Alternative Reality #1944: Brecourt Manor

Season 4

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    Erano passati due anni da quando mi ero svegliato in quella realtà e tutto ciò che avevo potuto fare era abituarmici. Certo in un primo momento c'erano state le domande, molte, le paure, immense, e la ribellione, incontrollata. Volevo capire che razza di scherzo macabro fosse ed il mio primo pensiero era volato a qualche diavoleria legata alle Guerriere ed al loro mondo, ma avevo dovuto scartare ben presto l'idea dell'illusione e sogno. Tutto era reale, ogni ferita o dolore non scompariva con la sola forza del pensiero ed ogni azione aveva una conseguenza.
    Ciò che mi spinse dunque a reagire fu immediatamente la voglia e la necessità di trovare i miei compagni, mia moglie, ma era come se una forza invisibile che non sapevo spiegare mi costringesse a mosse precise.
    Per quanto immaginassi, pianificassi e pensassi di scappare dal campo di addestramento dov'ero, in realtà non mettevo mai in atto nessuno dei miei piani, finendo solo per fare del mio meglio per ottenere promozioni ed avanzare di grado.
    Agli occhi di tutti ero semplicemente un soldato di colore. Non c'era Mentore o esperienza che contasse, in quel luogo tutta la riverenza e rispetto che gli Assassini mi portavano non contava. L'unica cosa importante era l'essere un nero tra dei bianchi. Poi poco contava che non fossi afroamericano, certe sottigliezze erano nulla contro l'opinione comune che i neri non potessero servire perchè inutili e non capaci come i bianchi ed infatti la storia mi aveva insegnato che molte richieste di arruolamento erano state respinte se provenienti da soldati di colore, gli stessi che qualche anno più tardi a guerra iniziata verranno invece chiamati a servire la nazione perchè semplicemente la stessa non aveva più abbastanza ragazzi bianchi da far uccidere.
    La mia opinione verso quella tipologia di guerra era molto severa, non credevo che fosse il modo per vincere e tanto meno di limitare i danni. Gli Assassini lavoravano nell'ombra per ottenere risultati con una precisione chirurgica, limitando i danni mentre quel tipo di modo di agire era solo una carnificina che causava ulteriore caos che non apportava nulla alla causa finale.
    Tutto ciò mi aveva ben presto reso il soldato solitario. Il silenzioso. Quello con cui nessuno si approcciava se non per prenderlo in giro, ma che senza ascoltare nessun tipo di opinione altrui lavorava per offrire alla causa il suo meglio ed erano state infatti le mie capacità a farmi velocemente guadagnare prestigio, ma ben poca simpatia.

    Ripensando a quei due anni nella carlinga traballante di un C47 Dakota un sorriso ironico mi nacque spontaneo sul volto. Come un cerchio che si chiude mi ero ritrovato a vivere un'esperienza in un modo non così diverso dalle mie origini. Masyaf e i suoi ricordi erano tornati a bussare alla mia porta costringendomi nuovamente a fare i conti con i miei demoni e i miei limiti.
    Un mio compagno aveva osato chiedermi, con far beffardo, il motivo del mio unico sorriso in due anni e per di più nel momento in cui meno c'era da sorridere, ma ogni mia eventuale risposta morì in un sussulto improvviso dell'aereo che tra sobbalzi sempre più frequenti iniziò a perdere quota mentre la luce rossa che ci indicava di lanciarci si accese.
    Il cielo plumbeo e nero si riempì di numerosi paracadutisti, mentre io mi trovavo ad affrontare quella che era stata la mia più grande paura in quei due anni: il vuoto. Era strano, un salto della fede lo avrei fatto ad occhi chiusi, ma lanciarmi da un aereo con un paracadute mi sembrava ancora un'azione assolutamente insensata per l'essere umano. Eravamo uomini, non uccelli.
    Ingoiai però la paura mentre tra pioggia e proiettili toccai terra in modo assai brusco, rotolando su me stesso e contando sulla mia agilità per non farmi più male del dovuto.
    "Il giubbotto di salvataggio!"
    "Cosa?" scattai alla voce alle mie spalle senza vedere nel buio chi fosse l'altro soldato che avvicinandosi mi stava aiutando a toglierlo.
    "Il sacco da gamba, il getto dell'elica lo ha staccato!" esclami mentre mi liberavo del pesante ingombro e vedevo l'uomo aiutarmi e solo allora strabuzzai gli occhi, realmente felice per la prima volta in due anni.
    "Ezio?"
    "Altair!"
    Un singolo momento che valse una vita intera, mentre stringendoci in un forte abbraccio entrambi percepimmo un lampo di gioia nell'oscurità della guerra.
    "Dai su alzati! Allontaniamoci... raggiungiamo Federico e gli altri!" assentì alzandomi veloce, infilando l'elmetto e prendendo il fucile in mano, mentre camminavano agili e scaltri nell'erba alta ben attenti a non farci vedere, qualcosa che come Assassini ci veniva bene.
    "Hai visto qualcun altro? Sei il primo che incontro in due anni..."
    "Arno! E Cormac, ma è una lunga storia! Io e Federico però siamo stati divisi da Arno... siamo finiti con una manciata di uomini in un'area più ampia di quella prevista e stiamo cercando di riorganizzarci... ho visto un soldato atterrare poco distante da noi e... a quanto pare sei tu!"
    Sorrisi teso a lui, felice di sentire e sapere che quanto meno non ero l'unico in quell'incubo, ma la mia attenzione venne attirata da una mitragliatrice mentre nascosti dietro un albero aspettavamo il momento proficuo per avanzare.
    "Aspettiamo che si ricarichi!"
    Rimanemmo in silenzio per un attimo e poi al momento adatto avanzammo felini.
    "Spero troveremo anche gli altri... le altre..." aggiunsi in un tono un poco più basso, un poco più preoccupato.
    Il legame con Aphrodite era così profondo che ero sicuro mi facesse sentire la sua paura ed il suo sgomento. Non sapevo lei dove fosse durante quel periodo storico, ma qualcosa mi diceva che era molto lontana da quei luoghi e dalla prima linea ed temevo che non sarebbe stata una situazione che facilmente avrebbe potuto gestire. Certo era una Guerriera, ma quel tipo di guerra non ero certo che fosse qualcosa che si avvicinasse alle guerre che poteva aver visto in vita sua.
    Come a leggermi nella mente Ezio mi posò una mano sulla spalla, silenzioso e pensieroso. Anche lui, chissà come mai, sembrava gravare la mia stessa preoccupazione.
