅️



    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 18/7/2021, 11:42
     
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    Annarita
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    DA LEGGERE DOPO AVER LETTO PRIMA QUI ➡️Present Day #2021: Bologna⬅️



    :DinM:
    La sosta da Armorer di ritorno da ogni missione era un rituale ormai consolidato. Pochissime volte si andava da lei a mani vuote, spesso consegnavamo la ricompensa e lei ci onorava – se l’ammontare era di un certo rilievo – con qualche dono di rimando. Tuttavia, questa volta, non avevamo alcuna ricompensa da consegnare. La missione era fallita, anche se non nel senso stretto del termine. Avevamo avvisato il Cliente che eravamo riusciti a intercettare l’obiettivo del trasmettitore, anche se, una volta catturato avevamo compreso che non era chi cercavamo. In assenza di altre indicazioni o tracce da seguire, il Cliente aveva annullato il tutto e senza dare ulteriori spiegazioni ci aveva congedato. Tutto questo, con una brevissima conversazione durante il viaggio di rientro. Ovviamente, nessun target corrispondeva a nessun pagamento. Era la regola.
    Avevamo, di conseguenza, messo al corrente Armorer dell’accaduto, la quale aveva predisposto un incontro urgente con il Maestro Jedi con cui stavamo collaborando: Shay Cormac.
    A nessuno dei presenti era venuto in mente che era notte fonda, che tornavamo da un viaggio piuttosto lungo e deludente, ciò nonostante, riposare non era una opzione valida, non fino a quando non avremmo messo un punto fermo a tutta quella storia.
    L’ologramma del Jedi arrivò prima di quanto ci aspettassimo, come se in qualche modo avesse atteso il messaggio di Armorer e si fosse tenuto pronto a comunicare con noi. Quell’uomo mi inquietava, ma non in senso negativo. Aveva la capacità di sembrare un libro aperto e un muro di cera al medesimo istante. Quando credevi di averlo inquadrato, ecco che faceva o diceva qualcosa che ti smentiva. Era molto interessante…
    Quando terminai il resoconto per la seconda volta in un’ora mi rifugiai nel mio silenzio. Diedi uno sguardo fugace a Omera, aveva tenuto il casco, ma non riusciva a celare del tutto il suo nervosismo: la stava tradendo un leggero movimento della punta del piede. Avrebbe imparato a dominare anche questi piccoli istinti… col tempo.
    La quiete regnava sovrana. Shay Cormac rifletteva, con due dita a sorreggere il mento e gli occhi persi in chissà quale elucubrazione. Armorer, dal suo canto, era perfettamente immobile, come me.
    “Il Cliente deve di certo sapere qualcosa. Chi cercava questa persona aveva le idee ben chiare riguardo alla sua identità. Il trasmettitore era tarato su una determinata traccia energetica, ma la Forza non è un’impronta digitale, è soggetta a variazioni. Ciò nonostante, il bersaglio – benché non fosse la signorina Winkler, per ovvie ragioni – deve necessariamente essere il protagonista della profezia e il Cliente, o il suo mandante, non può ignorarlo. La domanda adesso che sorge spontanea è: chi, a parte noi, può essere a conoscenza della pergamena?”
    La voce pacata dello Jedi aveva aleggiato al lungo nell’aire. Armorer e io avevamo fatto alcune ipotesi, i più accreditati erano Devianti e Templari. Gli Eterni erano troppo impegnati a leccarsi le ferite dopo il tradimento subìto. Tuttavia, i Devianti non avrebbero ingaggiato dei Mandaloriani se avessero avuto il sospetto che l’obiettivo potesse essere uno di loro, troppo rischioso. Di conseguenza, restavano i Templari, capacissimi – secondo le parole di Cormac – di architettare trame ben più subdole per sviare l’attenzione dai loro piani.
    La riunione si era conclusa con un nulla di fatto. Armorer e Shay avrebbero continuato a tenere gli occhi aperti sugli sviluppi, mentre Omera e io potevamo tornare a casa e riposare in attesa di una nuova missione.
