Present Day #2020: Abstergo

Season 5

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    Annarita
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    Sento il cuore pulsare nelle vene, il respiro espandersi con regolarità, la lucidità aumentare di minuto in minuto. Mi attende un momento cruciale, ma il mio corpo non conosce ansia, timore di fallire, paura di non raggiungere l'obiettivo. Io sono nato per conquistarli tutti gli obiettivi che servono la Causa, una causa che va oltre la mia realizzazione personale. L'egoismo non mi comanda, il desiderio di vittoria è un semplice accessorio, la vittoria un orpello che rende grande l’Impero che mi ha donato tutto. Il destino mi ha riservato molta gloria, ma non per questo ho smesso di sacrificare la mia vita per tutto ciò che mi circonda. Non mi risparmio, non domando, non pretendo.
    Sono Il Dottore, lo scienziato anziano a capo di un Progetto molto ambizioso, e i risultati sono l'unica certezza su cui baso i miei progressi.
    Non esiste la sconfitta, il Dottore non la conosce.
    Esiste solo la continua ricerca, incessante, a volte dolorosa, ma sempre estremamente utile.
    Oggi, un Assassino Originale, Ibrido, sarà immolato per la Causa e il Dottore potrà arricchire la lista dei progressi.


    Infilai un paio di guanti e lasciai che schioccassero rassicuranti sui polsi. Il rumore allarmò il mio “paziente”, tanto che lo vidi scrutarsi con fare frenetico attorno, laddove l’oscurità la faceva da padrone. I miei passi risuonarono come tuoni all'interno della piccola stanza dalle pareti e le superfici di acciaio inossidabile. Se il Livello 1 dell'Abstergo era stato consacrato al bianco come colore predominante, il Livello 2 – il mio Livello – aveva ceduto le armi all'efficienza del grigio acciaio. Le superfici erano facilmente lavabili, lisce e senza appigli; non necessitavano di suppellettili e ornamenti per esprimere la condizione di perfetta comodità, ai miei scopi s'intende.
    Diedi uno sguardo al carrello che sostava in vista accanto al mio ospite, l'impatto visivo faceva parte del processo psicologico di “ricondizionamento”. Gli attrezzi di varia foggia, che facevano bella mostra di sé, incutevano incertezza e lo avrebbero portato ad essere affamato di notizie. Notizie che io sarei stato ben felice di fornirgli.
    Erano trascorsi esattamente dieci giorni da quando Ezio Auditore era stato portato al Livello 2. Le sue condizioni fisiche erano pessime e solo un certo grado di impegno da parte mia – associato a rimedi non convenzionali per la cura dei tessuti – mi aveva permesso di portarlo in questa stanza pronto per continuare il percorso di condizionamento psicologico utile al mio scopo. I primi giorni lo avevo alimentato con alcune flebo nutritive, una volta ripresa conoscenza lo avevo volutamente lasciato digiuno, sollecitandolo al contempo con delle forti luci al neon intermittenti per impedirgli di dormire. Così come previsto, a causa delle ferite e delle privazioni il suo stato mentale si era degradato. Era però giunto il momento di studiare da vicino questi effetti e non solo attraverso analisi e sterili test.
    Mi palesai nella mia calma più totale, il cono di luce che irradiava il lettino dove Auditore era stato ammanettato colpì anche me, il mio profilo impassibile, il mio corpo marziale, le mie iridi affamate di nuove scoperte. Queste ultime erano il segno del mio saper provare qualcosa. Non sempre si illuminavano, non sempre si eccitavano, non sempre trovavano di che cibarsi. Ma adesso ero certo che non sarebbero rimaste deluse…
    “Detenuto Ezio Auditore, è un piacere fare la sua conoscenza. A Livello 1, assieme ai suoi compagni, è diventato una leggenda.” Feci una pausa, gli diedi il tempo di abituarsi alla mia voce cadenzata, alla mia espressione tranquilla. Potei così osservare meglio i cerchi violacei che gli circondavano gli occhi, l'incarnato pallido, la pelle sudata per la tensione. Scrissi qualcosa sulla cartellina che avevo in mano. Gesto calcolato.
    “Chi sei?” La sua di voce mi parve un sibilo lontano, un frustino che sferza l'aria ma a chilometri di distanza. Fissai nuovamente i suoi occhi e cercai di scandagliare ogni reazione. Mi aveva fatto una domanda, ma qualcosa non quadrava.
    “Oh, che maleducato, mi permetta di presentarmi. Sono il dottor Leopold Morgan, Capo Psichiatra del Livello 2, tra le varie cose.” Il mio nome non avrebbe dovuto essergli familiare, nessuno al di fuori di una ristretta cerchia di fedelissimi mi conosceva, per ovvi motivi di sicurezza. Eppure, la sua espressione sembrava volermi dire qualcos'altro. Ma cosa?
    “Non sapevo ci fosse una cura psichiatrica che prevedesse il digiuno e la mancanza di sonno. Per caso vi siete ispirati a una qualche pratica mediorientale di nuova generazione? La tortura per esempio?” Il suo sarcasmo era strabiliante, denotava un grado di lucidità davvero molto alto e dopo quanto aveva subito fisicamente e psicologicamente non era da tutti. Era proprio questo il punto. Scrissi ancora sulla mia cartellina. Molto interessante.
    “In realtà è un modo semplicissimo di saggiare il vostro grado di resistenza. Fino a che punto siete capaci di resistere prima di diventare nuovamente pericolosi? Detenuto Auditore, si rende conto della quantità di uomini che ha ucciso di recente? Se rinnega di meritare una punizione per questo allora c’è ancora molto su cui lavorare…”
    “Siamo stati barbaramente aggrediti, io la chiamo legittima difesa non omicidio deliberato” mi rispose a denti stretti, mentre ero indaffarato a inoculargli un paio di cc di una sostanza molto interessante, attraverso la canula che aveva costantemente infilata nel braccio. Auditore aveva provato a ribellarsi, ma i legacci di metallo non gli permettevano di muoversi. Quando lo vidi rilassarsi un po', le pupille leggermente più velate, ripresi a parlare.
    ”Adesso ricominciamo daccapo, la prego di rispondere alle mie domande senza tergiversare. Qual è il suo nome?”
    Un moto di fastidio sul suo viso anticipò la risposta piccata.
    “Lo sai già."
    “La prego di rispondere alla domanda senza tergiversare.” La mia voce era atona, senza inflessioni che avrebbero potuto innescare reazioni di alcun genere, eppure lui non aveva abboccato al mio tentativo di soggiogarlo. Aumentai la dose del liquido miracoloso iniettato poco prima, dovevo capire fin dove la sua volontà avrebbe retto e al momento opportuno spezzarla come un ramo secco. Solo quel rumore, segno della tanto agognata sottomissione, avrebbe permesso alla mia ricerca di progredire e segnare – ancora una volta – un punto a favore della Causa.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 27/5/2020, 18:19
     
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    Mi ero risvegliato in un limbo. Un luogo senza finestre, porte, mobili, appigli. Un cubo di metallo liscio che sembrava non avere soffitto, pavimento, pareti, se non consideravo pavimento quello su cui mi ero ritrovato, dopo una parentesi nera dove ero stato completamente incosciente. Per prima cosa controllai le mie condizioni, che in generale sembravano buone. Non avevo più nessun osso rotto, anche se mi ero reso conto che nel pestaggio qualche costola si era sicuramente fratturata, e a parte varie ecchimosi, i dolori erano praticamente nulli.
    Per quanto tempo ero stato sedato, quindi? Non avevo modo di saperlo, e questo andava negli elementi sfavorevoli, valutando la situazione. Non sapevo nulla degli altri. Altro svantaggio. Ero da solo, oppure Federico e Altair in questo stesso momento si trovavano in isolamento come lo ero io? Insieme, al livello due? Perché di quello ero certo. Quel luogo era stato progettato e realizzato per noi assassini. Al livello uno, dove ci tenevano per settimane, avveniva la selezione per arrivare qui.