    "Ti unirai al mio plotone..." esclamò come a voler deviare il discorso, mentre io cercai di nuovo la mia proverbiale freddezza e lucidità.
    "Che armi hai?"
    "Solo un pugnale ahimè... ho perso tutto durante il lancio... avrei preferito una lama celata..." mormorò a mezza voce mentre entrambi avanzammo nella vegetazione fitta circondati da colpi e grida.
    Al minimo rumore ci nascondemmo solo per notare degli uomini camminare lungo la riva, fu allora che Ezio tirò fuori un cicalino mentre io tenevo sotto tiro gli uomini che guadando a piedi il piccolo rivolo ci vennero incontro.
    "Ezio? Ezio? Sei tu?"
    Fu la voce di Federico che arrivò alle nostre orecchie, mentre uscendo allo scoperto anche lui sembrò molto felice e sollevato di vedermi.
    "Tracce di Dorian?"
    "Ahimè no!"
    "Sai dove siamo?"
    "Un cartello che abbiamo incontrato poco fa diceva Sainte-Mère-Église"
    Ezio sembrò annuire mentre controllando la mappa che il fratello gli porgeva fece non poca fatica a localizzare esattamente dove ci trovassimo.
    "Siamo a circa 7 miglia dal nostro obbiettivo ed abbiamo solo 4 ore per conquistarlo! Mettiamoci in marcia!"
    Assentendo mi unì al gruppo ricordando esattamente cosa le parole di Ezio significavano, avevo visto i piani e la mia mente non da semplice soldato aveva immediatamente processato.
    "Stiamo andando verso il Corridoio 2 vero?" chiesi a bassa voce per non spaventare i soldati con noi, sapevo quanto fosse importante mantenere la calma di fronte ai sottoposti e condurli alla battaglia senza gettarli nel panico.
    "Utah Beach! Dobbiamo prendere possesso dei campi nell'entroterra occupati dai tedeschi... Dobbiamo liberare quei passaggi!"
    "Siamo in cinque Ezio e solo tre di noi sono realmente preparati a ciò che ci troveremo di fronte..."
    "Ne sei sicuro Altair? Perchè nessuno di noi è mai stato preparato a questo!"
     
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    La notte passò lunga e stancante soprattutto perchè durante il tragitto non fu raro doversi imbattere in nemici da abbattere o molto semplicemente in compagni da ritrovare. Nonostante la Compagnia Easy si era riformata, più il sottoscritto, fu frustrante non incontrare nessuna faccia amica. L'incubo maggiore era non capire in quanti fossimo, chi fossimo e se fossimo solo noi oppure no.
    Molti dei ragazzi con noi non era abituati, nonostante gli addestramenti, a qualcosa di tanto stancante e sconvolgente, così arrivammo all'alba nei pressi di Brécourt che quasi si trascinavano a fatica.
    Uno dei momenti più forti fu quando ci imbattemmo in un ampio campo pieno di animali, ma sopratutto, soldati morti. Nostri soldati. Alleati ed in alcuni casi amici.
    La mia freddezza e lucidità mi faceva apparire, ancor più dei miei confratelli, un blocco di ghiaccio che dava l'impressione di non essere colpito da niente e nessuno, anche se così non era. Quella scena mi aveva riportato ad un tempo che quasi avevo dimenticato, ad una Masyaf che ancora popolava i miei incubi dopo l'assedio di Al Mualim e la morte e la distruzione che ne aveva conseguito.
    "Prendete tutto ciò che trovate, ne avremo bisogno!" ordinai senza farmi fermare da tanto orrore o da tanti ricordi, mentre piegandomi su alcuni cadaveri, a prescindere che fossero di nemici o alleati, iniziai a tastarli per recuperarvi armi, munizioni e qualsiasi altra cosa potesse esserci utile. Una mossa, ad essere sinceri, anche tipicamente d'Assassini.
    "Io non prendo ordini da un negro!" esclamò uno dei soldati fissandomi di sbieco, dietro di lui altri che avevano la stessa espressione scioccata sul viso. Come se non avessi cuore o anima, peccato che forse non si erano accorti che eravamo in guerra.
    Federico, Arno ed Ezio mi seguirono a fare altrettanto, mentre quest'ultimo metteva in riga i suoi uomini.
    "Il Sottotenente Ibn-La'Ahad vi ha dato un ordine, eseguitelo se non volete essere puniti per insubordinazione!" esclamò con tono tagliente e deciso, tanto da far muovere i culi dei soldati semplici senza troppe storie.
    Eravamo ormai ad un passo da Brécourt e quando vi arrivammo fummo colpiti della quantità di compagnie presenti, era quello il punto d'incontro, era logico, ma in cuor mio cercavo in quella moltitudine di visi qualcuno che mi paresse familiare e così i miei confratelli, ma tutto fu vano.
    Mi adagiai sul fianco di un dosso di terra ed erba, sotto un piccolo albero e con me tutti gli altri, ma il tempo di compiere tale azione che un ragazzino gracile e non particolarmente alto si avvicinò gridando a gran voce che cercava la Compagnia Easy ed il suo capitano, quello che il Maggiore Streyer voleva incontrare.
    "Ezio mi sa ti tocca!" incitò Federico nella direzione del fratello che promosso, suo malgrado, si allontanò lasciandoci soli.
    In attesa di conoscere le nostre prossime mosse mi tastai il collo felice di scoprire che la collana che portavo con le piastrine era ancora al suo posto, ancor più perchè tirandola fuori ad essa vi era appeso anche qualcos'altro: la fede di Aphrodite.
    Seppur nei matrimoni venusiani non si usasse, lei era stata entusiasta di tale tradizione terriana ed aveva insistito affinché ne avessimo due anche noi, che però aveva fatto forgiare su Venere ed infatti seppur all'apparenza poteva sembrare oro, aveva un scintillio diverso, più puro e decisamente più brillante.
    Me la girai un po' tra le dita pensando a dove fosse e soprattutto come stesse. Il nostro legame lì sembrava essere sparito, come se non ci fosse più niente di venusiano a legarlo, ma questo cosa voleva dire? Che ovunque fossimo lei non lo era? Non sapevo dare una risposta, ma mi ero talmente abituato a sentire sempre dentro di me come lei stesse o dove fosse, che quella mancanza improvvisa mi faceva gelare il sangue nelle vene.