    […]
    “Ma se i Templari sanno della Profezia, pensi che sappiano anche della minaccia che viene dall’altro mondo? Se potessimo confrontarci tutti insieme, unire le forze… basterebbe un piccolo atto di fiducia. Il Maestro Jedi dice che i Templari sono degli infidi manipolatori e ciò che hanno fatto all’Impero Lunare lo dimostra… ma…” Fermai quel fiume in piena di parole, che aveva rotto gli argini un attimo dopo aver varcato la soglia del rifugio di Armorer con un dito posato sulle sue labbra morbide. Avevo la sensazione che Omera avesse accusato particolarmente l’essere rimasta in silenzio durante la riunione, ero certo che avrebbe voluto dire la sua opinione ma si era frenata dal farlo. Capiva che c’era una gerarchia da rispettare, ma soprattutto era conscia che Armorer l’avrebbe interpellata senza remore se l’avesse ritenuto utile…
    “La missione è finita, Omera. Adesso arriviamo a casa, spegniamo il cervello e recuperiamo le energie.” Parlai con tono dolce, accarezzandole con l’indice la bocca semichiusa. La vidi stringere sotto il braccio il casco e annuire. Aveva compreso il mio intento, anche se sapevo bene quanto per lei fosse difficile staccare la spina quando aveva dubbi su cui rimuginare.
    Nonostante ciò, più ci avvicinavamo al confine della città, l'unico che affacciava in un'oasi verde e tranquilla, ecco che pian piano i suoi lineamenti iniziarono a rilassarsi.
    Alla vista dell'acqua poi, tutti i suoi pensieri e le sue paure sembravano essere spariti. Eccolo il sorriso che tanto amavo, era spuntato come se il laghetto avesse acceso un piccolo interruttore.
    “Non vedo l'ora di togliermi l'armatura...” ammise di fronte alla porta di casa. “... ecco perché me la toglierò e mi butterò in questo magnifico specchio d'acqua... ho bisogno di rigenerarmi e... anche tu...” terminò abbassando il tono di voce e velandolo di malizia. Il riferimento era chiaro e diretto al sottoscritto.
    “Fare il bagno insieme dici? Dovresti stare bendata per tutto il tempo… o io tenere il casco nell’acqua… mmm” Non ero molto convinto. La fiducia non era più un problema, non avrebbe sbirciato neppure sotto tortura… la tortura, piuttosto, sarebbe stata costringerla a non vedere nient’altro di quel meraviglioso panorama, non solo la mia brutta faccia. Non mi piaceva, non mi faceva stare bene.
    Con il casco in mano mi guardò, mettendo su un broncio da manuale, mentre entravamo in casa. Sapevo già dalla sua espressione che non avrebbe mollato facilmente, sembrava già pregustare il tempo trascorso sulla spiaggetta.
    “Stare bendata non mi pesa... l'acqua è il mio elemento mi basta sentirla accarezzarmi per star bene... un po' come mi accade con te...” Eccolo l’affondo sleale. Colpito e stecchito. Respirai piano, per evitare di andare in iperventilazione. Ero pronto al compromesso, come lei – d’altro canto – aveva ampiamente previsto.
    “Allora terrai la benda quando saremo in acqua, poi torneremo sulla riva e io rimetterò il mio casco, mentre tu toglierai la benda. Prendere o lasciare.” La mia voce voleva essere perentoria, ma uscì fuori fin troppo permissiva…
    Il suo broncio strategico si trasformò ben presto in un sorriso dolce. Aveva vinto.
    “Affare fatto!” disse solenne con tanto di stretta di mano, prima di sparire oltre la soglia della camera per cambiarsi.
    Dopo neanche dieci minuti eravamo già in spiaggia. Le stelle punteggiavano il cielo a perdita d’occhio, riflettendosi sullo specchio d’acqua come bambini curiosi. La superficie era liscia, nessuna brezza arrivava a disturbarla, e il suo colore era simile all’argento liquido. Lasciai che Omera si riempisse gli occhi di tutta quella meraviglia, prima di costringerle la vista in una striscia di tessuto scuro. Poi, fu il mio turno di levarmi il casco e i vestiti. La presi per mano e insieme ci incamminammo all’interno del lago. L’acqua era fresca, piacevole, vista l’afa che regnava sovrana sul nostro pianeta. Osservai Omera, il suo profilo sorridente, pareva una bimba a cui avevano permesso di aprire i regali di Shelova prima del previsto.
