Nanda Parbat: Garden

Season 3

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    Per tutto il viaggio Jacob si era scambiato sguardi preoccupati con Lara e seppur non era da lui chiedermi come stessi, era decisamente da lui essere più protettivo del solito motivo per cui quando vide Edward gli venne spontaneo scattare sulla difensiva, come a dire ad un solo sguardo "Non è aria. Se devi attaccarla come al tuo solito, smamma...", ci teneva che non mi infastidisse più di quanto a suo dire aveva fatto con un comportamento che mi aveva innegabilmente ferito, tuttavia bastò una mia mano sul suo braccio ed un debole sorriso per fargli capire che andava tutto bene.
    Rimasi così con le braccia conserte ed un lieve sorriso sul volto ad osservare un Jacob fumantino allontanarsi ed una Lara che tentava di tenerlo calmo, prima di voltare il mio sguardo chiaro e fissarlo negli occhi di mio marito, quello che lo era per contratto, ma non ero più certa lo fosse di fatto.
    "In questo momento sono un po' instabile, ma credo che tu lo sappia..." dissi con un filo di voce, mentre alcune scintille di elettricità ogni tanto mi vorticavano intorno. Era strano faticare a controllare qualcosa che mi caratterizzava per natura, ma in egual modo era strano aver ricevuto indietro ciò che avevo perso mille volte più forte e con potenzialità a me ancora sconosciute.
    A tutto questo dovevo aggiungerci lo scombussolamento che sentivo dentro per tutto ciò che era successo in quella missione dal ritorno di Selene, che però ancora non si era mostrata a noi, alla consapevolezza di star combattendo di fatto contro qualcuno che era come me... Guerriere. Non capivo le loro azioni, il loro atteggiamento ed il non voler cooperare per il bene comune visto e considerato che avevano lo stesso obbiettivo. A questo dovevo aggiungere che Edward si stava comportando con me nello stesso modo da che ero tornata e mi ero stancata di corrergli dietro come una mamma che vuole togliere il broncio al proprio figlio, ma che ad ogni tentativo viene ripagata con scontrosità e distacco. A questo punto se non mi voleva più nella sua vita bastava che me lo dicesse e sarei scomparsa.
    Quel periodo era strano, il tempo passato sulla Terra in tutti quei millenni mi aveva cambiato e se un tempo era per me normale governare un pianeta senza legami o relazione, senza la necessità di combattere la solitudine, ora tutto quello mi avviliva.
    Mio marito mi ignorava, con le mie Sorelle passavo meno tempo di quanto avrei voluto, Selene pareva distaccata e alcune mie compagne d'armi mi trattavano con freddezza e distacco.
    A tutto quello andava aggiunto ciò che avevo scoperto sui Talismani, sulla loro natura e sulla loro forza... qualcosa che andava oltre a tutto ciò che avevamo combattuto finora, qualcosa che avrebbe potuto cancellare la mia vita così come la conoscevo e cosa peggiore farmi dimenticare di averla vissuta...
    Il tempo passato lontano mi aveva resa, senza che me ne rendessi conto, più bella. I tratti parevano essersi affinati, la pelle era più chiara (per via delle radiazioni di Giove) così come gli occhi più cristallini e i capelli setosi. I tratti fanciulleschi perfettamente erano un tutt'uno con il corpo sinuoso, atletico e formato di una donna consapevole e sensuale che aveva ritrovato nel tempo passato a casa il suo spirito giusto e combattivo con una nota selvaggia che mai avevo posseduto ma che Edward mi aveva regalato...


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 5/9/2019, 20:23
     
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    :Edward:
    Mi bruciavano gli occhi. Era come se mille piccoli spilli fossero al lavoro dietro le mie palpebre, per rendere irritante e fastidioso ogni secondo da quando mi ero svegliato.
    Magari avrei dovuto dormire più di un'ora scarsa per notte, ma in questo momento avevo bisogno solo di due cose.
    Il mio rum, perché la bocca sembrava prosciugata e riarsa, e non ero abituato ad arrivare sobrio a mezzogiorno.
    La Jackdaw II: insieme a lei avrei trovato la solitudine che volevo, l'ampio mare da solcare a mio piacimento, la totale libertà di non dover rendere conto ad anima viva della mia vita.
    Ed invece, ero stato obbligato a tornare a Nanda Parbat, convocato per “questioni urgenti”. Da quando avevo rimesso piede nel Sancta Sanctorum, mi ero sciroppato riunioni interminabili e completamente inutili.
    Sbagliai e mi stropicciai gli occhi con una mano. Incuriosito dall'improvviso silenzio, li riaprii e quando misi a fuoco mi accorsi dello sguardo di Bayek, duro e tagliente come un laser, fermo su di me. Altair mi fissava nello stesso modo ostile, Auditore mi rivolgeva un'occhiata quasi divertita, mentre Connor teneva gli occhi fissi sul tavolo, un'espressione corrucciata sulla faccia, come se fosse sul punto di scoppiare.
    Come sempre, mi chiesi cosa ci facessi veramente lì, ad ascoltare tutte quella montagna di ciance, infarcite di inutili parole pompose e vuote. Non avevo bisogno che un'altra persona, chiunque fosse, mi insegnasse cosa significava vivere secondo il Credo. Io lo avevo imparato a mie spese. Non mi serviva che qualcuno si mettesse tra me e la mia coscienza e le mie idee, ero in grado da solo di decidere come regolare le mie azioni per non infrangere quelle leggi che si erano incise nelle mie ossa e nei miei tendini grazie solo alla potenza dei valori che trasmettevano. Quello che mi tratteneva dal mandare tutti loro a farsi fottere era solo il fatto che riconoscevo l'ubbidienza e il rispetto della gerarchia come fattori fondamentali per l'esistenza della Confraternita, ma in caso contrario...
    Con indolenza, tolsi i piedi dal tavolo, e rassicurai Bayek: ”Oh... continua pure con la tua spiegazione molto... interessante. Io non ho nulla da aggiungere...”
    ”Grazie” Asciutto come il deserto dal quale arrivava. E per quello che mi riguardava, poteva anche tornarci.
    ”Beh, non c'è di che!” Gli strizzai l'occhio, sicuro che il messaggio fosse arrivato a destinazione.