    Ricordavo ancora come Aphrodite mi avesse raccontato quanto per un venusiano conto ed importante l'amore, non solo regola ogni aspetto della vita, ma quando lo si trova, quello vero. Quando ci si unisce ad esso e si dona se stessi, perderlo vuol dire perdere la propria vita. Nessun venusiano sopravvive alla perdita della sua metà, è una conseguenza normale. Mi terrorizzava dunque l'idea che lei non potendo più "sentirmi" potesse sviluppare tale "sintomo" che l'avrebbe portata alla morte.
    Baciai dunque la fede stringendola forte nel pugno, mentre un Federico silenzioso mi appoggiava una mano sulla spalla ed Arno serrava la mascella con fare contrito.
    Voltai il capo sorridendo con fare mesto Auditore, ma prima che qualsiasi parola potesse essere detta Ezio, poco lontano da noi, ci richiamò e con la mano ci fece segno di avvicinarsi per poi sparire nel fienile vicino. Lì dove su un tavolo improvvisato in legno marcio era collocata una mappa intorno alla quale tutti ci mettemmo.
    "Allora ragazzi poco lontano da cui c'è un maniero situato a poco più di 4 chilometri a sud di Utah Beach ed a nord del villaggio di Sainte-Marie-du-Mont. Vicino ad esso ci sono degli 88, sono tra noi ed il Corridoio 2 e sparano verso i ragazzi che sbarcano a Utah..."
    "E noi dovremmo occuparcene? Siamo solo in 12!" protestò uno, mentre per poco non mi scappò un sorriso, se solo avessero saputo quante missioni ugualmente pericolose un Assassino poteva affrontare anche da solo. Tuttavia la situazione era complicata proprio per quello, non eravamo soli. Come Assassini avremmo sicuramente affrontato la cosa in modo diverso, ma con persone che non lo erano non potevamo rischiare la loro vita (non più del dovuto) e nemmeno la riuscita della missione.
    "Se ci organizziamo bene ce la possiamo fare. Sappiamo che ci sono 2 cannoni che sparano verso Utah Beach e si presume ce ne siano anche un terzo ed un quarto. I tedeschi sono trincerati ed hanno accesso all'intera batteria con una mitragliatrice pesante MG42 che li copre alle spalle. Stabiliremo una base di fuoco e ci muoveremo sotto di essa in varie squadre!"
    Sintetizzò Ezio con un fare preciso e deciso tipico di ogni Mentore ed in quel caso di Capitano.
    "Alcuni di voi posizioneranno delle mitragliatrici pesanti Browning M1919 e ci forniranno un fuoco di copertura, mentre altri aggireranno il nemico sul fianco e distruggeranno una mitragliatrice fornendo così ulteriore copertura. Io, Auditore e Dorian ci occuperano dell'assalto principale!"
    Concluse Ezio prima di voltarsi e guardarmi dritto negli occhi.
    "Porteremo anche del tritolo e per questo se ne occuperà il Tenente Ibn-La'Ahad!"
    "Tenente?" chiese uno dei soldati infastidito.
    "Dopo la morte del comandante il Maggiore mi ha promosso vostro Capitano questo vuol dire che Altair è diventato Tenete e mio secondo, mio braccio destro. Seguirete alla lettera tutto ciò che io e lui vi diciamo!"
    Era strano come qualcosa che facevamo abitualmente in quel contesto risultasse incredibilmente difficile da comprendere anche se l'accondiscendenza, ovvia, di Federico ed Arno ispirò tutti i soldati molto presto.
    "Ok facciamolo e vediamo di non morire, non ancora!" esclamò Federico ironico, seppur fu una battuta che capimmo in pochi, lasciando straniti i più.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 10/1/2020, 18:40
     
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    Mi concessi un solo, brevissimo, istante, che a me parve durare un’eternità. Lasciai che l’aria sferzasse la pelle del viso, che la pioggia fustigasse la mia divisa da combattimento e i materiali che mi portavo dietro, poi svuotai la mente da ogni pensiero o preoccupazione. Mi concentrai sulla sensazione di libertà che il vuoto mi stava donando, il formicolio familiare alle gambe e il tremore naturale allo stomaco. Avevo sperimentato altre volte questa condizione di pace estrema, durante i vari Salti della Fede a cui mi ero abbandonato volutamente e pochissime volte per reale necessità. Era un modo per sentirmi vivo, la prova che qualcosa dentro di me funzionava ancora nel modo giusto. Amavo volare.
    Tuttavia, l’istante di pace fu davvero breve. Un’improvvisa deflagrazione fin troppo vicina mi costrinse a tornare bruscamente alla realtà e a deviare non di poco la mia rotta di discesa. Altrettanto vidi fare ai miei compagni poco sopra e poco sotto di me. L’atterraggio sarebbe stato più rocambolesco del previsto… e questa era ormai una certezza visto l’intenso fuoco nemico a cui erano sottoposti i velivoli che ci avevano trasportato a destinazione. Il nostro “sbarco” non era iniziato nel migliore dei modi!
    Mi concentrai sul punto di impatto! Nel tentativo di evitare il più possibile i colpi della contraerea tedesca rischiai quasi un avvitamento e finii dritto dritto tra i rami di un albero immenso. Con le braccia riparai il viso e mi lasciai andare. Non avevo molta scelta se non pregare il fato che non mi facesse terminare in quel modo davvero poco eroico il mio personale d-day.
    “Dannazione!” La mia voce uscì fuori in un ringhio spezzato, il dolore mi aveva impedito di urlare e questo poteva essere un vantaggio visto che non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi. Per quanto ne sapessi, avrei potuto avere sotto ad attendermi un intero plotone nemico.
    Respirai piano e cominciai ad analizzare i danni alle attrezzature e… al mio corpo. Le armi sembravano non aver avuto problemi ed era già una piccola vittoria. Lo zaino era bloccato. I rami mi avevano ferito superficialmente e la divisa era strappata in più punti, riuscivo però a muovere i piedi e le gambe, altra nota positiva. Meno positiva era la condizione del braccio destro, ciondolava in maniera innaturale appeso al ramo che aveva frenato la mia caduta vorticosa. Ed era proprio l’osso della spalla fuori sede che mi stava provocando un dolore non indifferente… Ok, dovevo rimetterlo apposto. Ok, dovevo però prima scendere da lì. E infine avrei dovuto mettermi in contatto con Ezio! Più facile a dirsi che a farsi.