    Mi avvicinai ad una parete, controllandola con minuzia. Era liscia e lucida, come se fosse stata appena lucidata, però non vedevo fessure o altri segni che mi indicassero un accesso. Ero come sigillato al suo interno.
    Il tempo passò. Lo contai mentalmente, un po' per raccogliere quante più informazioni possibili, un po' per non perdere del tutto il contatto con la realtà. La luce arrivava da un punto indefinito, se avessi dovuto stabilirlo avrei detto che filtrava dalle pareti: non avevo trovato faretti o lampadine, nulla che potessi utilizzare a mio vantaggio. Non udivo il minimo rumore, anche il mio stesso respiro veniva come assorbito dalle superfici della stanza, anche la mia voce era esile e lontana alle mie orecchie.
    Non avevo altra scelta che aspettare l'evolversi degli eventi. Mi preparai all'attesa non sapendo quanto si sarebbe prolungata, ma la mia determinazione era ancora sufficiente a non farmi cedere al panico, o perdere di lucidità.
    Mi stavano osservando. Ne avevo la certezza, anche se non capivo in che modo. Anche quello era un metodo per creare pressione psicologica, era chiaro. Cominciai a sentire i morsi della fame. Mentre ero incosciente mi avevano nutrito, la prova erano i segni dei buchi lasciati dagli aghi sulle braccia. Qualche ora dopo, cominciai ad avere sete. Mantenni la calma. Non sarei morto di stenti, non era certo quello il loro obiettivo, ma queste privazioni erano i modi più semplici per torturare e sottomettere una persona. Bastava aver pazienza. Il tempo avrebbe lavorato per loro.
    L'altro metodo di sevizia efficace e banale era... la privazione del sonno. Quando provai a sedermi con la schiena appoggiata alla parete per chiudere gli occhi che stavano bruciando per la stanchezza – da quanto tempo ero sveglio, dodici, tredici ore? - si accesero all'istante delle luci violente, abbacinanti, che penetravano attraverso le palpebre, attraverso gli occhi protetti dalle mani, dalle braccia. Sembravano arrivare direttamente al cervello come dardi affilati. Erano intermittenti, il lampeggiare durava cinque minuti per poi interrompersi di tre e ricominciare il ciclo. Grazie a questo, ebbi modo di valutare con buona approssimazione il tempo che trascorsi in quel luogo senza mangiare, bere, dormire: quattro giorni.
    Non mi davo per vinto, non potevo. Avevo ancora troppe domande a cui dare risposta, e non tutte si trovavano entro queste mura. E poi, avrei avuto altre sfide da vincere, e una persona da riconquistare, ad ogni costo. Non potevo arrendermi, anche se la testa mi pulsava orrendamente, il cervello premeva contro la scatola cranica, la vista era appannata e il corpo sempre più pesante e difficile da gestire.
    Stava terminando il quarto giorno quando udii uno scatto, e come per magia si aprì un passaggio in una parete che avevo ispezionato. Entrarono delle guardie dell'Abstergo che mi prelevarono. Non opposi resistenza. Non ero stentato come credevano, era solo che finalmente era giunto il momento di scoprire la vera funzione del livello due, dell'Abstergo intera, di incontrare il Demone, di dare un senso a tutto, di raccogliere quante più informazioni possibile e di poter pensare ad un piano per evadere. E non volevo essere limitato da un'attenzione maggiore perché pensavano che potessi essere ancora pericoloso.
    I piedi strusciavano per terra, le guardie mi sorressero per farmi percorrere i pochi metri di un corridoio asettico e analogo alla stanza dalla quale ero uscito. Non vidi alcun indizio che mi permettesse di orientarmi, non vidi altre persone né udii altri rumori. Potevamo anche trovarci in un laboratorio in orbita nello spazio, per quello che ne sapevo.
    Mi assicurarono ad un lettino e mi lasciarono solo, o almeno così pensavo. Nel cono di luce fredda che illuminava solo una piccola porzione della stanza comparve con studiata calma un uomo giovane, dal viso pallido e inespressivo.
    Il momento dell'incontro con il carnefice: un'ottima probabilità per comprendere molto. Avevo scelto io di trovarmi qui, era questa la mia missione e non dovevo dimenticarlo.
    “Detenuto Ezio Auditore, è un piacere fare la sua conoscenza. A Livello 1, assieme ai suoi compagni, è diventato una leggenda"
    Ignorai tutti i messaggi di disagio e sofferenza che mi arrivavano dal corpo, tutti i bisogni primari che da troppo tempo non stavo soddisfacendo.
    ”Chi sei?”
    Era la mente che aveva ideato e creato tutto, molto in lui diceva quanto fosse brillante e privo di scrupoli, ma c'era qualcosa di più, un tarlo fastidioso che richiamava con insistenza la mia attenzione. Quando disse il nome capii il perché l'istinto mi avesse messo in allerta. Leopold Morgan. Avevo udito il suo nome durante l'incubo di Pandia, lo aveva pronunciato la pazza con cui avevo avuto a che fare. Stesso vizio o passione entrambi, torturare le persone. Non poteva essere una semplice coincidenza, non quando queste persone continuavano ad incrociare la nostra strada, in un mondo e nell'altro. Cosa mi sarebbe servita quest'informazione dovevo ancora capirlo, ma la avrei tenuta a mente.
    Mi aspettavo che avrebbe usato i suoi poteri su di me, invece aveva sistemato in evidenza una serie di strumenti dall'aspetto strano e minaccioso. Poi iniettò nelle mie vene un liquido bruciante: temetti che fosse un siero della verità, una formula potenziata che potesse superare le difese che avevo costruito intorno ai miei sentimenti, alla mia anima, ai segreti che custodivo per essere meno esposto.
    Non dovevo proteggere solo la mia doppia serie di ricordi, la prova che provenivo da un mondo di cui solo io potevo testimoniare, ma del segreto che in entrambe le vite custodivo, insieme ai miei fratelli assassini. Che eravamo estremamente longevi, che le nostre vite avevano attraversato i secoli. Era un segreto troppo pericoloso, soprattutto se fosse stato scoperto dai Devianti.
    Invece, con sorpresa, il liquido ebbe come effetto di rilassare il mio corpo.
    Morgan continuava ad incalzarmi con le sue domande e le accuse di pericolosità in tono incolore, a cui rispondevo sulla difensiva, come sarebbe stato normale che reagissi. Tentavo questa strategia per fargli saltare i nervi, per sfruttare le sue debolezze, ma non ero riuscito a concludere molto, fino a quel momento.
    Anche lui non sembrava aver fatto progressi, ma non perse neanche per un secondo il suo autocontrollo. Come se tutto fosse nella norma, come se avesse attuato la stessa procedura infinite volte. E, con un brivido, compresi che era davvero così.
    All'improvviso, notai un cambiamento a livello fisico. Il mio cuore cominciò a battere sempre più velocemente e pesantemente. Ogni battito era un colpo di cannone, tanto rimbombava nel mio torace, e questi si susseguivano a ritmo forsennato. I miei muscoli, che si erano rilassati in un primo momento, cominciarono ad irrigidirsi sempre di più. Un tremito risalì su dalle mani, lungo i tendini. Sentivo di non avere più il controllo dei miei movimenti.
    Guadai interrogativo il dottore riuscendo a girare solo gli occhi, ma in cambio ricevetti lo sguardo passivo e insondabile che mi aveva mostrato fin dall'inizio. Prese nota nella sua cartellina, per l'ennesima volta, di qualcosa che non avrei mai saputo. Forse era la reazione al liquido che mi aveva iniettato? Ammetto che piccole crepe nella mia corazza cominciarono a mostrarsi. Pensieri incontrollati sfrecciavano nel mio cervello alla stessa velocità del rombo del mio cuore.