    Collaborazione.. Bla bla bla... Organizzazione... Bla bla bla... ma alla fine anche questa insopportabile riunione ebbe termine.
    Aria, avevo bisogno di aria. E di rum.
    Avevo quasi raggiunto la porta quando mi ritrovai davanti Auditore. I miei riflessi dovevano essere piuttosto appannati, se un damerino come lui riusciva a prendermi alla sprovvista con tanta facilità.
    E con mio sommo dispiacere, aveva la chiara intenzione di rompermi le palle. Maledizione.
    Cazzo, ma perché se io lascio in pace gli altri, gli altri non lasciano in pace me?
    ”Devo parlarti”
    Sbuffai, irritato.”Non sei più il mentore, non puoi darmi ordini, o mi sbaglio?”
    ”Sei proprio un idiota, Kenway. Ma questo non vuol dire che non debba discutere con te di cose importanti”
    Alzai gli occhi al soffitto, la pazienza che si stava esaurendo. Ma era inutile, non mi sarei liberato di lui in nessun modo, quindi tanto valeva assecondarlo. ”Va bene, verrò più tardi da te, così non ci saranno orecchie indiscrete che potranno udire le pressanti questioni che hai in testa. E te lo dico solo perché non vorrei trovarti impreparato, magari senza niente addosso. Non lo soffrirei...”
    ”Stai tranquillo, Kenway... neanche tu sei il mio tipo!”
    (...)
    Più tardi, bussai alla porta della sua stanza. Avevo bevuto diversi bicchieri del rum migliore, senza però arrivare ad annebbiarmi la mente: non mi sarei fatto trovare impreparato come alla riunione, c'era sempre la possibilità che venisse fuori un bello scontro, anche solo verbale, e volevo divertirmi fino in fondo.
    ”Sei da solo... non ci credo!”
    Auditore mi fece cenno di entrare, senza dire parola, ma io avevo visto la sua mandibola irrigidirsi, nel tentativo di controllarsi, e me la stavo godendo un sacco, quella sua difficoltà.
    ”Vedi, Auditore, come mentore sei anche stato discreto...”
    ”I miei ringraziamenti” C'era dell'ironia nel suo tono? Oh, ma io ero molto più abile di lui, a questo gioco!
    ”Sì, sono di buonumore oggi! Il fatto è che ogni uomo ha i suoi punti deboli, e tu non sei mai stato bravo a tenerlo nei pantaloni, è risaputo, no?”
    ”Smettiamola con le idiozie, parliamo di cose serie!”
    Beh, non avrei certo lasciato condurre a lui le danze. ”Non hai niente da bere?”
    ”Come vedi, ognuno ha i suoi punti deboli...”
    ”Non... hai... niente... da... bere?" Scandii con forza ogni parola. Per dio, mi negava un goccetto dopo che mi faceva perdere tempo per chissà quali stronzate?
    Dopo aver sostenuto una battaglia di sguardi per qualche secondo, andò al mobile dei liquori e mi portò solo un bicchiere, che conteneva vino rosso, per di più. Lo guardai malissimo, come se mi avesse appena insultato, ma accettai il bicchiere e lo mandai giù d'un colpo.
    ”Di cosa dobbiamo parlare? A questo punto, mi andava di concedergli la mia attenzione. Lui si prese qualche secondo prima di rispondere.
    ”So come è andata. Quando i Templari hanno risvegliato Federico, intendo”
    ”E quindi?”
    ”E quindi... so che hai cercato di fare la cosa giusta. Che volevi impedire il loro piano, e che usassero mio fratello contro la Confraternita”
    Beh, questa non me l'aspettavo. Incrociai le braccia, molto meno sulla difensiva di quando ero entrato nella stanza.
    ”Mi dispiace per tuo fratello, eh, perché quello che l'ha resuscitato non so bene cosa fosse, ma mi si erano rizzati i peli, quando l'ho visto uscire... dalla tomba...” Il ricordo in effetti mi rivoltava ancora oggi lo stomaco.
    ”Me ne rendo conto. Volevo solo dirti che so che stiamo dalla stessa parte. Anche se non ci piaceremo mai, so di potermi fidare di te”
    Mi tese la mano, in faccia un'espressione degna dei momenti più solenni. Feci una smorfia.
    ”Sai che ti dico? Noi non stiamo dalla stessa parte. Noi siamo Assassini. Ed è colpa tua se te ne sei reso conto solo adesso!”
    Ma gli strinsi la mano. E gli assestai un pacca sulla spalla che, notai con piacere, lo spostò di qualche millimetro: non se la aspettava.
    La situazione per ora con lui era chiara, anche se dovevo ancora decidere quanto mi piacesse questa evoluzione.
    Di punto in bianco però avevo fretta di andarmene. Una sensazione familiare mi aveva riempito il cervello, e reagii quasi d'istinto. Come comparsa chissà da dove, avevo sentito la sua presenza, la sua energia aumentare tutta insieme, non più in sottofondo nei miei pensieri come negli ultimi mesi: Nike era qui, era a Nanda Parbat.
    L'ho cercata, anche se mi maledivo ogni passo che facevo. L'ho trovata, ancora nel giardino in entrata, in attesa di qualcosa o di qualcuno. Era in compagnia di suo fratello e della nuova recluta, ma li ho notati a malapena gli altri due, perché tutta la mia attenzione era su di lei.
    E come al solito, la sua bellezza mi abbagliò, come se i miei occhi avessero perso l'abitudine a tale luce, nei mesi in cui non si erano potuti posare su di lei.
    Strano per il mio carattere, provavo un rammarico enorme per il tempo sprecato.
    Ma, molto più adatto a me, sentivo la rabbia verso di lei che aumentava di forza, di violenza, per aver permesso che qualcosa potesse mettersi fra di noi.
    "In questo momento sono un po' instabile, ma credo che tu lo sappia..."
    Mi avvicinai, fino a trovarmi a due passi da lei. L'aria attorno sembrava vibrare, e davvero si intravvedevano piccoli lampi blu che quando mi sfioravano la pelle sentivo pizzicare.