    Riuscii ad afferrare il pugnale che tenevo alla cintura e cominciai a tagliare le cinghie del paracadute. Mi puntellai sui rami più bassi per evitare di cadere rovinosamente una volta perso il punto di trazione. L’operazione andò abbastanza liscia se evitavo di tener conto delle fitte lancinanti alla braccio. Strinsi i denti fino a sentir scricchiolare la mascella, ma alla fine fui libero. Avrei dovuto abbandonare lo zaino e il paracadute lassù, altrimenti non ce l’avrei fatta a raggiungere la terra ferma. Mi misi a tracolla il fucile, rimisi al suo posto il pugnale, trattenni il respiro e mi preparai alla discesa.
    Non fu per niente semplice: un paio di volte rischiai di rompermi l’osso del collo cadendo, ma alla fine riuscii a poggiare i piedi sul terreno, rotolando subito dopo. Fu allora che percepii tutta la forza di gravità fare il suo dannato dovere, il dolore alla spalla esplose e mi morsi le labbra a sangue per non gridare. Un semplice uomo, ecco cos’ero in questo preciso momento. Non esistevano Assassini, rivoluzionari, Deviati, Alieni. Eravamo semplici uomini alla mercé della storia. Questa consapevolezza mi tolse il fiato ancora più delle fitte atroci.
    Ciò nonostante non avevo tempo per dedicarmi a queste “alte” riflessioni. Dovevo sistemare la spalla e mettermi in marcia per trovare i miei compagni!
    Mi tolsi l’attrezzatura da dosso e mossi il braccio con cautela, tastando l’osso dell’omero. Il dolore era a tratti acuto, ma non assurdo, quindi immaginavo che non ci fosse un grave danno all’articolazione. La manovra di riduzione era preferibile non farla mai da soli, ma a causa della mia “giovinezza sopra le righe”, avevo imparato a metterla in atto senza l’aiuto di nessuno. Ovvio, non era piacevole e non potevo essere certo del reale insulto all’articolazione, ma eravamo in guerra e non potevo proprio permettermi di andare per il sottile. Così, respirai a fondo, più volte, prima di appoggiarmi al tronco del grande albero, la spalla aderente alla corteccia rugosa ma relativamente compatta. Strinsi l’osso nel palmo della mano sinistra per applicare la forza opposta allo strattone che avrei dato tra tre, due, uno… Tack! Lo spasimo lancinante che mi colpì mi face quasi perdere i sensi, sentii gli occhi riempirsi di lacrime involontarie, ma continuai a prendere profondi respiri per diversi minuti, rannicchiato sulle ginocchia come un cartoccio da buttare. Col passare del tempo, il dolore iniziò a scemare e il cartoccio in cui mi ero trasformato riprese sembianze umane. Mi raddrizzai un po’ a fatica, ma il peggio sembrava ormai passato. Mi asciugai il volto dalla pioggia e dalle lacrime residue più o meno pronto a continuare quell’avventura iniziata decisamente male.
    Pioveva a dirotto e non avevo alcuna speranza di capire la mia posizione grazie a qualche riferimento. Non mi restava che trovare un sentiero, procedere fino a trovare un dannato cartello e sperare di incrociare soldati amici.
    Camminai cauto per centinaia di metri, attento a quanto mi circondava, a percepire un minimo rumore che potesse rivelare un pericolo imminente. Solo quando udii alcune voci mi concessi di rallentare ulteriormente il passo. Parlavano inglese e questo era già un ottimo segno… ma quella voce era di… ?! Procedetti adesso più spedito, fendendo la vegetazione e la pioggia come se fosse anch’essa solida, fino a quando non raggiunsi un piccolo gruppetto di soldati: Ezio, Federico, altri due di cui ricordavo a malapena il nome e… Altaïr. Era senz’altro lui!
    “Che tu sia benedetto!” esclamai all’improvviso, facendo sobbalzare un po’ tutti. Un grande quanto raro sorriso solcò le labbra del mentore, mentre mi avvicinavo e lo stringevo con il braccio buono. I soldati semplici ci guardavano abbastanza straniti ma non me ne curai. Nessuno di loro poteva capire cosa stavamo vivendo! Avevamo trovato un altro di noi, questo rappresentava una certezza incrollabile: non eravamo soli in quell’inferno, da qualche parte e forse poi non così lontano, potevano esserci altri Assassini e chissà magari qualcuna delle guerriere compagne dei miei migliori amici. C’era ancora speranza.
    […]
    Mancavano pochissime ore all’alba, ma non riuscivo a prendere sonno. Mi ero avvolto in una cerata che mi faceva respirare poco e male, ma era l’unico modo per proteggersi dalla dannata tempesta che pareva essersi abbattuta sull’accampamento improvvisato. La compagnia Easy si era quasi del tutto riunita, dopo giorni di marcia e comunicazioni stentate. Avevamo fatto scorte di viveri, armi e munizioni in un campo di battaglia ricoperto di sangue alleato. In quel momento la realtà di ciò che stavamo affrontando si era palesata in tutta la sua brutalità.
    Come Assassini eravamo sempre stati abituati a combattere nell’oscurità, con mezzi violenti ma circoscritti anche se letali. Non facevamo stragi, non colpivamo più nemici per volta se non costretti e se ci trovavamo sotto attacco nemico, essendo soli o comunque in pochissime unità, riuscivamo a sfuggire facilmente. Adesso, in questa realtà, era diverso. Decine e decine di uomini cadevano sotto il fuoco delle mitragliatrici come fuscelli secchi spazzati via dal vento. La maggior parte di essi, ragazzi talmente giovani che non avrebbero mai conosciuto il calore di una donna. Era ingiusto, ma quale guerra era giusta? Mi strinsi ancora più forte dentro quella coperta improvvisata, non solo per ripararmi dalle intemperie. Avevo la sensazione che il vortice in cui eravamo finiti fosse più grande di noi e – dopo quanto avevo visto – non ero più così sicuro che ce l’avremmo fatta tutti… incolumi… Scossi il capo, come a voler spazzare via i pensieri nefasti. Non era certo il momento di pensare alla morte, non lo avevo mai fatto prima di una grande battaglia. E se anche quella che stavamo per combattere non era una della Confraternita era comunque una nostra responsabilità. Era stata ben congegnata, nonostante le scarsissime informazioni. Mi fidavo di Ezio, mi fidavo di Altaïr, di Federico, mi fidavo dei miei fratelli. Noi ci saremmo occupati della parte più difficile della missione, ma soprattutto avevamo l’arduo compito di tenere in vita più compagni possibili. Non sarebbe stato facile, ma non era neppure impossibile.