    I secondi sembravano infiniti, ma poco alla volta, i tonfi divennero meno dolorosi. Non riuscivo ancora a controllare le mie reazioni, non avrei più potuto rispondere alle sue domande assillanti, ma non c'era la minima traccia di delusione o di insofferenza in quell'uomo glaciale.
    Si materializzarono due guardie ai fianchi del lettino, probabilmente le aveva chiamate lui, perché rivolse loro un ordine secco: ”Riportatelo nella sua stanza e dategli tre ore di tempo, dopo riprendete con la fase successiva”


    Edited by Illiana - 2/6/2020, 18:38
     
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    La mia reazione allo stato di assoluto vuoto nel quale mi risvegliai fu di totale distacco. Non mi illudevo che il luogo in cui sarei stato portato fosse migliore di quello in cui ero stato e così seppur lo ritenevo inutile la prima azione che feci fu quella di usare l'Occhio dell'Aquila scoprendo ben presto che non vi era nulla oltre a quelle pareti tutte uguali che potesse indicarmi un passaggio o semplicemente darmi un indizio di dove fossi o in cosa fossi.
    Valutai il mio stato fisico e scoprì con gran piacere che si erano dati un gran da fare per assicurarsi che stessi in forma ed in salute solo poi per bombardarmi con le classiche tecniche di tortura per piegarmi.
    Privazione del sonno, assenza di cibo, silenzio. Tuttavia la mia reazione era sempre la stessa: apatia.
    Seduto nel centro della stanza con le gambe incrociate e gli occhi chiusi davo all'apparenza l'impressione di essere immune a tutto ciò che mi accadeva intorno, ma era solo apparenza.
    Conoscevo lo stato emotivo ed ansiolitico di Aphrodite, ragione per cui avevo bisogno di "tagliare" il nostro legame. Sapevo che non era possibile e dunque l'unico mezzo che avevo per renderlo apparentemente tale era l'apatia. Non provare nulla avrebbe permesso a lei di fare lo stesso. Non volevo sentisse il mio dolore, la mia confusione o la mia rabbia.
    Ci avevo messo molto per imparare quelle tecniche, ma ero stato categorico ed attraverso Vesta avevo conosciuto quella tecnica. Nessun venusiano amava parlarne perchè qualsiasi venusiano considerava oltremodo oltraggioso "tagliar fuori" la propria metà dalle proprie emozioni ecco perchè l'avevo chiesto all'unica venusiana che me lo avrebbe insegnato senza soffermarsi su tale credenze.
    Era difficile, peggio di quanto credessi. Ma tenni duro o almeno ci provai.
    Doveva essere all'incirca il pomeriggio del quarto giorno quando tutto cesso. Le luci smisero di lampeggiare. Il rumore stridulo con cui erano accompagnate cessò e la pace scese. Fu inevitabile per me dunque finalmente rifiatare, lasciarmi andare ed in quel momento cadere svenuto.
    Ero felice di non essermi addormentato, perchè in un sogno avrei inavvertitamente "rilasciato" le mie emozioni ed Aphrodite avrebbe potuto sentirle. Non volevo preservare me stesso dalle torture, ma lei.
    Quando riaprì gli occhi scoprì ben presto che due guardie mi stavano assicurando ad una sedia con dei lacci di cuoio. La stanza era leggermente diversa da quella in cui ero. Avevo riconosciuto delle piastrelle alle pareti, alcuni strumenti apparentemente medici e poi un cono di luce che mi abbagliava da impedirmi di riconoscere il volto dell'uomo che era appena entrato nella stanza.
    Aveva le mani dietro la schiena e con un semplice gesto fece uscire le due guardie che mi avevano portato. In silenzio mi osservò. Rimase così per un tempo infinito, ma era caduto male. Io ero un maestro del silenzio non avrei perso la calma facilmente e tanto meno sarei stato il primo a proferire parola.
    "Dichiari il suo nome" pronunciò dopo un silenzio infinito. La voce calma e bassa risultava perentoria.
    "Altaïr Ibn-La'Ahad " risposi senza esitare.
    Non amavo i giri di parole e tanto meno le provocazioni.
    "Ponete ancora resistenza, immagino ci vorrà un diverso approccio" pronunciò senza inflessioni.
    Io di risposta alzai il mento fiero. "Ponete" pensai? Perfetto almeno avevo la certezza che sia io che Ezio stavamo vendendo cara la pelle e rendendo il compito a quel maledetti più difficile.
     
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    Mi tenevo costantemente aggiornato riguardo i risultati delle sperimentazioni che conduceva Morgan al livello inferiore della sezione di residenza dei prigionieri. I suoi rapporti erano precisi, esaurienti, puntuali, colmi di valutazioni interessanti.
    Nessuno dei riceventi aveva ancora completato il ciclo per l'innesto della coscienza deviante, il processo di colonizzazione si era interrotto sempre ai primi stadi, non erano mai riusciti ad andare oltre il terzo, ma ogni fallimento era uno sprone a continuare, a rivedere e rivalutare il procedimento, a testare nuove soluzioni e formulazioni chimiche.
    Ogni soggetto era distinto da un numero, ma al suo ingresso nel livello di ricerca e sperimentazione veniva ancora registrato con il nome del prigioniero. Notai tra i nuovi arrivati di quel giorno un nome interessante: Altaïr Ibn-La'Ahad. Uno dei Mentori più importanti della Confraternita.
    Non avevo mai avuto il piacere di incontrarlo quando militavo nelle file dell'Ordine. Anche in questo universo avevo seguito la strada del Credo, il tatuaggio sul petto era l'ultima traccia che rimaneva. Avevo ucciso tutti i componenti della Sezione a cui appartenevo per mantenere il segreto. Solo Nyx era a conoscenza del mio passato, ma a lei non avrei mai nascosto nulla in ogni caso.
    Mi misi in contatto con il Dottore: gli comunicai la mia intenzione di guidare la fase preparativa e quelle successive di sperimentazione sul nuovo soggetto. Se anche fu sorpreso, nella sua risposta non notai alcuna esitazione o curiosità. Avevo scelto bene, quel giorno, scommettendo su di lui come cavallo vincente e non sul padre.
    Erano due i soggetti nuovi da avviare al progetto: Morgan si sarebbe occupato di Auditore. Sarebbero stati pronti entro pochi giorni, appena rimessi in condizioni di poter ricevere il nostro ospite.
    Iniziammo a indebolire la loro volontà privandoli del sonno e del sostentamento. Non che mi aspettassi molto da queste tecniche di assoggettamento, erano metodi primitivi e non specifici. Ibn- La'Ahad era un assassino altamente addestrato, molte voci circolavano su di lui e dimostravano, oltre la retorica e la celebrazione della sua figura, davvero delle capacità fuori misura, in quell'uomo. Non lo avremmo piegato facilmente come era successo per altri individui, ma rappresentava un banco di prova per i nostri obiettivi. Avrei incontrato una leggenda per molti, e scoperto quanto ci fosse di vero e di inventato. Ero... curioso.
    Lo portarono dalla cella svenuto, ma si riprese prima ancora che lo avessero sistemato sulla sedia. Mandai via le guardie, e poi entrai nella sua visuale.
    Volevo guardarlo semplicemente negli occhi. Volevo rendermi conto quanto e quando avrebbe ceduto alle mie pressioni. Al momento, per quanto stanco e fiaccato, il suo sguardo non conteneva tracce di cedimento né di paura. Possedeva una mente salda, e probabilmente delle ragioni più che importanti per resistere. L'orgoglio e la determinazione erano vivi e brucianti, anche solo nel tono con cui parlava, o nell'atteggiamento niente affatto dimesso o timoroso che mostrava. Mi ero informato sulle sue reazioni durante il soggiorno nella camera di isolamento, sapevo che era riuscito ad isolarsi mentalmente attraverso una pratica di meditazione. Una componente spirituale coerente con l'idea che mi ero fatto di lui.