    ”Chi pensa di poter controllare tutto è uno sciocco due volte: uno, perché non è pensabile di poter imbrigliare ogni cosa e due, perché rinuncia alla parte più interessante dell'esistenza, ovvero il rischio”
    Sicuramente anche i miei occhi mandavano scintille. Scintille di ostilità.
     
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    :Nike:
    Il mio sguardo così cristallino da sembrare quasi vitreo si posò su di lui, mentre con ancora le braccia incrociate al petto lo squadravo da cima a fondo. Era più scanzonato, strafottente e disordinato del solito. Puzzava di rum e la sua elettricità era peggio della mia. La sua ira scorreva nelle mie vene e la sua frustrazione mi stava facendo scoppiare il cervello.
    I miei occhi erano lucidi, la pelle ricolma di brividi e la voce uscì più tremante di quanto avessi voluto. Se fossi stata umana chiunque avrebbe detto che ero sull'orlo delle lacrime, tesa e spaventata di dover affrontare mio marito, o qualsiasi cosa fosse, ma la verità era un'altra. Non provavo nè paura nè mi sentivo debole di fronte a lui, ma quell'incremento improvviso di energia mi stava provocando un sovraccarico. Di fatto per non esplodere e non far male a nessuno stavo trattenendo l'energia, ma questo ovviamente mi faceva male. In termini umani potevo dire di avere una febbre che diveniva sempre più alta, l'unico modo per farla scendere era scaricare l'eccesso di energia che avevo accumulato, ma farlo avrebbe guarito me ma avrebbe danneggiato chi avevo intorno e non si parlava di Edward se non di tutta la costa est del Canada e degli Stati Uniti... e non potevo permetterlo....
    Come se fossi una presa avevo bisogno di una messa a terra, ma in quel momento ero troppo annebbiata per ragionare ed ancor peggio discutere con lui. Da che ero tornata lo avevo cercato, pazientemente non avevo risposto ai suoi insulti ed alla sua ira come un muro di gomma e poi avevo deciso di dargli i suoi spazi, ma il tempo era finito ed io non potevo implorargli perdono.... non quanto già non avessi fatto.
    Dall'altra parte l'incremento dei poteri mi stava dando altre priorità, avevo avuto una cosa simile da bambina quando si manifestarono per la prima volta, capitava ad ogni gioviano del mio rango, ma poi.... poi non succedeva più, perchè a nessuno nei corso degli anni i poteri incrementavano dunque nessuno sapeva come curare una febbre energetica in un adulto o meglio non era mai successo di doverlo fare.
    Alle sue parole scossi il capo stanca dei suoi piagnistei e del suo sarcasmo ed alzando gli occhi al cielo feci per superarlo, per andarmene.
    "Non sono dell'umore..."
    "Eppure mi sembrava che lo fossi ogni volta che sei venuta a cercarmi..." dissi prendendomi per un braccio, probabilmente troppo gasato all'idea di affrontarmi come sempre, ma ben presto dovette ritirare la mano perchè una scarica elettrica gliela bruciò causandogli una ferita importante al palmo.
    "Kenway sono instabile... te l'ho detto... lasciami stare... che tu ci creda o meno lo dico anche per te..."
    Gli occhi lacrimarono, mentre il tremore divenne maggiore, mentre l'energia da contenere divenne sempre più forte e per me sempre più difficile farlo. Lo avevo chiamato per cognome, segno che la mia pazienza era finita, segno che avevo accettato che tra noi fosse finita, perchè era chiaro che nonostante i miei sforzi lui non provasse altro che odio per me ormai.
    "Sei scappata per rispondere ai tuoi doveri, ma non hai osato rischiare... rimanere con me... è palese che hai altre priorità ormai..."
    Le sue parole erano veleno che non ero più in grado di tollerare forse per via anche delle febbre che mi stava togliendo la mia solita capacità di controllo, di stabilità... di lucidità...
    "Ti auguro un giorno di vedere questa Terra su cui vivi venir distrutta... tutto ciò che dai per scontato come respirare l'aria o solcare i mari sparire... vagare come profugo su un pianeta sconosciuto, uno privo di tutto ciò che ti ha reso ciò che sei oggi... il mare, i pesci, le isole, la sabbia... ti sfido a ignorare la voglia di tornare se qualcuno ti dicesse che la Terra è tornata così come la ricordavi... Sono partita... bè fammene una colpa..."
    Ormai gli occhi lucidi e vitrei brillavano di pura energia in cui era impossibile ormai distinguerne le pupille o la cornea... anche intorno al mio corpo i fulmini divennero maggiori.
    "Ma poi sono tornata perchè... dopotutto casa non era casa... perchè la mia casa eri ormai diventato tu..." la voce tremava e tutti i peli del mio corpo, capelli compresi, si rizzarono in aria.
    "E' circa un anno che non mi vedi e guarda come questo ti ha ridotto pieno di risentimento ed ira nei miei confronti, ma nemmeno per un attimo ti sei fermato a pensare... che sul mio pianeta il tempo scorre diversamente... Maledetto Kewnay, sono dodici anni che sogno il tuo viso ogni giorno..."
    Ormai l'energia era così forte da divenire statica e sapevo che presto non l'avrei più controllata, ripresi coscienza e lucidità e cercai di trattenerla tutta, ma questo causò l'inevitabile. I miei capelli tornarono giù, i fulmini smisero di circondarmi, l'energia di scorrere dei miei occhi e... semplicemente svenni.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 5/9/2019, 20:23
     
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    :Edward:
    La vidi barcollare, mentre l'involucro di fulmini che l'aveva circondata per qualche secondo svaniva d'improvviso. La sorressi, e la sensazione del suo corpo tra le mie braccia riportò indietro troppi ricordi, ognuno di questi un colpo ben assestato alla mia faccia.
    Non fu quello lo shock maggiore. Fu la consapevolezza che la sua energia, così forte, impetuosa, piena, era svanita. Avevo perso contatto anche con le sue emozioni, un legame che condividevamo da quando ci eravamo sposati alla maniera gioviana, un contatto che nei mesi passati mi sarei strappato via come se fosse il mio braccio, se solo avessi potuto, per sottrarmi al tormento che mi dava. Mi piombò addosso come una valanga la paura che non lo avrei sentito mai più. Al suo posto, un vuoto pauroso che non riuscivo a realizzare.