    Tremai. Faceva freddo quella notte. O forse non era solo il freddo la causa. Mi massaggiai la spalla ancora dolorante e ripensai ai giorni lontanissimi della Rivoluzione. Avevo visto il sangue scorrere a fiumi, le teste cadere mozzate da una lama arrugginita, madri e figli cadere sotto i colpi delle baionette reali… Era da molto tempo che non ci riflettevo su e mi resi conto di quanto fosse importante tenere presente, anzi custodire proprio sotto pelle, quelle sensazioni angoscianti. Mi avrebbero aiutato ad affrontare ciò che ci attendeva con lucidità e forse grazie ad esse sarei riuscito a trovare una motivazione a tutto l’orrore in cui ci saremmo gettati a capo chino.
    Non avevo un dio da pregare, ma chiusi gli occhi e confidai nel destino. Eravamo tutti nelle sue mani.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 5/1/2020, 20:44
     
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    ”...lei e i suoi uomini dovrete neutralizzare la batteria tedesca mettendo fuori uso i cannoni puntati verso Utah Beach, dove sbarcherà la nostra fanteria. Scelga i suoi uomini migliori e si prepari ad iniziare la missione nell'immediato, capitano
    Il colonnello Sink non si era dilungato più di tanto nel descrivere il nostro compito, ed era stato ancor più conciso nell'annunciarmi la mia promozione inevitabile, dopo la morte del capitano Meehan, alla testa della compagnia Easy.
    ”Signorsì colonnello! Partiremo nei prossimi minuti e raggiungeremo Brecourt Manor in poco meno di mezz'ora di marcia” Dopo il saluto militare, girai sui tacchi e mi diressi, elmetto sotto il braccio, verso l'uscita del fienile. Cercai di non zoppicare in maniera visibile, per il timore inconfessabile di essere ritenuto inabile al compito fondamentale che mi era stato affidato.
    Quanto era fondata la mia paura, ad ogni modo? L'operazione Overlord, per liberare la Normandia dal controllo tedesco, aveva subito sin da subito pesanti imprevisti. Il lancio dei paracadutisti oltre le linee nemiche era stato ostacolato dal maltempo e dal fuoco della contraerea. Il nostro compito era stato in salita sin dal principio. Avevamo subito perdite pesanti, tra cui il nostro comandante, e molti miei compagni erano tutt'ora dispersi lungo tutta la penisola del Cotentin.
    Io per primo, lanciandomi in mezzo al fuoco nemico che illuminava quasi a giorno il cielo notturno, ero stato sfiorato da un proiettile di grosso calibro, che aveva squarciato il mio paracadute. Ero precipitato per qualche metro, da un'altezza a cui un uomo normale non sarebbe sopravvissuto, mentre io, forte di una preparazione fisica e un addestramento da assassino, riuscii a contenere i danni.
    Nonostante questo, l'impatto con il terreno fu duro, e la caviglia si lesionò in maniera seria. La sentivo gonfiare via via sempre di più, le stringhe degli anfibi tendersi dolorosamente sulla contusione, ma se non era rotta – e non la era, avrei dovuto ignorare le mie ferite fino a che non avessi potuto riposare almeno qualche ora.
    Mentalmente, avevo già deciso chi sarebbero stati i miei compagni di missione, gli uomini a cui avrei affidato la mia fiducia e la mia vita: Federico, Arno, Altair, e degli altri soldati, quelli che più ritenevo avessero una preparazione e una freddezza sufficiente ad infiltrarsi tra le linee nemiche senza essere presi dal panico.
    Li ragguagliai a mia volta su quel poco che i nostri esploratori erano venuti a sapere sulla posizione, le dotazioni di fuoco e il numero di soldati dell'esercito tedesco presenti sull'obiettivo da attaccare. I nemici erano in netta superiorità numerica, in posizione difensiva stabile, dotati di artiglieria pesante e potente.
    Ordinai di lasciare ogni equipaggiamento inutile, che ci avrebbe impedito di muoverci velocemente e silenziosamente, con l'eccezione delle armi, delle munizioni e delle bombe a mano. Ordinai ad Altair di procurare il tritolo per distruggere i cannoni una volta conquistati, poi ci mettemmo in marcia.
    Il tragitto passava in mezzo ai campi, senza alcuna indicazione per il nostro obiettivo se non la nostra abilità nella lettura delle carte che avevamo studiato quasi a memoria, durante le settimane di addestramento e di preparazione dell'attacco.
    Trovammo molti corpi di soldati americani, uccisi mentre erano appena atterrati o addirittura ancora legati, sospesi come fossero burattini, alle corde dei paracadute. Scrutavo i loro visi, uno per uno, facendo in modo che nessuno se ne accorgesse, ma ogni volta provavo un sollievo disonorevole nel non riconoscere alcun volto a me dolorosamente familiare.
    Alcuni erano soldati appartenenti alla compagnia E o addirittura al mio plotone, ma non erano loro che cercavo, anche se la loro morte era una lama infuocata che sfiorava il mio cuore. Cercavo i miei Fratelli, anche tra i rari soldati con la divisa di un colore diverso dalla nostra. Chi poteva dire dove erano finiti? Altair lo avevamo ritrovato dalla nostra stessa parte, ma cosa potevamo saperne degli altri? Come potevamo escludere che fossero tra i nostri nemici?
    Raggiungemmo Brecourt Manor senza incidenti, e da un fitto ammasso di cespugli e alberi studiammo la batteria nemica, saldamente difesa dalla naturale conformazione del terreno e da trincee con filo spinato.
    Diedi ordini precisi e chiari: ora non era il momento di far parlare emozioni e dubbi, ma dovevamo muoverci senza tentennare davanti a nulla. Pregai silenziosamente che dentro a quelle trincee non ci fossero altro che nemici.
    Mentre le nostre mitragliatrici distraevano il fuoco dei tedeschi, il gruppo che guidavo aggirò la zona, per prenderli da dietro. Per questa parte della missione avevo voluto con me solo Federico e Arno, perché ovviamente non era nel numero che avremmo trovato il successo della missione, quanto nell'affiatamento e nella velocità di esecuzione.
    Scivolammo silenziosi tra arbusti e piccoli avvallamenti, e sorprendemmo di spalle alcuni paracadutisti del sesto Reggimento che presidiavano la postazione con uno dei cannoni. Fu un lavoro semplice, pulito, veloce e silenzioso. Manomettemmo la bocca del cannone con alcune bombe a mano, poi ci muovemmo utilizzando le trincee, che divennero per noi uno scudo e non più un ostacolo. Non avevo quasi bisogno di guardare o di dare ordini utilizzando i gesti, nel vocabolario di guerra che ci era stato insegnato durante i mesi di addestramento: i miei fratelli erano con me, pronti e letali come se fossimo stati una mente sola in più corpi.