    Le mie domande non avevano altro scopo che di misurarne la consapevolezza. Non rappresentavano un interrogatorio come sarebbe sembrato. Non era una sfida di nervi come avrebbe potuto credere. Era solo il modo per misurare il raggiungimento del nostro obiettivo.
    ”Dichiari il suo nome”
    "Altaïr Ibn-La'Ahad "
    Scossi in maniera impercettibile il capo, come se fossi deluso. Allungai la mano verso il suo petto, poi picchiettai le dita all'altezza del cuore, dove erano stampate le cifre con cui era individuato. 462.
    "Ponete ancora resistenza, immagino ci vorrà un diverso approccio"
    L'assassino sbuffò come se si attendesse quella tattica, ma non gli erano di certo sfuggite le informazioni che gli avevo fornito. Dare l'illusione del controllo al prigioniero salvo poi sottrargliela al momento opportuno era solo un gradino sopra a quella della fame e della sete, ma stavo testando anche in questo modo la sua reazione. La sua mente era lucida oltre ogni attesa, ben più di ogni altro candidato all'innesto avessi mai studiato nei rapporti di Morgan.
    Girai lentamente intorno alla sedia. Lui cercò di seguirmi con gli occhi, prima di capire che non avrei tentato alcun approccio violento a sorpresa. Non avevo nessuna fretta di ottenere risultati o riscontri.
    Mi riportai davanti a lui. Lo studiai ancora per qualche minuto. Decisi che avrei usato su di lui il mio Potere Oscuro. Ero impaziente di farlo, di poter arrivare alla coscienza della mia vittima, sbaragliando il suo controllo, l'arroganza che vedevo aleggiare nonostante la sofferenza.
    L'unica condizione necessaria era il contatto visivo con lui. L'interesse e il barlume di rispetto che cominciavo a provare nei suoi confronti mi sollecitò ad agire. Mi inserii nella sua mente, pronto a scandagliarla e trovai... un muro. Impenetrabile e quasi fisico, tanto era privo di crepe. Non avvertivo nulla: dolore, panico, agitazione, speranza, rabbia. Nulla. Come se non stessi toccando una mente senziente.
    Strinsi la mandibola per il disappunto. Esclusi con sicurezza che si trattasse di un blocco creato e mantenuto dalla meditazione, ero abile e potente a sufficienza da sbriciolarli sotto la mia volontà. No, questa barriera era di natura diversa.
    Feci un passo indietro, per togliermi dalla luce del neon, per nascondere la mia reazione all'accaduto. Anche se Ibn-La'Ahad non aveva percepito nulla, era comunque in grado di accorgersi la mia esitazione, di interpretarla in qualche modo. Gli avrei tolto la possibilità di farlo, ma dovevo riflettere.
    Nel corso degli anni, diversi rapporti di devianti di ritorno da missioni sul campo avevano attirato la mia attenzione: erano resoconti di fallimenti, e le motivazione addotte riguardavano tutte il fatto di non essere riusciti a combattere usando i loro poteri contro i loro avversari. Li avevo giudicati scusanti per la loro incapacità, ma ecco che si rivelavano veritieri. Esistevano individui immuni ai nostri poteri, o meglio ad alcuni, quelli che manipolavano o influivano le loro capacità mentali.
    Era una scoperta pericolosa, ma al contempo si trattava di una questione vitale da studiare e approfondire: ne avrei parlato immediatamente dopo il termine della seduta con il Dottor Morgan. Volevo capire perché questi individui erano speciali.
    Speciali.
    Altaïr Ibn-La'Ahad era uno di questi esseri. Considerando tutto, ciò avrebbe giocato a nostro favore. Feci un cenno all'infermiere che era nell'ombra. Iniettò al paziente il siero con il gene deviante in un'unica dose. Ibn-La'Ahad non reagì, mantenne freddezza e imperturbabilità come era il suo carattere; anche al livello superiore il suo comportamento era stato mediamente pacato e sotto le righe, così riportavano le analisi comportamentali che avevo letto nei giorni passati.
    Lui era speciale. Avrebbe resistito all'attacco dell'agente nel suo organismo, ne avevo quasi la certezza. Dentro di me si faceva strada l'esultanza per il risultato a portata di mano. Ripresi a testarlo, secondo la procedura. Tornai alla luce.
    ”Voi non siete assassini, siete terroristi” Era un'accusa, non una domanda o una constatazione.
    ”Ti sbagli” Aveva il respiro più secco, e le mani stringevano i braccioli della sedia: i primi sintomi che la soluzione stava agendo e prendendo possesso delle cellule più indifese.
    ”Siete senza controllo né morale. Il vostro credo è solo una serie di parole vuote, che significano nulla o poco più. Vi nascondete dietro a princìpi irrealizzabili e pericolosi, ma nel frattempo, non cercate che di disturbarci. Ci considerate nemici, ma non lo siamo. Vogliamo solo assicurare ai nostri simili un mondo sicuro e in cui viga la legalità”
    ”State distorcendo i fatti e la realtà a vostro piacimento. Chi non è un Deviante soffre e viene schiacciato dal vostro sistema”
    ”Davvero? E voi cosa vorreste ottenere? Ma soprattutto, a quale costo? Immagino che quei bambini che sono rimasti coinvolti accidentalmente nell'attentato per eliminare alcuni membri dell'Hydra non possano essere imputabili alle vostre azioni... danni collaterali, li vogliamo chiamare?”
    Avevo affondato il colpo sapendo dove mirare. Non potevo utilizzare il mio potere per creare dolore e senso di colpa, ma nei dossier riguardanti il soggetto si parlava di una missione disastrosa, dove il numero di vittime civili era stato considerevolmente alto.
     
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    Il mio ufficio era il luogo in cui meditavo, ragionavo, riflettevo, calcolavo. Il silenzio assoluto mi circondava sempre e un po’ tutti conoscevano la sorte di chi aveva osato irrompere senza appuntamento o invito esplicito. Era il mio Tempio e mi ci rifugiavo per molte di quelle ore che dedicavo alla Causa…
    Ero in piedi, di spalle alla porta, i palmi aperti sulla scrivania, ai lati di un dossier alto due dita. Ero totalmente immerso nella lettura: i risultati degli esperimenti incrociati fatti sugli ultimi due arrivati al Livello 2. Non percepivo la tensione del collo, gli occhi bruciare, i crampi della fame. Mi capitava spesso. Così come spesso accadeva che qualcuno arrivasse in mio soccorso.
    Due mani calde e protettive si posarono sulla mia schiena, risalirono lungo le scapole, fino a massaggiare i tendini contratti delle spalle, al di sopra della camicia.
    Oh, dimenticavo di dire che Ophelia era l’unica persona in grado di attraversare il confine sacro del mio ufficio senza riceverne danni. Ma questo, credevo fosse scontato.
    Abbandonai il capo all’indietro, rilasciando un respiro che non sapevo di stare trattenendo in gola.