    Avrei voluto dire un milione di cose, ma come sempre rimasi in silenzio. Anche se, dopo l’ultima esperienza vissuta sulla Razor Crest, dentro di me avevo conquistato un pizzico di sicurezza in più, tanto da farmi prendere una decisione importante. Lì, proprio tra le sue braccia, pelle contro pelle, avevo deciso…
    Eravamo vicinissimi, eppure, pareva che in qualche modo adesso lo fossimo di più. Omera mi scrutava attraverso la benda, era assurdo, ma avevo la netta sensazione che i suoi occhi fossero dappertutto, sui miei capelli bagnati, le spalle, il dorso. Disegnò con la punta delle dita ogni contorno, ogni cicatrice, piegando il capo su un lato e mordendosi il labbro inferiore. La vidi rabbrividire, la sua pelle rispecchiava ogni emozione che stava provando, assieme al suo eterno sorriso.
    “Ho sempre trovato banale il concetto e la frase ‘l'amore è cieco’ ma oggi, ora, in questo preciso istante, ne comprendo il significato più profondo... sento di amarti dalla prima volta che le nostre strade si sono incrociate e non mi serve vedere per saperlo... perché io già ti vedo... ti amo sai... Non esistono parole per esprimere quanto ti sia devota, ma al contempo al tuo pari. Quanto mi senta libera, ma al contempo completamente tua... ”
    Lei era convinta che non sarebbe stata in grado di esprimere a voce ciò che provava, ma si sbagliava. Ogni sillaba si marchiò a fuoco sulla mia anima, rendendomi audace. Le feci appoggiare le mani sul mio torace, mentre con le dita accarezzavo il suo viso. L’acqua arrivava fino al mio petto, mentre sommergeva lei fino al collo, facendo da culla ai suoi lunghi capelli.
    “Prima di incontrarti non sapevo cosa significasse prendersi cura di qualcuno che non fossero i nostri bambini, pensare a quel qualcuno giorno e notte, con il bisogno urgente di saperla sempre al sicuro. Con te ho imparato tanti sentimenti, molti dei quali non ne conoscevo neppure l’esistenza. Hai compiuto un miracolo, ma non te ne rendi neppure conto…”
    Inaspettatamente mi immersi sotto la superficie, afferrai ciò che mi serviva e tornai da lei. Rideva mentre mi scrollavo i capelli bagnati e le schizzavo tutto il viso. Con il sassolino appuntito ferii il mio indice destro e poi presi la sua mano, le baciai il palmo prima di scriverci col sangue una parola. Omera non poteva leggerla – com’era da tradizione – per colpa della benda e dell’acqua… ma non era questo il passaggio fondamentale. Le stavo chiedendo di sposarmi, di diventare la mia Riduur, e fu così naturale che rimpiansi di non poter vedere i suoi occhi brillare. Ciò nonostante, la sua bocca si spalancò a formare una piccola "o", potei quasi percepire i meccanismi della sua mente tradurre le lettere che avevo appena segnato…
    “Ehm... io... mi... ehm, stai dicendo... io... io ho capito bene... io...” Era deliziosa mentre balbettava, poi, istintivamente, si portò le mani alla collana che portava al collo, quella con il mitosauro, e scosse il capo emozionata. Infine, incapace di dire qualsiasi altra cosa, saltò tra le mie braccia prima di cercare le mie labbra e baciarle con impeto. Aveva mandato all’aria ogni regola o attenzione e io non me ne rammaricai neppure per un istante.
    “Sì sì sì sì sì sì, mille volte sì... non avrei mai creduto di voler essere una moglie, non l'ho voluto quando mi è capitato e quando lo ero non avrei mai voluto esserlo... e ora non chiedo altro… sì, sì, voglio essere la tua Riduur!”
    Omera era esattamente dove io volevo che fosse. Sopra e dentro il mio cuore. Sopra e dentro la mia bocca. Sopra e dentro la mia anima. Da ora in avanti, la mia Riduur.