    Mentre intorno cominciavamo ad essere bersagliati dal fuoco nemico, ci rifugiammo in una casupola che costituiva un riparo con tavolo e sedie, una sorta di posto di comando della batteria tedesca. Nel piccolo locale erano di guardia due soldati. Tentammo di sfruttare l'effetto sorpresa e mentre Arno attaccava il primo, io mi occupai di quello più lontano.
    La stanchezza e le prove fisiche che avevamo affrontato in quasi due giorni ininterrotti di combattimento tradirono i miei riflessi. Fui troppo lento. La caviglia contusa cedette sotto lo sforzo di spostarmi dalla traiettoria del proiettile sparato dal soldato, facendomi cadere in ginocchio. Fu una fortuna, perché così il colpo raggiunse di striscio l'elmetto, invece di colpirmi in pieno petto. Reagii d'istinto, ed estrassi dalla cintura la baionetta, scagliandola senza mirare, come se fosse un coltello da lancio. Udii un grido gutturale, mentre Federico mi superava con un balzo e finiva il soldato che stava ricaricando il fucile.
    Mi tolsi l'elmetto, che era si deformato sul bordo nel deviare il proiettile. La vista era lievemente annebbiata e l'orecchio mi fischiava, ma non avevo altri danni. Scossi la testa per recuperare lucidità: era stata solo una questione di pura fortuna, se non ero io quello a terra sanguinante e... morto.
    Rassicurai i miei compagni con un gesto. Mi avvicinai al tavolo, dove si trovavano alcune carte sparse; una di queste mi strappò una smorfia di soddisfazione, perché si trattava della mappa con le indicazioni di tutte le postazioni d'artiglieria nemica nella penisola del Cotentin. Grazie a queste informazioni, che sarebbero giunte il prima possibile a chi comandava l'operazione in corso, saremmo riusciti a salvare numerose vite di soldati alleati. Presi anche un altro foglio, che mi pareva interessante: si trattava di un ordine di servizio, o qualcosa di molto simile, anche se non conoscendo troppo bene la lingua tedesca, non avrei saputo essere più preciso. Era firmata dallo Standartenführer Oliver Winkler.
    Raggiungemmo il secondo cannone. Lo mettemmo fuori uso buttandoci dentro una granata tedesca. A quel punto, ci ritrovammo addosso buona parte del battaglione che stava presidiando la postazione, ma sapevo che, secondo il piano di attacco, a momenti avremmo ricevuto il supporto di Altair con il suo piccolo plotone. Mi auguravo che fosse così, perché ne avevamo davvero bisogno.
     
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    Il campo di battaglia era un concerto assordante di proiettili che schizzavano nell'aria e la riempivano di polvere da sparo. L'odore acre del sangue si mischiava con essa mentre le mie abilità di Assassino mi avevano agevolato nel muoversi tra il fuoco incrociato, ma non facendomi mai dimenticare che lì non ero immortale. Non esisteva nessun Pozzo di Lazzaro a guarirmi da ferite gravi, dovevamo unicamente contare su noi stessi ed io mi ero fatto una promessa: dovevo rimanere incolume, almeno fin quando non avrei trovato Aphrodite. Lo dovevo fare per lei e forse per questo ogni qualvolta sentivo di non farcela tiravo fuori la piastrina che avevo al collo e ne baciavo la fede che portavo nella stessa collana.
    Giunto in posizione avevo portato il tritolo come richiesto, ma solo per scoprire che era troppo tardi. Mentre la Compagnia Dog si buttava all'assalto del secondo cannone conquistandolo.
    "DOVE DIAVOLO ERI FINITO?" mi urlò contro Federico, mentre sparava senza fermarsi.
    HO AVUTO PROBLEMI A SUPERARE IL PRIMO CAMPO! urlai a mia volta.
    "USEREMO IL TRITOLO AL TERZO CANNONE... TE LA SENTI DI ANDARE?" mi chiese Ezio raggiungendoci, ma nemmeno a dirlo che avevo già mosso il capo per assentire e poi ero corso via nonostante la fatica e la stanchezza, le stesse a cui non stavo sopperendo solo grazie all'adrenalina che mi scorreva in corpo.
    Riuscì a fare ciò che mi era stato richiesto, riuscì a scappare prima che fosse troppo tardi, lo feci saltando tronchi e sassi e solo una volta giunto al quartiere generale mi permisi di cedere, di svenire letteralmente per lo sfinimento.
    Quando mi risvegliai ero in una tenda, su una branda, mentre il rumore poco lontano del crepitio del fuoco e di chiacchiericcio mi fece uscire solo per notare Federico ed Arno intorno ad un piccolo falò, Ezio al loro fianco che si controllava la caviglia slogata.
    Quella notte il secondo battaglione conquistò Sainte-Marie-du-Mont ed elementi della quarta divisione iniziarono a spostare mezzi e uomini nell'entroterra.
    Gran parte della 101° aviotrasportata, compresa la Compagnia Easy, era sparpagliata per tutta la Normandia. Avevamo solo un'ora per riposarci e mangiare prima di doverci spostare a sud per conquistare la città di Courteville.
    "Mi chiedo se qui siamo solo noi... o anche..."
    "Le Guerriere?" chiese Arno concludendo la frase lasciata a metà di Federico che stava buttando giù un sorso di birra.
    "Non mi sorprenderei visto e considerato che tutto ciò che ci succede è colpa loro!"
    "Se si troveranno qui, sono vittime quanto noi!"
    Dissi con fare stizzito mostrando la mia presenza, mentre avvicinandomi presi posto accanto Ezio.
    "E se qui si trovano dovremmo chiederci come stiano. Non sappiamo se qui hanno i loro poteri e poi sono donne... donne in un mondo di uomini... in una guerra truce e senza gloria..." esclamai con voce greve, affranta e preoccupata, mentre allungandomi per prendermi una scatoletta feci una riflessione tra me e me.
    Ringraziai per la prima volta Dio o chi per lui, per avermi fatto superare il giorno dei giorni e pregai di superare anche il successivo, semmai fossi riuscito a tornare a casa... promisi a me stesso che mai più mi sarei diviso da Aphrodite.
     
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    Annarita
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    “E se qui si trovano dovremmo chiederci come stiano. Non sappiamo se qui hanno i loro poteri e poi sono donne... donne in un mondo di uomini... in una guerra truce e senza gloria...”