    “Ti sembra corretto che una moglie debba attendere ben tre giorni per poter parlare col proprio marito?” La sua voce parve un toccasana, mi entrò dentro e lenì la stanchezza degli ultimi giorni. Non vi era il tipico rimprovero che si potrebbe immaginare, Oph conosceva la mia anima, condivideva la mia passione, non avrei mai potuto desiderare qualcosa di meglio per la mia vita. E per me, che ero un ambizioso cronico, era tutto dire. “Scommetto che non mangi dall’ultima cena avuta con la sottoscritta, per questa ragione… tadan!” Un contenitore di plastica con chiusura ermetica si materializzò davanti ai miei occhi, occhi che quasi subito incrociarono quelli di Ophelia. Mi ero voltato con un gesto fluido, impedendole di allontanarsi. Un bacio sulle labbra, uno sulla guancia, uno sul mento, uno sulle ciglia. Era il mio benvenuto, era il mio “mi sei mancata da morire”. “Mangi qualcosa mentre mi racconti gli ultimi sviluppi?” Sapeva bene che distrarmi dal lavoro non mi avrebbe portato a mangiare con appetito, come poteva accadere per molti… o per tutti. Lei conosceva ogni anfratto della mia mente, ogni curva della mia anima, ogni sfumatura del mio carattere. Lei era lei. Annuii, sentendo di colpo un crampo violento allo stomaco, Ophelia riusciva sempre a riportarmi alla sua realtà. Mi sedetti su una delle due poltroncine di pelle che stavano davanti alla mia scrivania ingombra di fogli e cartellette. Lei fece lo stesso, ma sulla seconda poltrona. Mi fissava solerte, esortandomi ad aprire il contenitore e mangiare. La accontentai, facendo felice anche il mio stomaco. Degli involtini di carne bianca, ripieni di verdure, con contorno di funghi e patate mi fecero venire l’acquolina in bocca. Altra sensazione che provavo molto raramente e solo grazie ai manicaretti preparati da mia moglie.
    “L’incontro del Fuhrer con il mentore Ibn-La'Ahad ha avuto dei risultati sorprendenti. Sembra che il paziente non sia sensibile al suo potere oscuro. Ha provato a sondarlo, ma nulla, si è scontrato con un muro. La tecnologia deviante si sta espandendo come previsto in entrambi, ma oggi ho l’ultimo incontro con il mio prigioniero. Ezio Auditore. Verificherò se anche lui è immune ai poteri devianti, dopodiché… vedremo.” Avevo parlato con calma, tra un boccone e un altro, masticando piano e godendomi ogni sapore fino in fondo. Ophelia mi guardava pensosa.
    “Credi davvero che ci siano soggetti in grado di resistere ai nostri poteri? Se così fosse non sarebbe un bene per il nostro dominio…”
    “Sì, credo che esistano, abbiamo avuto in passato altre testimonianze del genere. Ma adesso sono sul mio tavolo, capirò il come e il perché. Soprattutto, però, devo capire come questa barriera possa incidere, o meno, sul nostro progetto di ricondizionamento. Per ora non sembrano esserci ripercussioni evidenti… ma siamo solo ai primi stadi.”
    “E tu non tiri mai le conclusioni prima di avere tutti i risultati, ricevuto!” Il suo sorriso ebbe il potere di farmi andare di traverso l’ultimo boccone, oltre che di illuminare tutto l’ufficio di una luce che sapevo essere solo nella mia testa, dietro le retine, oltre i sensi, più in profondità, più vicino ai sentimenti di quanto riuscissi ad ammettere.
    La osservai recuperare il contenitore, il tovagliolo, infilare ogni cosa in una busta rigida. Poi si voltò versò di me, pochi centimetri ci distanziavano anche se lei era in piedi e io ancora seduto. Intrecciai le mie dita alle sue e appoggiai la guancia sul suo ventre piatto. Il suo profumo mi investì e io me ne inebriai, sapevo che sarebbe passato qualche altro giorno di lavoro intenso prima di ritornare alla nostra routine. E lo sapeva anche lei. La abbracciai con i palmi ancora fusi tra loro, un “a presto” celato in ogni nostro respiro e un bacio adagiato tra i miei capelli. Poi… poi tornai ad essere il Dottore.
    […]
    ”Buongiorno, dichiari il suo nome” Ecco la solita prassi trasformarsi in realtà. Un semplice procedimento tecnico che finalmente prendeva vita, attraverso parole, spunte, simboli segnati su un foglio bianco, all’interno di tabelle e righe ben distanziate tra loro.
    “Mi chiamo Ezio Auditore!” La sua voce era bassa. Era chiaro che desiderava nascondere la sua debolezza. Un’altra settimana di pochissimo cibo, luci stroboscopiche e musica a tutto volume non avrebbero di certo potuto giovare alle sue condizioni. Nonostante ciò, la volontà di celare il suo reale stato di salute, se foss’anche per una questione di orgoglio, era un sintomo che l’infezione procedeva lentamente su quel versante. Gli esami clinici erano confortanti, ma quelli fisici continuavano a creare discrepanze. Era solo una questione di tempo?
    Gli mostrai una foto, sapevo che la donna che vi era ritratta era legata alla sua vita fuori dalla prigione. Doveva essere arrestata perché umana e simpatizzante degli Assassini. Lui era riuscita a farla fuggire e sembrava andarci fiero. Dovevo spezzare quella fierezza, quella identità, quell’orgoglio.
    I suoi occhi fissarono il ritratto, ma ciò che vi scorsi mi lasciò interdetto. In un primo momento parve addirittura non riconoscerla. Che la tecnologia stesse davvero attecchendo… Presi un appunto in tal senso, dopo aver fatto scomparire la foto.
    “Da chi e da cosa ha salvato questa donna?”
    “Dalla devianza dei vostri soldati. Perdoni il gioco di parole, ma ci sta proprio tutto!” Sarcasmo. Come faceva una volontà piegata a trincerarsi dietro il sarcasmo? Provai disappunto ma non lo diedi a vedere.
    “Le sue azioni vanno contro la sicurezza della società, creano confusione nelle gerarchie di comando, portano all’anarchia. È questo per cui combatte? Un mondo schiavo del caos?”
    “Io combatto per un mondo libero!”
    Presi una seconda immagine e la portai davanti al suo sguardo. Ci vidi oltraggio e rabbia, ma nessuno di questi sentimenti raggiunse il resto del viso. Dovetti ammettere che il suo autocontrollo andava ben oltre a quanto ero abituato a constatare, anche tra gli adepti più esperti.
    “Quanto le sembra libera in questo momento la donna che ha ‘salvato’? Come si sente nel sapere che le sue azioni non hanno portato a nulla? Fino a quando non capirà che le vostre azioni non mineranno il controllo deviante vi ritroverete a collezionare solo fallimenti.”
    Alzò lo sguardo su di me, per quanto gli consentisse la fascia d’acciaio sulla fronte.
    “Va’ al diavolo!”
    Annuii, prendendo nuovi appunti. Non ero stupito della sua risposta. Il sarcasmo era un sintomo che precedeva l’aperta ostilità. Avevo quasi terminato l’incontro, adesso dovevo solo provare a far vibrare le sue cellule utilizzando l’ipervelocità. Non mi mossi di un millimetro, non avevo bisogno di farlo per indurre il corpo di fronte a me a muoversi secondo la mia volontà. Conoscevo bene gli effetti del mio potere deviante e a questo punto avrebbe dovuto quanto meno sanguinare dalle cavità orbitali e nasali, ma “sentivo” che le sue cellule erano immuni, non rispondevano al mio intervento, mi resistevano. La sensazione di impotenza non mi era famigliare e provarla mi lasciò un pizzico amareggiato, tuttavia, anche questo faceva parte del prezzo da pagare per essere uno scienziato. Non sempre si vinceva, ma ogni dato era fondamentale per le conclusioni finali.
    Scrissi altre due righe sulla cartellina che tenevo tra le mani e poi la richiusi.
    “Abbiamo finito, mettetelo nella cella concordata.” Attraverso l’interfono, diedi l’ordine prestabilito alle guardie, in attesa oltre l’uscio.