     
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    Respiravo piano, le mani intrecciate sul grembo, le palpebre semichiuse, seduto immobile sulla sedia imbottita del mio ufficio. Era il mio modo per concentrarmi, riflettere, mantenere il controllo. Dopo la terrigenesi, che aveva fatto di me ciò che ero, non ero stato più scosso da forti emozioni, o comunque, ero riuscito sempre a tenerle a bada con una facilità che a tratti mi aveva spaventato. Amavo la mia famiglia, amavo Claudia, amavo la vita che avevamo costruito e quella che si prospettava nel prossimo futuro, eppure mai un moto emotivo era sopraggiunto fuori luogo. Avevo giustificato il tutto con i poteri che la terrigenesi mi aveva donato, il ghiaccio era arrivato anche all’anima, annientando qualsiasi tipo di reazione eccessiva.
    Negli anni, tuttavia, avevo scoperto che questo mio essere tanto misurato aveva un punto debole, un po’ come quel famoso tallone d’Achille leggendario. Eppure, ciò non mi aveva abbattuto o disorientato, al contrario, mi aveva dato la certezza che in me c’era ancora una fiamma sopita, che ardeva solo in un singolo caso… Avevo fatto di quel singolo caso la missione più segreta di tutte, della quale non era a conoscenza neanche mia sorella. Solo il mio braccio destro, Henry, conosceva qualche dettaglio ma per il semplice motivo che necessitavo di un supporto “tecnico” per procedere. Mi fidavo di lui, nonostante fossi venuto a conoscenza dei sentimenti che Claudia provava per il mio fidato consigliere. Non ero sicuro di cosa lui provasse per lei, invece, nonostante gli anni trascorsi al mio fianco, non ero ancora in grado di “leggerlo” fino in fondo… ma poco importava, ero certo che non le avrebbe mai fatto del male, se non ci fosse stata la sua estrema lealtà a frenarlo, i deterrenti collaterali non sarebbero stati da meno.
    Sospirai, tornando alla realtà quando udì bussare in maniera decisa alla grande porta intarsiata dell’ufficio. Un battito del cuore uscì fuori dagli schemi, ma fu solo uno, subito dopo tutto tornò alla normalità. Era giunto il momento di fare il punto della situazione delle missioni che avevo ordinato, nella massima discrezione, a due dei miei più fidati Maestri Templari.
    "Avanti…" dissi con voce perentoria.
    Osservai attentamente il Maestro François Germain presentarsi al mio cospetto. Non si era neppure cambiato, aveva ancora indosso la tuta di volo, eppure il suo volto non mostrava alcun segno di stanchezza, al contrario, era severo e impassibile. Il suo passo era sicuro mentre avanzava con le mani strette dietro la schiena e gettava un’occhiata alla stanza per controllare l’ambiente: era un’abitudine che pochi di loro non avevano.
    "Sono qui per fare rapporto sulla missione che mi è stata affidata." La voce del Maestro risuonò vibrante, con un leggerissimo accento francese che lo faceva assomigliare a un nobile d’altri tempi… cosa che era stato effettivamente, mi ritrovai a riflettere. Era trascorso talmente tanto tempo che a volte dimenticavo le origini di ognuno di loro.
    Alzai lo sguardo su di lui, appoggiai la schiena alla poltrona morbida e con un cenno della mano lo invitai ad accomodarsi sulla sedia di fronte alla mia imponente scrivania. Lui declinò gentilmente l’invito, preferendo rimanere in piedi… sull’attenti quasi.
    "Maestro Germain, ben tornato. Qual è, dunque, l’esito?" Intrecciai nuovamente le dita e attesi una risposta, sfoggiando il mio solito sorriso enigmatico: avevo indossato la mia maschera migliore, quella che conoscevano tutti i miei sottoposti. Dietro di me, percepivo la totale immobilità di Henry, anche lui sapeva inquietare senza fare assolutamente nulla.
    Trascorse qualche secondo, vidi il Maestro irrigidire la mascella e intuii che non doveva portare notizie positive, era famoso per il suo orgoglio e per la totale dedizione alla Causa.
    "Ho contattato e assoldato un Mandaloriano per compiere la ricerca del soggetto stabilito. Temevo che la ricompensa generosa avrebbe attirato elementi spregiudicati, invece il cercatore di taglie sembrava degno di fiducia. Ma..." Fece una breve pausa. "Sono stato ricontattato un paio di giorni dopo. E ho parlato con lui, solo…"
    Non mostrai segni di reazioni particolari, se non per il semplice fatto che il sorriso si volatilizzò dal mio volto e una leggera ruga comparve tra le sopracciglia. La missione era fallita?