    Ero paralizzato dal terrore che fosse tutto finito. L'avevo già persa due volte, e questa sarebbe stata l'ultima. Ero così sconvolto che non riuscivo a reagire a nulla.
    Qualcuno me la strappò dalle braccia. Jacob. Non se n'era andato, era rimasto lì, a controllarci, a sincerarsi che il nostro ennesimo scontro non degenerasse una volta di più. Perché lui amava veramente quella che considerava come sua sorella, anche se oramai la menzogna del loro legame si era scoperta già da tempo. Jacob sapeva avere cura delle persone che amava, non come il sottoscritto.
    Mi vomitò addosso accuse ed insulti così ben costruiti che si vedeva quanto li avesse studiati da molto, molto tempo. Ma io non reagii, mi sentivo come un pupazzo vuoto.
    Fece un gran casino, e in breve si radunò una piccola folla intorno a noi. Diversi si adoperarono per capire cosa fosse successo, venni messo da parte, ignorato, sicuramente giudicato. Ma era come se non fossi davvero presente.
    La portarono via, non mi importava neanche sapere dove. In breve, rimasi da solo in mezzo al vialetto bianco del giardino. Solo.
    Tornai stancamente nella mia stanza. O almeno, questa era l'intenzione, ma diverse volte persi la strada, raggiunsi luoghi diversi, che non avevo in programma, e dovetti tornare indietro. Qualcuno più intellettuale di me avrebbe detto che questa era un'ottima metafora della vita. Magari si poteva appiccicare anche alla mia.
    Adéwale mi intercettò quando ero ormai arrivato a destinazione. Voleva offrirmi il suo aiuto, ma lo rifiutai seccamente. Di contro, mi rintanai dove nessuno avrebbe dovuto cercarmi.
    Passai le ore, i giorni successivi – avevo perso la nozione del tempo, e davvero questo non aveva più nessun valore – a combattere.
    Contro chi? Contro chiunque. Contro il mio passato, i miei demoni, i fantasmi, le paure; contro me stesso e contro di lei.
    Urlai. Sfogai la mia rabbia. La mia stanza si trasformò in un luogo devastato da una tempesta tropicale. Non un mobile era rimasto intatto, non una sedia, non una suppellettile. Cocci di bottiglie sparsi vicino alla porta, usati come proiettili per allontanare chi si permetteva di disturbarmi.
    Eravamo entrambi arrivati alla fine. Forse lei, quando mi aveva visto, lo sapeva già.
    Avevamo portato le nostre anime ad un punto di rottura, ed un maelström ci stava trascinando via.
    Mi aveva accusato di essere insensibile, di aver ignorato che per lei l'attesa era stata molto maggiore della mia. Ma cosa sono dodici anni, in confronto ai secoli in cui l'avevo attesa io? Come poteva paragonare la sua sofferenza alla mia tortura, quando pur avendola vicina non potevo averla, perché lei non aveva neppure una memoria di noi?
    Quanto avevo combattuto per amore suo, in quegli anni e in tutte le altre occasioni?
    Mentre era su Giove, io avevo sentito la sua tristezza e lei aveva avvertito la mia, ma soprattutto la mia rabbia, crescere a dismisura. E le aveva ignorate. Per dodici anni.
    Sapeva quale inferno stavo vivendo, e aveva comunque anteposto il suo dovere a me. A noi .
    La mia attenzione si spostò per qualche secondo sul respiro affannoso, una nuova rovina intorno a me. Guardai la mia mano, ustionata, come se appartenesse a qualcun altro. Una smorfia mi tirò la bocca, nell'osservarla da vicino: era proprio malridotta, quasi si vedevano biancheggiare le ossa, tanto la carne era consumata e nera. L'acqua del pozzo mi avrebbe guarito velocemente, ma ora non avevo bisogno di niente, neanche del minimo conforto dato dall'assenza del dolore.
    Alzai lo sguardo. L'enorme specchio dalla cornice dorata, parte del bottino ottenuto dal saccheggio di un galeone spagnolo, rimandava la mia immagine in maniera impietosa.
    Quello che vedevo era un uomo distrutto. Dal dolore, dall'alcool, dalla vita. Gli occhi nel riflesso mi restituivano uno sguardo di odio che avrebbe fatto tremare un uomo normale.
    Nella mano sana stringevo un vecchio cimelio, una delle mie pistole a pietra focaia. Avevo sempre amato tenerle in perfetta efficienza, e anche dopo tutti questi secoli potevano essere ancora discretamente letali. I suoi fregi dorati risplendevano come fosse nuova.
    Come era tutto più semplice, quando ero solo un pirata assetato di oro e di libertà.
    Alzai il braccio e scagliai la pistola contro lo specchio, mandandolo in mille pezzi.
     
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    "Dovremo chiamare al più presto uno dei Sacerdoti!" urlò Jacob in preda all'ansia ed all'agitazione.
    "Sarebbe più opportuno prima cercare qualcuna delle Guerriere!" osservò Lara.
    "O forse dovete solo stare zitti!" concluse un'Ares su di giri che entrano nella stanza in compagnia di Athena ed Aphrodite aveva fatto uscire tutti dalla stanza dando l'ordine a Lara di andare a cercare immediatamente Ah Tabai. La giovane lo fece senza batter ciglio, ma al contempo lanciando uno sguardo preoccupato a Jacob che con una mano tra i capelli si muoveva in modo convulso, incapace di stare fermo, desideroso di aver anche lui qualcosa da fare per sentirsi utile.
    "Non ho mai visto una febbre elettrica in un gioviano adulto..." osservò Athena preoccupata.
    "Perchè non esiste!" sentenziò Ares.
    Era risaputo che fosse tipico dei giovani bambini, chi riceveva i poteri divenendo così sacerdote o senshi, che per imparare a conviverci sviluppasse una sorta di rito di passaggio, una febbre per l'appunto. Tuttavia accadeva in tenera età e nonostante alcuni ne morissero, era proprio l'età giovane a rendere la malattia più facile da debellare.