    Ok, probabilmente avevo esagerato. A volte, o piuttosto spesso, dimenticavo che le compagne dei miei Fratelli erano Guerriere. Soffrivano molto per la loro lontananza, soffrivano perché non conoscevano le sorti della persona amata… chi ero io per giudicare? Ero solo e forse lo ero sempre stato. Non avevo mai avuto una “vera metà” che tenesse a me più di quanto lo facessi io. Ed era risaputo, non avevo mai tenuto molto a me stesso… anzi, fin dalla giovinezza avevo fatto di tutto per vivere una vita sregolata, senza un vero scopo, fino a quando lo scopo si era palesato. E persino in quel caso avevo lasciato che ogni tipo di tempesta fisica ed emotiva si abbattesse sul mio corpo. Lo consideravo un mero contenitore, animato dal fervore rivoluzionario che col tempo era diventato parte di me. Avevo molte cicatrici sulla pelle e non solo lì, ma avevo mai permesso a qualcuna di arrivare fino a toccarle davvero? Con le dita tante volte, ma con l’anima? Con ogni probabilità tutte si erano fermate alla superficie e non per pecca loro. Dopo la rottura con Claudia mi rendevo conto che un legame forte – se è veramente tale – non può finire per una diversità di vedute. Si lotta, si trova un compromesso, si arriva a un punto in cui l’amore è più potente di ogni ideale. Io credevo che Claudia fosse la donna giusta, per lei avevo pensato di mettere in secondo piano la Confraternita. Avevo avuto la certezza che mai me ne sarei pentito… perché lei era quanto avevo atteso per tutta la vita. Potevo essermi sbagliato a tal punto? All’ennesima prova avevo smesso di lottare per starle accanto, né lei aveva mosso un muscolo per non lasciarmi andare. E quindi non poteva essere vero amore. Ma esiste davvero l’amore? Non dovremmo essere noi a crearlo, plasmarlo, farlo nascere e poi coltivarlo come si fa con un fiore prezioso. Ecco, se smetti di averne cura, vuol dire che non è ciò che stai cercando oppure non lo meriti. Io non ho mai meritato la pace, avevo molte colpe da espiare e probabilmente la mia solitudine era il mezzo per tornare ad avere l’anima pulita… Oddio, che razza di elucubrazioni erano quelle? Fatte dopo giorni di combattimenti, mentre la stanchezza ti spezza le ossa e le palpebre faticano a restare aperte.
    Guardavo il fuoco acceso con apatia, mentre un sorso di birra scendeva a scaldarmi la gola. Avevamo solo un’ora di riposo prima di rimetterci in marcia, dormire era fuori discussione, perciò ci eravamo riuniti con i ragazzi attorno a un piccolo falò per mangiare e bere qualcosa.
    L’arrivo di Altaïr aveva interrotto la discussione con Federico, ma non mi lasciai intimorire dal cipiglio del mentore. Avevo la certezza – e su questo avrei potuto metterci la mano sul fuoco senza scottarmi – che in questa faccenda erano implicate le Guerriere. Magari non direttamente le compagne dei miei Fratelli, ma di certo l’Imperatrice c’entrava qualcosa! Se avessimo davvero incontrato loro e non Selene allora la mia supposizione avrebbe finalmente superato la prova. Di sicuro, tutta quell’assurda messa in scena, era stata organizzata da nemici potenti, ma era importante capire chi fosse il reale obiettivo e questo sarebbe stato chiaro solo sulla base dei “personaggi” che avremmo incrociato sul nostro cammino… La presenza di Cormac a Taccoa non aveva svelato molti dubbi in realtà. Ezio mi aveva raccontato del suo passato di traditore e mercenario, di conseguenza con lui era stato impossibile individuare uno schieramento preciso! E intanto erano passati gli anni, eravamo arrivati a combattere una guerra non nostra, a versare sangue e fare sacrifici immani, rischiando persino la vita, per cosa? Dovevamo assolutamente scoprirlo.
    La vicinanza di Altaïr mi distrasse dalla contemplazione del fuoco. Gli feci un cenno di scuse, dandogli un po’ più di spazio così che potesse scaldarsi meglio.
    “Mi dispiace per prima, non volevo accusare la tua compagna e nemmeno le altre. Credo semplicemente che ci sia comunque il coinvolgimento dell’Impero in questa faccenda. Ho la sensazione che ci siamo trovati in mezzo a un vespaio che non ha a che fare direttamente con noi, ma la mia… è solo un mera intuizione.” Non era mia abitudine essere conciliante, così come non era abitudine di Altaïr rispondere con certi toni, ma lo stress di quelle ultime settimane era stato tale che ci saremmo potuti anche prendere a cazzotti a vicenda e di sicuro non ci sarebbe stato rancore. Ma non era il momento dei cazzotti. Sfregai le mani tra loro per trovare ancora un po’ di calore, prima di passare al mentore un bicchiere di birra.
    Lui non proferì parola né io l’attendevo, non era mai stato un grande chiacchierone e tra noi anche se non c’era mai stata grande complicità di sicuro c’era sempre stato un profondo rispetto.
    “Sono preoccupato per Ezio…” confessai infine, a bassa voce. Lo fissai tra le fiamme, mentre parlava con Federico e piluccava un po’ di carne secca. “Oggi, per poco, non finiva con un proiettile nel petto. È stanco, ferito, mille responsabilità sulle spalle…”
    “Come tutti noi, Arno. Siamo stanchi, feriti, stiamo tirando un po’ troppo la corda. Possiamo solo tenerlo d’occhio e aiutarlo il più possibile.”
    Annuii ma non ero più tranquillo. Le parole di Altaïr erano vere, tuttavia l’immagine di Ezio in ginocchio in quella casupola fatiscente mi tormentava in ogni momento. Il proiettile aveva colpito l’elmetto, ma era destinato al suo petto e solo il caso aveva voluto che non fosse arrivato a destinazione.
    Diedi una pacca sulla spalla del mentore, che ricambiò il gesto con un cenno enigmatico. Era fatto così, una sfinge a cui potevi affidare la tua intera esistenza, certo che sarebbe stata al sicuro. Mi avvicinai a Ezio, mentre spazzolavo i pantaloni ormai laceri quanto le nostre anime.