    "Mi sta dicendo che il Mandaloriano non ha individuato il soggetto che indicava il trasmettitore?" Trasmettitore che mi era stato fornito direttamente dai Monoliti!
    "Tutt'altro. Lo ha individuato velocemente, inseguito in una zona disabitata per poterlo catturare e consegnarcelo. Purtroppo, però, ha sottovalutato la sua abilità e prontezza. Il soggetto a cui eravamo interessati gli ha teso una trappola, a cui è seguito uno scontro che ha messo il Mandaloriano a dura prova."
    Le mie pupille si strinsero, tradendo un barlume di impazienza. Quindi il trasmettitore ha portato a “qualcuno” e allora qual è stato il problema? Il soggetto aveva poteri tali da sbaragliare il cacciatore e poi fuggire?
    ”Maestro Germain, il Mandaloriano è stato sconfitto, fallendo il recupero?” La domanda pesava come un macigno, da questa risposta dipendevano di fatto molteplici decisioni future. E mi ritrovai a trattenere il respiro…
    "Esatto." Una parola secca, definitiva e impietosa. Germain strinse ancora di più le mani, che già teneva strette e nascoste, ma potevo immaginare l’uragano che si muoveva dentro di lui. Fallire una missione significava tradire il proprio mandato, la mia fiducia e andare in contro a conseguenze per nulla piacevoli. Non ero un despota, ma pretendevo risultati eccellenti per ognuno di loro, era per questa ragione che le Chiavi Titane li avevano scelti, DOVEVANO essere i migliori!
    Rilasciai quel respiro sospeso, in maniera evidente, per sottolineare la mia disapprovazione.
    "Chi era il soggetto in questione? Siete stati almeno in grado di identificarlo con certezza?" Quel plurale non era stato usato a caso, volevo che fosse chiaro che quel fallimento ricadeva su tutti gli attori in campo e non solo sul Mandaloriano! Fui certo che il messaggio era arrivato chiaro a destinazione, quando Germain si mosse a disagio, spostando il peso del suo baricentro. Portò una mano velocemente sul petto, ad aggiustare una piega minuscola del tessuto, poi si ricompose prima di rispondere.
    "Sì, il Mandaloriano mi ha confermato senza dubbio alcuno l'identità del bersaglio. E questo è... molto strano, se posso dire." Strinse le labbra per un attimo infinito prima di continuare. "Era la figlia del Führer, il comandante dei Devianti. Moira Winkler" Il nome era un aggiunta inutile, ma lo disse comunque, come a voler rendere reale una scoperta del tutto assurda. E in quel momento capii. Il trasmettitore aveva portato a un falso bersaglio, i Monoliti avevano avuto una ragione ben diversa per generarlo, ma non potevo sapere quale, una prova anche per il sottoscritto? Tuttavia, cominciavo a immaginare il “come” i fatti si erano evoluti… i Mandaloriani raramente fallivano una missione, così come il Maestro Germain. Di fatto, al momento opportuno, il trasmettitore non aveva funzionato a dovere… e credevo di sapere il perché. Una strana sensazione di trepidazione mi prese, consapevole che se la prima missione era di fatto fallita, la seconda avrebbe di certo avuto esito positivo… e non vedevo l’ora di scoprirlo.
    Il mio atteggiamento cambiò sensibilmente, infatti sorrisi compiaciuto. Il mio volto era tornato sereno e privo di qualsiasi riprovazione. Il Maestro francese doveva essere molto confuso da questo mio evidente mutamento di rotta, ma la cosa non mi tangeva, non ero certo tenuto a spiegar nulla. Gli sarebbe bastato non dover subire la mia contrarietà.
    "Ottimo, questa informazione è comunque preziosa e mi tornerà molto utile..." risposi alla fine, dopo una lunga pausa comprensiva di una occhiata fugace ad Henry. Nonostante tutto, Germain aveva soddisfatto le mie aspettative... inutile tenerlo ancora sui carboni ardenti.