    "E l'ira di Kenway non aiuta!" disse Aphrodite con tono greve, una mano sulla fronte della compagna e lo sguardo più luminoso del solito. Uno dei potenziamenti che aveva sviluppato era il percepire l'Amore tra le persone, in ogni sua forma. Riusciva a "vederlo" nascere, crescere, morire... poteva vedere le forme che prendeva e le conseguenze negative o positive che creava. Come aveva già intravisto il laccio crearsi tra Bayek ed Ares, ancor prima che loro se ne rendessero conto, riusciva anche a vedere come l'odio di Edward danneggiasse quella situazione.
    "Cosa significa?" sbottò un Jacob fuori di sè, i pugni stretti di chi non vedeva l'ora di usarli.
    "Il matrimonio gioviano che hanno contratto li unisci emozionalmente... Kenway probabilmente non sente più Nike perchè il suo odio lo sta consumando, ma Nike lo sente e la sua instabilità sta rendendo instabile anche lei... se continua così la ucciderà!" sentenziò un'Aphrodite alquanto furiosa e preoccupata.
    Fu in quel momento che arrivò Ah Tabai, mentre Jacob avvicinandosi proprio alla venusiana le pose una domanda che sperava potesse aiutarlo a salvare sua sorella.
    "C'è un modo di recidere il legame?"
    "Uno dei due dovrebbe morire oppure ENTRAMBI di comune accordo dovrebbero non AMARSI più, cosa che vedo impossibile... Kenway non ha ancora capito che se c'è odio c'è amore... non esiste odio tra due persone che non si amano..."
    Jacob assentì deciso più che mai a fare il necessario, ma fu mentre usciva a grandi passi dalla stanza che Lara lo intercettò nel corridoio.
    "Dove credi di andare?"
    "Ad ammazzare quel figlio di puttana!"
    "Jake datti una calmata, non sai cosa dici...
    "So solo che Nike non avrebbe mai dovuto recuperare la memoria, so che sarebbe dovuto rimanere Evie e vivere tutta la sua vita lontana dalla merda in cui è costretta... non mi interessa quello che dice il sangue, lei è e rimarrà sempre e comunque la mia sorella gemella e per lei sono disposto a tutto!"
    Seppur priva di sensi sentivo intorno a me le voci concitate di tutti e seppur l'istinto era quello di alzarmi e correre a fermare Jake prima che facesse una cazzata, la realtà era che purtroppo ero immobile in quel maledetto letto incapace di svegliarmi ed alzarmi. Sentivo l'energia crescere in me e la consapevolezza che se non fosse stata trovata una soluzione ciò che avrei provocato sarebbe stata la distruzione della costa ovest dell'America.
    Usai dunque l'unica arma che avevo, la stessa che mi stava facendo peggiorare, per trovare una soluzione NON per me, ma per l'incolumità di tutti.
    Fu così che usai il contatto di Edward per confluire la mia energia e farla correre dentro la presa elettrica e da lì raggiungere la sua camera da letto per apparirgli, quasi come un fantasma, riflessa nei vetri rotti dello specchio.
    Non potevo parlare, ma dovevo farmi capire... e speravo di riuscirsi legandomi alla sensazione di morte e desolazione che lo impregnava...
    "Cassa. Legno. Fossa. Terra." parole che potei far rimbombare nella sua testa sperando che non le prendesse come un incitazione al suicidio. Si trattava di me.
    Dovevo essere messa in una cassa di legno e poi seppellite nella terra, in una fossa... ciò mi avrebbe permesso di esplodere, ma l'energia si sarebbe scaricata a terra senza provocare danni a nessuno. La febbre sarebbe cessata, avrei controllato i miei poteri e sarei stata meglio, ma per farlo dovevo "morire".
    "Uccidimi Edward!"


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    Stavo per scoppiare, l'ira attraversava i miei muscoli come corrente elettrica. Sembravo molto più simile a Evie in quel preciso istante che in tutta la nostra esistenza. Anche se non eravamo davvero fratelli, avrei dato me stesso pur di vedere nuovamente i suoi occhi di cristallo. E una soluzione c'era, me l'avevano servita su un piatto d'argento: uccidere Edward Kenway. Il mio passato col pirata aveva avuto sempre alti e bassi, eravamo stati sia avversari che complici, ma mai come in quel momento sarei stato disposto a spazzarlo via dalla faccia della Terra. Evie prima di tutto. Il suo sorriso e il suo affetto prima di tutto. Punto.
    Lara bloccava la mia strada e - anche se per un attimo infinitesimale - la odiai per quello sbarramento. Doveva lasciarmi fare se volevamo salvare "mia sorella"!
    "Sentiamo Lara, hai altre soluzioni per risolvere la situazione? Per me, adesso, l'unica praticabile e far fuori Kenway!"
    Continuava a fissarmi contrariata, ma non rispose. A quel punto provai a superarla, ma lei si parò nuovamente di fronte e mi mise i due palmi sul torace.
    "Non farlo, Jake, te ne pentirai. Se Nike dovesse sopravvivere - e non c'è certezza assoluta in questo! - ti biasimerà in eterno! E' pur sempre la sua metà... Oltre al fatto che Edward non si lascerà uccidere senza combattere e tu potresti riceverne del danno! Come si sentirebbe allora lei?"
    La fissai tetro e poi espirai rumorosamente. Stavo impazzendo.
    "Non puoi essere sicura di tutto questo..." sibilai.
    "Ne tu puoi essere sicuro del contrario!" ribatté Lara esasperata.
    Mi voltai di scatto, dandole le spalle e infilando le dita tra i capelli. Ringhiai tra i denti serrati e la mia gola bruciò, mentre il mio corpo tremava.
    "Non posso perderla..." sussurrai ancora, questa volta sconfitto, mentre con la schiena mi trascinavo lungo la parete del corridoio e finivo in terra. Le mani adesso sul viso e la rabbia ancora bruciante nel ventre. Cosa dovevo fare? Rischiare di perdere per sempre la benevolenza di Evie e uccidere il pirata? Oppure salvarla e vivere per sempre col suo biasimo addosso? Dentro di me, sapevo quale fosse la scelta migliore. In fondo, però, avrei trovato il coraggio di sfidare la sorte in una maniera così audace? All'improvviso mi sentii un perdente: non ero in grado di fare nulla per aiutare una delle persone più importanti della mia vita.