    “Ehi, Capitano! Che ne dici di farti un breve sonno ristoratore. C’è ancora mezz’ora a disposizione prima della marcia. Mi occupo io di organizzare la guardia e controllare i materiali!” Lo sguardo che Ezio mi rivolse fu sorpreso, ma talmente grato che mi mise persino a disagio. Con un movimento della mano lo invitai a sloggiare e a trovarsi un posticino tranquillo, poi una volta andato via presi Federico dalla collottola e lo misi in piedi.
    “E tu, Auditore, che ne dici di darmi una mano?!”
    Federico mi guardò in tralice, evidentemente pregustava già il restante tempo di riposo!
    “Fino a prova contraria, sono un tuo superiore, Dorian! Dovresti portare più rispetto!” mi redarguì ironico, con le mani sui fianchi.
    “Lo sai bene che non ho mai avuto molta dimestichezza con i gradi, le gerarchie e le regole, puoi passarci sopra per questa volta?” Lo fissai con finto sguardo supplichevole, ma Federico scoppiò subito a ridere. Non ingannavo nessuno con il mio cipiglio caustico.
    “Sei irrecuperabile, Arno. Ringrazia che ci siamo tolti dai piedi Cormac e che Ezio sia il tuo ufficiale in comando, altrimenti avresti passato più tempo a pulire latrine che a tenere in mano un fucile!”
    “Deus vult!” inneggiai con le mani al cielo e poi… “Andiamo?” chiesi infine, non avevo certo dimenticato i compiti da svolgere! Altair ci fissava sempre con la sua aria sfingea, ma le labbra erano curvate in un piccolo sorriso. Forse anche lui ci trovava buffi, forse quella breve cornice di normalità aveva ricaricato anche le sue batterie emotive. In fondo, era di questo che avevamo bisogno: sentirci normali, in mezzo a una follia senza pari.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 11/1/2020, 17:58
     
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    Annarita
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    :Shay:
    Non credevo sarebbe stato possibile, ma il gran giorno era arrivato! Finalmente ero fuori da quel dannato incubo. Finalmente potevo continuare le mie personalissime indagini per scoprire cosa il Führer e la Grande Madre nascondevano. Il loro piano andava fin troppo al di là della favoletta che ci avevano raccontato e non avevo nessuna intenzione di restare con le mani in mano mentre gli altri Deviati – da bravi soldatini – abbassavano la testa con riverenza ad ogni parola della nostra venerata capostipite. La verità? Scoprire di essere un Deviato mi aveva dato speranza, aveva fatto nascere in me un senso di appartenenza mai provato in tutta la mia lunga esistenza. Avevo imparato a rispettare Adrian come se fosse un fratello, ma non avevo avuto il coraggio di riferire i miei dubbi neppure a lui. Temevo che fosse troppo accecato per credermi e questo… questo mi aveva fatto riflettere ancora di più: nulla era come sembrava. Se mi fossi fidato davvero di Adrian lo avrei coinvolto nelle mie incertezze; se lo avessi chiamato fratello con la sincerità dovuta non avrei esitato sul giudizio che avrebbe espresso sui miei dubbi. Ma non lo avevo fatto. Perché? Non mi fidavo al cento per cento, la mia diffidenza andava oltre ogni possibile illusione, ed ero tornato ad essere solo.
    L’incanto si era interrotto. La fiaba era stata distrutta dalla realtà delle cose. Ed io dovevo scoprire quale destino mi era stato riservato. Da solo. Sarei andato fino in fondo, ma per me non c’era alcuna speranza di poter vivere accanto a qualcuno… forse ero io che mi attiravo i tradimenti, forse la mia anima meritava solo questo in seguito ai mille da me perpetrati. Dovevo smetterla di sperare, dovevo smetterla di aggrapparmi ai bordi dell’abisso e lasciarmi cadere definitivamente. Le unghie sanguinanti non servivano a nulla se a non procurarmi altro dolore… e io ero stanco di soffrire. Stanco di provarci. Stanco di sperare. Non ero stato abbastanza forte da catapultarmi fuori, forse era davvero quello il mio posto. Dovevo semplicemente rassegnarmi a questa evidenza dei fatti. Ero un tipo pragmatico in fondo. E così avrei agito da ora in poi, seguendo il mio personale credo, il mio personale obiettivo senza guardami indietro, senza confidare in niente e nessuno, esisteva solo Shay Patrick Cormac, tutto il resto era uno strumento e tale sarebbe rimasto nel mio cuore.
    Erano questi i pensieri che si accavallavano nella mia mente, mentre procedevo lungo la strada che mi avrebbe portato a una destinazione del tutto inattesa.
    La mia mossa nel gioco di Nyx si era conclusa. O questo era quanto lei stessa mi aveva comunicato. Una volta arrivato l’ordine di partire per l’Inghilterra, ero stato convocato dalla Grande Madre, la quale mi aveva chiaramente esonerato da altri compiti futuri. Tutto ciò mi aveva da un lato allarmato dall’altro mi aveva servito su un piatto d’argento la possibilità di proseguire con le mie ricerche.
    “Ti ho chiesto, all'inizio del gioco, di fare una mossa per me. Adesso che hai portato a termine la tua missione, sei libero di muoverti in questa realtà come meglio credi, non sarai più chiamato in causa…”
    L’avevo guardata perplesso, ma non mi ero azzardato a chiedere lumi. Non era questo il momento giusto.
    “Sono fiero di aver agito per come avete comandato, ma a questo punto ho una richiesta da farvi affinché il mio soggiorno in questa realtà alternativa proceda senza troppa noia… come Sorgente ho il diritto di domandarvi questa piccola concessione?” La mia voce era riverente, anche se una piccola nota di sarcasmo non ero riuscito del tutto a nasconderla. Sapevo che Nyx mi stava studiando, ma ormai tutti conoscevano il mio carattere indomabile. Credevano di avermi imbrigliato e imbrogliato ma non potevo essere del tutto certo che la loro fiducia in me non si fosse incrinata. Dovevo essere cauto e astuto nel fare le mie di mosse.
    “Certamente, se ciò non andrà in contrasto con il gioco in corso, sarò felice di esaudire la tua richiesta!”
    E no, la Grande Madre aveva reputato che quanto avevo richiesto non andava a inficiare i suoi piani e sorrisi appena nel ripensare a ciò che avevo domandato. Potevo permettermelo un piccolo attimo di autocompiacimento. Tutto stava procedendo secondo il mio di piano, adesso dovevo solo gestire gli eventi futuri e giocare al meglio con le carte che avevo in mano.
    Prossima destinazione: il Nido dell’Aquila. I miei “illustri ospiti” attendevano di già il mio arrivo.
     
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