    L’incontro era terminato e avevo molto materiale su cui riflettere. Ophelia avrebbe dovuto attendere un po’ di qualche altro giorno per riavermi a casa.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 17/6/2020, 20:41
     
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    Anche se la nuova sistemazione era nettamente più umana rispetto alla precedente, non si trattava di un miglioramento concreto.
    Solo quando mi lasciarono su una branda con materasso sottile mi resi conto che finita la sessione con il Dottore non ero tornato in quel maledetto cubicolo di lamiera. La mia lucidità mentale si stava deteriorando molto rapidamente, mi aspettavo a breve il manifestarsi delle allucinazioni.
    Durante il tempo passato con il mio aguzzino avevo capito cosa si aspettava da me. Non cercava informazioni e mezzi per potersi avvantaggiare sugli assassini. Non era mai stata una certezza, questa, dato il modo in cui ci avevano imprigionato e tenuti lì. Nessuno di noi aveva mai pensato questo. Eravamo solo delle cavie, dei soggetti utili per testare un maledetto siero, quello che mi avevano iniettato la prima volta. Avevo capito questo a costo di rimetterci per un soffio la vita per arrivare a questo livello. Avevo finito il mio compito? Per niente. Dovevo incontrare e scoprire l'identità del famigerato Demone. E riuscire a fuggire, per riferire ai miei compagni le informazioni ottenute.
    Le privazioni erano per indebolire il fisico e la mente e ci stavano riuscendo con discreta efficacia. Per la maggior parte del tempo mi trovavo in un incubo fin troppo reale. Avevo perso il controllo delle mie paure e paranoie, e ora queste si muovevano indisturbate. Sapevo che la mia finzione davanti a quel bastardo era sempre più fragile, e solo la rabbia mi aiutava a rimanere lucido abbastanza da non crollare.
    Ero sorvegliato in ogni respiro, troppo indebolito e annebbiato per tentare un gesto arrischiato mentre mi trasferivano. Già solo il resistere alla pressione psicologica dell'interrogatorio e alla tensione mi sfinivano. Sentivo che il tempo stava lavorando contro di me. Lo capivo dalla tranquillità del Dottore. Perché era questo a cui ambiva: tempo e dati da riportare nella sua maledetta cartellina. Le sue provocazioni avevano solo l'obiettivo di testare le mie reazioni.
    Quando il dubbio aveva cominciato ad insinuarsi nella mia mente? Quando aveva cominciato a contaminare i miei pensieri?
    Non ero una persona fragile e influenzabile, l'incertezza non faceva parte del mio modo di agire. Eppure, avevo cominciato a dubitare. Non avevo più tranquillità e fiducia nelle mie risorse. Non avevo incubi, perché le maledette luci funzionavano in maniera ininterrotta e chiudere gli occhi era inutile, ma le paure si stavano trasformando in qualcosa di fin troppo reale.
    Così, era sempre più difficile controllare l'ansia. Ero isolato e nonostante l'impegno non ero stato in grado di raccogliere altre informazioni utili: potevo solo supporre che Federico e Altair fossero nella mia stessa situazione, che stessero subendo le stesse torture. Come sarei stato in grado di aiutarli?
    E poi dovevo fare i conti con il mostro più famelico, quello che mi divorava il cuore un pezzo alla volta. Il mio amore per Pandia non era più la roccia alla quale aggrapparmi. Lo era stato forse all'inizio, quando nonostante avessi capito che in questo mondo la avevo incontrata casualmente, che non era mai nato l'amore tra di noi, avevo comunque la certezza che sarei riuscita a trovarla, che mi sarei fatto amare da lei. Ma mi illudevo. Il dubbio mi aveva raggiunto anche qui.
    Come era possibile costruire un rapporto identico con un estraneo? Non era una mera questione di aspetto esteriore: anche se era la sua gemella, il carattere, il temperamento, i gesti, le manie non sarebbero stati uguali. Io potevo riuscire a farmi amare, ma... sarei riuscito ad amare quell'altra persona? Era un estranea, con cui non avrei spartito nulla. Il dolore di vedere quegli occhi che amavo fissarmi con noncuranza sarebbe stato un dolore che mi avrebbe potuto piegare. Avevo davvero perso colei che amavo, anche se avevo combattuto per poterglielo dimostrare.
    Decisi che, se mai fossi sopravvissuto abbastanza da essere di nuovo libero, sarebbe stato molto meglio per me tenermi alla larga da questa versione di Pandia.
    Spalancai gli occhi nell'udire dei rumori che non mi aspettavo: voci sussurrate e lamenti, risonanza di passi frettolosi, porte metalliche e serrature che venivano aperte con violenza.
    Mi alzai di scatto, istintivamente, prima ancora di esaminare l'ambiente in cui mi avevano portato. Distinsi una luce artificiale attraverso le sbarre della mia cella, poi la visuale si oscurò improvvisamente e caddi a terra. Mi ero mosso senza cautela, e il mio corpo debilitato non aveva risposto alla mia volontà.
    Mi rialzai lentamente e con fatica dal pavimento. Anche solo mettermi in ginocchio mi fece sudare freddo. Lo stomaco si contrasse in spasmi e il cuore mandò fitte violente che mi tolsero il respiro. La gola si contrasse. Rimasi immobile per qualche secondo, chiedendomi se sarei mai riuscito a recuperare le forze. Poco alla volta riacquistai la vista. Misi a fuoco, vicino alle sbarre della porta, un piccolo vassoio con un piatto e un bicchiere. Feci una smorfia beffarda: ero stato bravo, allora, se decidevano di concedermi questi trattamenti di favore.
    Ad un respiro troppo profondo, venni colto da un accesso di tosse: era da qualche tempo che mi capitava. A pensarci bene, gli episodi erano cominciati subito dopo la prima seduta e via via erano diventati più frequenti e prolungati. Era una tosse secca, convulsa, inarrestabile, che mi sfiancava ancora di più. Mi appoggiai al muro della cella per non ridurmi a soffocare sul pavimento. L'attacco aumentava, squassava il mio corpo. Mi rannicchiai in posizione fetale, con i polmoni e la trachea in fiamme.
    Dopo un po' mi accorsi del sapore metallico che avevo in bocca: guardai le mani e le vidi sporche di sangue rosso vivo. Brutto segno. Qualsiasi cosa rappresentasse, stava peggiorando.
    Anche se temevo il contrario, gli spasmi diminuirono e poco alla volta si calmarono. Potei così essere di nuovo consapevole di quello che mi circondava. I rumori e le voci erano più concitate, fuori dalla cella. Con uno sforzo, strisciai fino all'ingresso. Il cibo anemico e plastificato che ci propinavano anche al piano superiore mi attirava, tanto stavo soffrendo la fame, ma decisi che prima avrei capito dove mi trovato e cosa stava accadendo.
    Controllai l'esterno. La mia prigione era una delle tante, lungo un corridoio freddo e spoglio come quello che conoscevo già. Di fronte alla mia si trovavano delle celle, alcune occupate, altre no. Per la prima volta da giorni, una tiepida speranza mi fece visita. Non ero solo, e finalmente avrei rivisto i miei compagni, mi sarei potuto sincerare delle loro condizioni!
    Due guardie con una borsa medica sfrecciarono lungo il corridoio, entrando in una delle celle che riuscivo a vedere. L'uomo all'interno indossava la divisa grigia che avevamo tutti ed era riverso a terra. Si lamentava e urlava in maniera terrificante, contorcendosi in spasmi agghiaccianti, come se un animale lo stesse sbranando dall'interno. Poi il suo corpo collassò, improvvisamente, e giacque immobile, con la divisa sporca di sangue nella parte superiore. Sentii la voce di una delle due guardie: ”Datti da fare con il defibrillatore, oppure perdiamo anche questo qua!”