    Alzai lo sguardo quando percepii la mano di Lara sul mio capo, mi accarezzò guardandomi con occhi pieni di comprensione. Capiva cosa stavo provando, ma anche lei - come me - era impotente di fronte al destino. Tuttavia, non mi arresi. Non potevo arrendermi, non sarei stato me stesso altrimenti.
    "Aspetterò solo mezz'ora. Se entro trenta minuti non si sarà trovata una soluzione alternativa, io procederò con la mia. Costi quel che costi."
    Nel mio sguardo iniziò ad ardere nuovamente la fiamma della determinazione. Non sarei rimasto inerme di fronte alla maledetta sorte. Non quando in gioco c'era così tanto. La mia Evie doveva vivere.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 2/9/2019, 21:14
     
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    :Edward:
    Annaspai come se i polmoni stessero per scoppiarmi. Respirai quello che mi sembrò il mio primo respiro da un sacco di tempo. Ne fui grato come quella volta che, appena promosso da corsaro a pirata, senza un futuro sul quale poter contare, mi ritrovai a baciare la sabbia di una spiaggia sperduta, dopo essere scampato all'affondamento del brigantino con il quale avevamo attaccato un convoglio britannico.
    Lo stesso sollievo, al pensiero di essere scampato ad un pericolo immenso. Ricominciai a sentire la sua energia, carica di un'urgenza che fu come una doccia ghiacciata su tutti i miei sensi. La sua immagine, simile ad un ologramma, si formò davanti a me. Nella testa sentii la sua voce. Ripeteva delle parole, come un disco rotto, a cui non sapevo dare un significato, così come non capivo la sua richiesta.
    "Cassa. Legno. Fossa. Terra. Uccidimi Edward!"
    ”Ucciderti? Come potrei mai farlo...”
    Nonostante questo, i miei piedi già si dirigevano verso la porta. Era venuto il tempo di agire. Troppo avevo concesso alla mia voglia di distruzione. Sapevo essere migliore di così.
    Appena in corridoio, mi misi a correre, così quasi piombai su due persone lì vicino. Una di loro, vedendomi, si tirò su con foga dal pavimento.
    ”Schifoso bastardo! Era ora che facessi vedere il tuo muso nei casini che combini! Stai uccidendo Evie con il tuo odio!”
    Andai addosso a Jacob, prendendolo per i vestiti: ”Dove avete portato Nike? Ho bisogno di vederla, lei mi sta chiamando!”
    Jacob si liberò di me con uno strattone. Non stava capendo quello che stava succedendo, e neanche io, a dirla tutta. Non potevo fare appello alla fiducia nel sottoscritto, con lui, ma non mi stupiva: le persone che me la riconoscevano stavano tutte comodamente sulle dita di una mano. Feci leva su altro, su quel poco che ci accomunava.
    ”Forse c'è una possibilità per salvarla! Che tu ci creda o no, ha chiesto il mio aiuto! E forse mi stai facendo perdere tempo prezioso... vuoi continuare così o mi dici dove è?”
    ”La abbiamo portata nell'infermeria, stronzo!”
    Corsi come un indemoniato in quella direzione, Jacob e la ragazza nuova – Cara? Sara? - alle mie calcagna. Travolsi diverse persone nella foga, ma non mi feci rallentare da niente.
    Se c'era davvero una possibilità di salvarla, niente mi avrebbe fermato. Non era una questione che riguardava il nostro rapporto, i problemi che avevamo non sarebbero svaniti come se nulla fosse mai accaduto, ma ora avevo solo un obiettivo davanti a me: risvegliarla dalla sua crisi.
    Nell'infermeria trovai le Guerriere e Ah Tabai che la stavano assistendo. Lei era sul letto, immobile e bianca come una statua.
    La mia comparsa non fu certo un piacere per loro, ma da quando ciò era rilevante? Eppure, ora avevo bisogno che mi ascoltassero.
    ”Sei arrivato, finalmente!”
    ”Sì, ma rimandiamo a dopo i festeggiamenti!” Ignorai l'occhiata indispettita della Venere Perfetta, e mi rivolsi a chi mi avrebbe aiutato a risolvere l'enigma.
    ”Athena, Nike sa come poter guarire, ma ha bisogno del nostro aiuto, subito!”
    Fu straziante quello che facemmo successivamente. Ci mancò poco che io e Jacob perdessimo la ragione nel deporre Nike in una cassa, calarla in una fossa profonda e ricoprirla di terra.
    Eppure, lo facemmo. Poche volte in vita mia dovetti affidarmi in maniera così forte alla fiducia nelle azioni di altri. Le sue compagne sembravano quasi serene, nel compiere quello che a noi sembrava niente più che un rito funebre.
    Dopo aver gettato l'ultima palata di terra, i secondi cominciarono a passare, lentissimi. Non sapevamo neanche cosa aspettarci, quale segnale sarebbe arrivato, per indicarci che avevamo avuto successo.
    Il mio sguardo vagava smarrito, e trovando quello altrettanto smarrito di Jacob, feci un mezzo sorriso. Immaginavo le sue accuse, perché erano simili a quelle che in molti mi avevano rivolto in passato: egoismo, arrivismo, crudeltà, disinteresse verso gli altri.
    Avevo perso troppe persone per averle lasciate indietro. Per averle allontanate. Avevo sempre fatto decidere il mio orgoglio e la mia ambizione. Non mi ero mai scusato di niente, perché ogni uomo aveva diritto a scegliere la propria strada.
    Ma un uomo d'onore, quello che avevo deciso di diventare unendomi agli Assassini, manteneva la propria parola. E non era ciò che stavo facendo, con Nike.
    Io non la odiavo, nemmeno per un secondo, nemmeno quando per lei avevo toccato il fondo - e solo dio sapeva quante volte era successo – avevo provato un sentimento simile all'odio per lei, al contrario. Tutto il male ed il dolore che avevo sofferto era dovuto al fatto che la amavo.
    Fin dall'inizio, il nostro rapporto era stato vissuto alla giornata. Niente promesse, niente vincoli, solo due persone che si amavano. Ma dopo il matrimonio, le cose avrebbero dovuto cambiare. Il legame era diventato più forte, l'impegno maggiore. Io mi aspettavo che cambiassero, ma così non era stato. Mi ero sentito un cretino, sedotto e abbandonato da un'aliena che se ne era tornata sul suo pianeta, che aveva tradito la parola data.