    Come previsto, però, lo vidi inarcare le sopracciglia, perplesso più che sollevato.
    "Temo di non capire. La missione era di recuperare, vivo, l'individuo registrato nel segnalatore... Parlava lentamente, nel tentativo di trovare una logica alla mia reazione. "Comunque, ho cercato di eseguire gli ordini che mi avete affidato. Non mi è dovuta nessuna spiegazione." Continuò con rigore e un pizzico di altezzosità, non mi aspettavo nulla di diverso da lui. Lo fissai con intensità, conscio che il mio sguardo era in grado di penetrare – al pari del ghiaccio – la compostezza del Maestro.
    "Proprio così, la missione ha comunque avuto un buon esito anche senza il recupero del soggetto. Non vi devo spiegazioni, corretto, ma un semplice ringraziamento... Potete tornare alle vostre mansioni, Maestro Germain, il vostro ingaggio è concluso."
    Mi alzai in piedi, decretando concluso l’incontro. Germain mi salutò con un conciso cenno del capo, prima di girare i tacchi in un gesto marziale e scomparire oltre la soglia.
    Io, a mia volta, gettai un’occhiata verso Henry che annuii leggermente prima di volgere il capo in direzione della zona in ombra della grande sala. Da lì, sbucava un passaggio che conoscevamo in pochissimi, tra questi vi era la sagoma snella e sinuosa che fece capolino come se fosse essa stessa fatta di ombre: il Maestro degli Shadow Templar, Mariko Yong. La seconda missione, infatti, era stata affidata a lei. Era l’unica che avrebbe potuto portarla a termine con successo. Le feci segno di avanzare e quando la luce – benché soffusa – della stanza la colpì vidi il suo volto intellegibile. Era bella, ma non di una bellezza classica o eterea, al contrario, appariva algida ma in realtà rappresentava il fascino di una macchina efficientissima, senza errori di calcolo o bug di sorta, perché non era in grado di provare alcun sentimento. Era perfetta e a me serviva così.
    Non ci fu alcun convenevole da parte sua, in fondo non me li aspettavo neanche, ma mi fece comunque alzare le labbra in un sorriso accogliente. Era un po’ la mia reazione spontanea alla sua totale assenza di qualsivoglia reazione.
    ”Maestro Yong, ha recuperato quanto richiesto?”
    "Sì, Gran Maestro." rispose semplicemente, aprendo la sacca di pelle che teneva a tracolla e tirando fuori un oggetto sigillato in una busta di plastica trasparente. Henry si mosse fulmineo, prese in consegna il reperto e tornò alla sua posizione iniziale.
    ”Ben fatto!” Non c’era molto altro da dire. Ero in possesso di quanto necessitavo per scoprire se la mia missione segreta aveva ragion d’essere o se era stato l’ennesimo buco nell’acqua. Ne dubitavo, ma solo i test avrebbero dato l’esito definitivo. Mariko si attardò giusto qualche istante, per capire se avessi altre disposizioni da darle, ma quando colse il mio cenno di saluto si eclissò nelle ombre, con la stessa leggerezza con cui era apparsa.
    Henry si accertò che il passaggio fosse sigillato, prima di premere un pulsante e far aprire un secondo passaggio di cui solo io e lui conoscevamo l’esistenza. Attraversammo un lungo tunnel che ci portò a una stanza di modeste dimensioni, ma attrezzata come un laboratorio con la tecnologia più moderna disponibile. Il mio fidato braccio destro si mise subito all’opera, sotto il mio sguardo attento e un pizzico trepidante: non era facile nascondere del tutto quanta emozione si agitava sotto la superficie. Henry scartò l’oggetto e prelevò il necessario per eseguire un particolare test. Ci vollero minuti interminabili, o almeno a me parvero tali. Ma quando lui alzò i suoi occhi su di me, capii all’istante, nonostante il suo volto non fosse famoso per la grande espressività.
    La missione di Mariko Yong era andata a buon fine.
    Il riscontro del test era positivo.
    La mia di missione poteva e DOVEVA continuare.
    E l’agitazione dentro di me divenne gioia, un’emozione che non provavo da tempi immemori e che, credevo, non avrei più provato.
    Nulla era perduto.
     
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