    Edited by Illiana - 20/6/2020, 19:16
     
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    Il mio "gentil" incontro con niente poco di meno che il grande Fuhrer dell'Impero Deviante era stato interessante. Non era la prima volta che uno di loro tentava di usare i poteri su di me, come non era certamente la prima volta che semplicemente non accadeva nulla. Solo che, se solitamente ignoravo talr fatto, questa volta notare come ciò avesse impercettibilmente infastidito il Fuhrer mi aveva affascinato.
    Non risposi alle sue domande o non come voleva che facessi anche se con il passare delle ore percepivo la mia lucidità abbandonarmi. Tutto l'esercizio compiuto per mantenere la mia mente scollegata dal corpo (per non "colpire" Aphrodite) stava debilitandomi più del dovuto e quando iniziai a sentire gli occhi pesanti e gli occhi bruciare capì che non sarei resistito allungo.
    Stavo versando in condizioni psicologiche avverse e mentre agonizzavo sulla sedia, affrontando anche delle scariche di elettroshock, dovute all'interesse di un Dottore (intervenuto dopo) di capire la mia resistenza, lo vidi poco lontano parlare con il Fuhrer capendo poco del loro discorso, ma tenendo l'orecchio attento.
    "Auditore è già alla Fase Due. Il suo corpo sta rispondendo bene, ma la sua mente inizia a cedere, altro discorso per l'ospite d'onore..." bofonchiò lo scienziato in un sussurro voltandosi verso di me che a stento tenevo gli occhi aperti, troppo provato.
    "Perchè?" chiese il Fuhrer interessato, ma inflessibile.
    "Pratica una sorta di controllo mentale potente... non so chi glielo abbia insegnato, ma è stupefacente. Ho voluto usare l'elettroshock per spezzarlo, ma ancora resiste... temo che questo potrebbe compromettere il ciclo omega... E' in procinto di entrare nella Fase Due, ma temo possano sorgere problemi durante la Fase Tre..."
    "Di che tipo? Credi che morirà come gli altri?"
    "Oh no, dimostra anzi una resistenza maggiore... quello che potremmo trovarci tra le mani è però un soggetto difettoso, sono quasi certo che inizierà ad avere allucinazioni entrato in Fase Due e verso la Fase Tre potrebbe iniziare a cedere mentalmente... Il soggetto temo che sarà d'abbattere per evitare incidenti, a quel punto avrebbe il fisico del clone che vogliamo costruire, ma la mente...
    "E' un peccato... fallo portare con gli altri... aspettiamo ancora un po' e se sarà necessario abbattilo!"
    "Sarà fatto!"

    Quel discorso fu l'ultima cosa che ricordai prima di perdere i sensi e risvegliarmi in una cella molto più simile a quelle del Livello 1, rispetto dove ero stato tenuto fino a quel momento, ma molto più stretta.
    Collocata in un corridoio lungo e stretto, oltre che poco illuminato, potevo scorgere altri prigionieri nelle loro celle. C'era chi si muoveva in modo convulso, chi tossiva, chi sbatteva la testa al muro e chi semplicemente stava immobile.
    Io da parte mia mi ero aggrappato alle sbarre per mettermi in piedi, mentre sentivo una fitta al costato che mi tolse il respiro. Il cuore batteva così forte da far male, da accellerare la respirazione e renderla talmente convulsa da farmi sentire affogare.
    A fatica cercai di riprendermi, quando una mano sulla spalla mi fece voltare di scatto. Sgranai incredulo a chi ebbi davanti, mentre il sorriso preoccupato di Aphrodite mi accarezzò così come la sua mano sul mio volto stanco.
    "Cosa ti hanno fatto amor mio?" chiese retoricamente e preoccupata prima di gettarmi le braccia al collo.
    L'abbracciai disperato inspirando il suo profumo, solo per poi allontanarla e prenderle il viso tra le mani.
    "C-Cosa ci fai qui? C-Come ci sei arrivata?"
    "Non è importante! L'importante è che stiamo insieme!" mi disse lei baciandomi dolcemente prima di abbracciarmi ancora forte.
    Non mi accorsi che alle mie spalle la cella si aprì, come quelle delle altre, e quando Ezio mi trovò ero appoggiato alla parete, che per me era l'abbraccio della mia Aphrodite.
    Mi chiamò come a volersi accertare che fossi io, ma quando mi voltai e lo guardai sgranai gli occhi.
    "Chi sei tu? Vattene! Non mi inganni!" lo attaccai con gli occhi sbarrati, lui lento si avvicinò e mi poggiò una mano sulla spalla.
    "Altair sono io... Ezio... c-come stai? P-Pensavo si fosse anche Federico, ma fortunatamente non è qui... presumo sia la nostra ora d'aria... le celle sono aperte e i prigionieri si sono radunati nel grande salone in fondo al corridoio... andiamo... cerchiamo di capire cosa si nasconda qui..." mi incitò, ma io continuavo a far saettare lo sguardo da lui al muro. Lo stesso che guardai intensamente.
    "Che faccio?"
    "Fidati di lui! E' Ezio. Ezio Auditore. Un tuo amico. Io sarò con te... sempre..." sorrisi percependo la sua mano sul mio viso ed assentendo mi voltai verso Ezio deciso a seguirlo, seppur il suo sguardo mi stranì.
    "Che c'è?" chiesi quasi infastidito, credeva forse che fossi pazzo?
     
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    Roberta
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    “Iuventas, Iuventas ci sei? Abbiamo bisogno di te. Riesci a sentirmi?”
    Con quelle parole che mi esplodevano in testa mi svegliai di soprassalto, mentre ero ancora nel mio letto. Mi guardai intorno nella semioscurità della mia stanza e rabbrividii. Erano giorni nefasti e in quel periodo non riuscivo a chiudere occhio, quelle poche volte che mi abbandonavo ad un sonno esasperato e necessario, gli incubi mi assalivano e mi tornavano alla mente gli eventi che stavamo vivendo. Tutte noi eravamo state informate di ciò che era avvenuto durante l’interrogatorio con Hades e della profezia che era stata proferita dal nostro nemico invisibile. Ci attendevano giornate davvero impegnative, alla ricerca di risposte, per non crollare, per non soccombere.
    In più, Partenope, dopo la sua missione sulla Terra, non era giunta con buone notizie. Per puro caso era riuscita a vedere Connor, ferito in infermeria e aveva saputo che Altair ed Ezio erano finiti in un livello segreto di quella prigione in cui erano rinchiusi gli Assassini e che rischiavano seriamente la vita. Nessuno sapeva cosa poteva succedere in quel luogo e l'ansia e la preoccupazione regnavano sovrane nei cuori delle Guerriere Senior e nel mio.
    Con quella spiacevole sensazione che scivolava sotto pelle notai il mio amato cagnolone al mio fianco, che scodinzolava e con il muso tentava di attirare la mia attenzione. Sapeva benissimo che sarebbe bastato parlare telepaticamente per poter comunicare il suo affetto e i suoi pensieri, ma a lui piaceva quel contatto semplice e dolce. Lo accarezzai con tenerezza…
    “Sei stato tu a svegliarmi, vero? Hai un messaggio per me. Ares e le altre Guerriere sono in pericolo? Gli Assassini?” Ero partita in quarta senza dargli il tempo di esprimersi. Lockjaw conosceva bene questa parte irruenta e impulsiva di me e l'aveva accettata. Non se ne sentiva disturbato né infastidito.
    La sua grande testa era morbida e dal pelo raso.
    “Hai ragione Iuventas, ho un messaggio per te da parte di tua sorella Ares. Mi è arrivato pochissimo tempo fa ed era molto preoccupata!” mi parlò nella mente con la sua voce profonda, quasi baritonale. L'avrei potuta riconoscere tra mille. A quel tono preoccupato e comprensivo se ne aggiunse un altro più concitato.