    Respirai a fondo per evitare che la rabbia prendesse di nuovo il sopravvento. Mi sentivo intrappolato in una spirale negativa, che si ripeteva all'infinito. Dovevo spezzarla, se volevo salvare qualcosa nella mia vita.
    A distrarmi ci fu una scossa sotterranea. Come un cupo rimbombo, con vibrazioni che si estesero ampiamente sotto di noi per diversi secondi. Poi, silenzio.
    Scattai verso il punto in cui c'era la fossa.
    ”Dobbiamo scavare e tirarla fuori da lì, aiutatemi”!


    Edited by Illiana - 3/9/2019, 17:01
     
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    :Nike:
    Scaricarmi a terra era stata una vera e propria manna dal cielo, una che mi aveva permesso finalmente di sentirmi meglio al punto che trovavo anche la mancanza d'aria liberatoria. Dopotutto per me l'ossigeno non contava come gli umani ed al contrario ci avevo messo secoli per abituarmi a quell'atmosfera, tanto che perfino riavere a che fare con l'ossigeno fu un attimo destabilizzante. Ma lì sottoterra, mi sentivo a mio agio, percepivo tutto ciò come una "boccata di ossigeno", seppur questo non era percepito ugualmente fuori tanto è che quando Edward e Jacob aprirono la cassa, concitati e preoccupati, io quasi provai fastidio uno però che mi fece dimenticare ogni cosa e con un sorriso sul volto, di chi è felice, di sentirsi finalmente completa, in un batter d'occhio sparì e non lo feci da sola.
    Ora riuscivo a manipolare quel sovraccarico di energia uno che mi permetteva di divenire io stessa energia e così spostarmi dove volessi, anche sul mio pianeta lì dove ero appena arrivata in compagnia di Edward.
    Giove doveva essere molto diverso da come se lo immaginava in quanto le nubi più alte erano formate di ammoniaca che poi lentamente si addensava fino a formare a terra un complicato sistema di nubi attraverso le quali noi gioviani eravamo abituati a vedere. La temperatura media era di -121 gradi e per ovviare a questo, ed alla mancanza di ossigeno nell'aria, mi premurai di stringere a me Edward e dopo un bacio, dettato solo dalla necessità di dargli l'ossigeno necessario per un altro "viaggio", ci trovammo all'interno di un palazzo in cui ero tranquilla che avrebbe potuto respirare tranquillamente e non soffrire il freddo.
    Tutti erano in subbuglio per una tempesta in arrivo, una delle tante a cui eravamo abituati, mentre guidavo Edward tra quei corridoi, di chi sapeva dove andava e cosa faceva.
    "L'atmosfera di Giove è molto complessa e seppur è composta principalmente da idrogeno molecolare ed elio, al suo interno ha anche tracce di metano, ammoniaca, acido solfidrico ed acqua... La popolazione gioviana non è tutta uguale, esistono "gruppi" in cui ognuno dipende da una tipologia precisa di atmosfera per poter vivere, attualmente siamo nel "Distretto dell'Ossigeno" l'unico in cui puoi respirare tranquillamente..."
    Gli spiegai mentre bambini, donne e uomini ci passavano accanto concitati, ma tranquilli.
    "Su Giove abbiamo l'equivalente del vostro Uragano Kathrina, se non più forte, almeno 5 volte al giorno... I palazzi dorati di Giove sono dovuti per distiguerli tra le nebbie fitte che caratterizzano il pianeta, ma l'80% della vita un gioviano la vive sottoterra..." spiegai mentre la nostra camminata si concluse in una stanza Consigliare dove dei sacerdoti non rimasero sorpresi della mia presenza, quanto più di quella di Edward.
    "Ma... Ma Giudice Supremo come osa portarlo qui!"
    "E' un misero umano NON degno di stare al nostro cospetto"
    "Marchesa non ci costringa a ricordarLe i suoi doveri"
    "Li conosco, ma in millenni non ho mai conosciuto i miei dirtti" esclamai tranquilla, come se Edward non ci fosse. Lui che era spaesato, ma al contempo rapito da qualcosa che immaginava molto diverso. Io non lo avevo portato lì per costringerlo a perdonarmi e tanto meno per giocare la carta della compassione, credevo solo che come io per anni avevo avuto modo di osservare la sua vita (antecedente e successiva agli Assassini) scoprendo anche il suo lato pirata, forse ora toccava a lui "fare un salto" nel mio di mondo, perchè dopotutto di questo si era trattato: tagliarlo fuori.
    I tra sacerdoti si guardarono increduli, ma anche divertiti.
    "Perchè NON ne avete!"
    "Dobbiamo forse ricordarLe che li ha persi nel momento della Sua nascita?"
    "Essere scelti come Giudici Supremi e dunque Marchesi del Pianeta comporta questo, sottostare ad una vita di doveri che non tollera in alcun modo prese di posizioni! La sua imparzialità deve restare intatta e così non può essere se prende decisioni per sè stessa!"
    Avevo sentito quei discorsi mille volte, ma Edward no, forse per questo rimasi tranquilla, ma al tempo stesso consapevole come non lo ero mai stata.
    "Conosco le regole come conosco il diritto all'assemblea. Il diritto di ogni uomo e donna di questo pianeta, a prescindere dal ceto, di votare. Che si voti dunque. Presento formalmente il diritto di poter porre al popolo una decisione se far sì che si seguano l'antiche regole per l'elezione del Giudice Supremo, oltre i veti che gli vengono imposti, o se fare dei cambiamenti... quelli che proporrò!"
    "E' oltraggioso!"
    "Quell'essere inferiore Vi ha plagiata!"
    "Fratelli... Fratelli calmi... La Marchesa, che ci piaccia o no, sta seguendo le nostre stesse regole... dunque... che assemblea sia..."
    Ridacchiai tra me e me e con un cenno del capo uscì con Edward da quella stanza. Era incredibile come la nuova energia che mi scorreva dentro mi stava rendendo una persona nuova, non era solo energia fisica quella che mi era aumentata, ma anche una visione della giustizia più ampia.
    L'Assemblea lasciò Edward piacevolmente stupito, forse si aspettava un luogo di votazione e confronto più lussuoso ed invece era una grande stanza colonnata con gradinate di legno sopra le quali sedevano tutti dalle caste più alte della società a quelle più basse e "caso" avesse voluto che lui stava assistendo a tutto tra i seggi dei navigatori in quanto i giovani erano i navigatori più bravi di tutto il Sistema Solare, uno smacco per i terrestri anche se forse se la potevano giocare.
    Il voto fu un plebiscito e nonostante la rabbia dei Sacerdoti e di alcuni Politici tutti furono d'accordo che d'ora in poi i Giudici Supremi non sarebbero stati strappati alle famiglie in fasce, avrebbero seguito sì il loro destino, ma con la possibilità di crescere tra i membri della propria famiglia e di crearsene una se avessero voluto.
    Eravamo mancati dalla Terra per tre giorni, ma una volta di nuovo al Covo per i presenti erano passate poco più di 24 ore. Jacob era felice che stessi bene, ma quando seppe cosa avevo fatto mise il broncio perchè anche lui voleva vedere Giove e gli promisi che così sarebbe stato. Rassicurai le mie compagne e chi si era preso cura di me e poi affrontai Edward. Lui che per tre giorni era stato "mio prigioniero" senza la possibilità di lasciare il pianeta, ma che al contempo si era lasciato ammaliare dalla nostra flotta. Io non lo avevo obbligato a nulla. Non avevamo parlato e nemmeno passato molto tempo assieme, ma aveva vissuto nel mio mondo.
    Fu solo quando ci trovammo di nuovo soli che lo affrontai.
    "Non era mia intenzione sequestrarti, ma... la febbre, paradossalmente, mi ha reso più lucida. Mi ha fatto vedere quanto egoista sono stata e quanto ti abbia chiesto di condividere la vita con me, senza farlo realmente... Ti ho parlato del mio mondo in passato, ma non ti ho mai permesso di farne parte... Ecco ora l'ho fatto e... credo aspetti a te decidere se vorrai continuare oppure no... Perchè quello che ho fatto, lassù, non ci sarei mai riuscita se in questi anni non fossi diventata quello che sono e ci sono riuscita perchè ti ho avuto al mio fianco... il tuo spirito ribelle mi è entrato dentro..."
    Avevo parlato tutto d'un fiato sentendomi sciocca, era come se per la prima volta in sua presenza mi sentissi a disagio e non era da me.
    "Grazie a te il mio pianeta oggi è migliore... io sono migliore... e potrai anche essere lontano mille miglia, potrai non tornare mai a vedere il mio volto o sentire la mia voce... ma il mio cuore, quello non me lo potrai mai ridare indietro... perchè il suo posto vive in te..."
     
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    :Edward:
    Il pianeta delle nebbie era quanto di più lontano dalla mia idea di paradiso. Freddo, buio, inospitale.
    Ma solo navigando quei mari burrascosi e spettrali avevo riacquistato la sensazione di libertà selvaggia ed indomita che mi aveva marchiato poi per tutta la vita, con gli anni passati nella pirateria delle Indie Occidentali.
    Gli oceani di nebbia gioviani erano il classico incubo di ogni pirata di acqua dolce; tempeste furiose ed improvvise, mostri in agguato di spiriti coraggiosi. Erano bastate poche ore di navigazione, il secondo giorno su Giove, per stregarmi in maniera indissolubile.
    Ma quella, lo sapevo bene, non era una gita di piacere. Essere il primo terrestre a calpestare un suolo così alieno non era avvenuto perché avevo vinto alla lotteria. Nike mi aveva portato lì per dimostrarmi qualcosa di fondamentale, e dopo avermi lasciato da solo a riflettere su un bel po' di cose, era davanti a me a tentare un'ultima riconciliazione.
    Oh, lo sapevo bene quante volte aveva provato a farlo. Tutte quelle in cui la avevo respinta con astio e rancore, sbattendole in faccia tutta la mia delusione per il suo comportamento egoista.
    Le sue parole dimostravano un coraggio ed una forza d'animo incredibile. Rinunciare a noi poteva essere un dolore difficile da affrontare. A me aveva quasi condotto alla pazzia.
    Mi ero rifugiato nel posto peggiore possibile, in compagnia dei miei demoni, lasciando la mia rabbia libera di sfogarsi. Mi concedevo a queste bassezze quasi con voluttà, come se il degrado fosse un lusso che mi spettasse. Non mi importava di quando dolore creassi, di come lo facessi divampare fino a che tutto intorno era rovina, non solo nelle cose fisiche, ma anche nell'anima.
    Molto spesso, nella mia vita, avevo ballato sulla mia tomba e su quella di chi amavo. In tutto questo trovavo una soddisfazione atroce.
    Ma era venuto il momento di cambiare.
    La notte prima avevo avuto un incubo. Uno dei tanti, per la verità, che però alla luce del giorno mi avevano sempre fatto sghignazzare, impavido e sostenuto: i sogni sono roba da deboli di spirito, solo persone incapaci di affrontare la realtà prestano loro ascolto.
    Eppure, quello aveva lasciato un segno abbastanza difficile da cancellare, una volta sveglio. Avevo sognato Haytham. Nella scala dei miei fallimenti, lui era stato il più colossale. Lo avevo perso presto come figlio, e non avevo mai fatto nulla per riavvicinarmi a lui. Nell'incubo era ancora un bambino, dagli occhi intelligenti e dalle domande più grandi di lui: ”Perché mi hai abbandonato?” Nei sogni si dice che non si possa mentire, ed infatti, non avevo trovato nessuna risposta da dargli.
    Volevo continuare a lasciarmi dietro una scia di rimorsi?
    Mi avvicinai a Nike, lentamente. Mi era salita alle labbra una risposta strafottente, ma la ingoiai. Non era quello il momento di essere il solito bastardo irritante.
    Ma altre parole non venivano. Ero stanco di recriminare in maniera inutile, stanco della mia stessa protervia. Fanculo Kenway!
    Le sfiorai il viso. Sorrisi. La baciai.
     
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