    “Allora? Ti vuoi decidere a farglielo sentire? Non vedi che è in ansia?!” Era lei, la mia migliore amica, i miei secondi occhi in battaglia, il mio scudo, la mia compagna alata Phobos. Al solo udire la sua voce, riuscii a trovare un po' di calma e lucidità. C’era anche lei al mio fianco, come sempre, nelle sue sembianze di corvo. Quei due non mi abbandonavano mai, notte o giorno che fosse eravamo sempre insieme, una squadra infallibile, una squadra indivisibile. Non mi avrebbero mai abbandonata ed io gli ero grata per questo. Senza di loro, probabilmente non sarei arrivata dove ero: a diventare una Guerriera di Marte che difendeva l'intero Sistema.
    “Se mi date il tempo, forse ci riesco” replicò stizzito il mio Lockjaw.
    Non interruppi il contatto per averlo più vicino, anche se non era necessario per percepire il flusso dei suoi pensieri.
    “Iuventas, Iuventas, ci sei? Abbiamo bisogno di te. Riesci a sentirmi?”
    udii adesso più distintamente le parole di mia sorella. Rimasi concentrata e immobile, timorosa di perdere il contatto. “Devi venire sulla Terra. Devi aiutarci. Non c’è più tempo. Bayek, Connor… tutti gli Assassini, ma soprattutto Ezio e Altair sono in gravissimo pericolo. Non possiamo più aspettare. Dobbiamo salvarli e tu ci devi aiutare. Ti prego, vieni presto. Ti aspettiamo!”
    Quel messaggio mi aveva lasciata sconvolta e scombussolata. Dalle sue parole traspariva tutta l’ansia e l'urgenza per attuare il loro piano. Partenope mi aveva messa al corrente delle loro mosse future, ma pensavo ci sarebbe voluto più tempo. Evidentemente, il tempo a loro disposizione era scaduto.
    Non potevo rimanere lì a trastullarmi. Dovevo agire e in fretta.
    “Cosa farai?” mi chiesero quasi all'unisono i miei due compagni.
    “Secondo voi? Cosa dovrei fare? Mi sembra ovvio… vado da loro!” dissi stizzita. Non mi sembrava ci fossero alternative, perché quella domanda inutile?
    “Ti rendi conto della situazione delicata in cui ci troviamo qui? Dopo la profezia del nostro nemico siamo tutti all'erta. Come pensi di assentarti in un momento così nefasto?” Eccola che arrivava, la voce della mia coscienza. Anche Phobos conosceva la mia indole passionale e grazie a lei ero sempre rinascita, o quasi sempre, a tenere a bada le mie scelte fatte di pancia, le mie azioni senza pensare. Lei mi completava e non solo in battaglia. Mi faceva riflettere e ponderare le situazioni e gli eventi che mi circondavano. Ma in questo caso c'era ben poco da prendere in considerazione.
    “Hai ragione, siamo tutti in pericolo, dovremmo stare attenti e uniti di fronte questa grande minaccia che ci sta investendo, ma non posso abbandonare mia sorella e le altre Guerriere. Bayek e gli Assassini hanno bisogno di me ed io non gli volterò le spalle! E tu? Non vuoi rivedere tua sorella?!” Non potevo vederla sbuffare nelle sue sembianze di volatile, ma la udii chiaramente nella mia testa. L’avevo messa di fronte al fatto compiuto. Sapevo che le mancava e che fremeva per poterla incontrare di nuovo, pur dovendo svolgere il ruolo del “grillo parlante” di quella famosa fiaba terrestre.
    “Come procederai?” mi chiese Lockjaw più comprensivo.
    “Domani mattina chiamerò Partenope e la metterò a parte del mio piano per andare sulla Terra. Tu mi aiuterai ad arrivare lì, sai che non posso usare i miei poteri, soprattutto adesso; poi, vorrei che tornassi subito qui. Non starò via molto, ma ho bisogno che stia vicino a Partenope per aiutarla a coprire la mia assenza. Sai che a volte si prende di panico, ma sono certa che quando avrà conosciuto la gravità degli eventi non si tirerà indietro. Ha visto con i suoi occhi le condizioni in cui si trovano in quella prigione. Nemmeno fossero cavie da laboratorio. Maledetti!” mi stavo facendo sopraffare dalla collera e un'altra carezza del suo muso, mi aiutarono a tornare in me. Anche Phobos mi si avvicinò e si mise al mio fianco.
    “Ah, dimenticavo… tu vieni con me, ovviamente?” La stuzzicai, affermando l'ovvio.
    “Ho sempre provato a dissuaderti dai tuoi piani folli, ma ti ho mai lasciata da sola nel metterli in atto!?”
    La sua voce era ironica ma decisa allo stesso tempo. La accarezzai e tornai a sdraiarmi sulle lenzuola di seta rosse. Non avrei chiuso occhio, ma avevo bisogno di ritemprare il mio corpo con un po' di riposo.
    […]
    Era giorno inoltrato quando io e Phobos ci trovammo teletrasportate nel covo delle Guerriere. Loro erano lì ad attenderci con ansia. Io salutai il mio cagnolone e gli diedi le ultime indicazioni su ciò che doveva fare insieme a Partenope. Lei non era stata molto entusiasta della mia partenza, ma dopo aveva compreso la drammaticità e l'urgenza degli eventi. Mi aveva rassicurata ed io ero certa che non mi avrebbe delusa. Mi avrebbe egregiamente coperto le spalle.
    Phobos svolazzò nella stanza e si andò a posare alle spalle delle Guerriere Senior che erano tutte lì a guardarmi. Anche lei aveva qualcuno da incontrare, proprio come me.
    Ares fece un passò avanti e poi un altro ancora, io annullai quasi correndo la distanza che ci separava e l'abbracciai con forza. Era davvero un sacco di tempo che non la vedevo, che non la stringevo tra le braccia. Era vero, avevo sue notizie molto spesso, sapevo come stava, ma non era la stessa cosa che toccarla e sentire il suo profumo. Non eravamo solite abbandonarci a queste evidenti manifestazioni di affetto fraterno, al massimo qualche abbraccio scherzoso, ma l’avevo detto vero che non era una situazione normale?!
    Mi staccai dopo un tempo che mi parve infinito e dopo che mi ero saziata del suo calore. Mi appuntai mentalmente di farne ampia scorta prima di andare via. Sì… quando me ne sarei andata. “Va bene, via la tristezza. Adesso sono qui, devo e voglio rendermi utile!”
    “Allora care Guerriere Senior, che cosa vi ha spinto a chiamarmi?! Sparate, sono a vostra disposizione!” Ero pronta a tutto per aiutarle.
    Si avvicinarono per salutarmi, chi con una pacca sulla spalla, chi con un breve ma intenso abbraccio, Aphrodite quasi mi stritolò. Mi aveva trasmesso tutto il suo sconforto e il suo strazio interiore.
    “Vieni Iuventas, dobbiamo assolutamente agire. Ti racconterò cosa è successo!” disse stringendomi le braccia in modo spasmodico. La sua urgenza era palpabile.
    Io la presi per mano e la seguii verso il centro della stanza. Ci sedemmo tutti intorno ad un grande tavolo. “Le abitudini sono dure a morire” pensai. “Indipendentemente dal luogo in cui ci troviamo!”
    Proprio la Guerriera di Venere aveva preso la parola, spiegandomi come per tutto quel tempo non era stata in grado di mettersi in contatto telepatico con il suo sposo Altair. Era come se trovasse un muro invalicabile che le impediva di sentire i suoi pensieri, le sue emozioni, le sue sensazioni. Ma da circa due giorni aveva percepito una connessione stabile, seppur molto flebile e ciò che aveva sentito le aveva lacerato l’anima. Il suo volto era stravolto dallo stesso dolore, che probabilmente stava provando anche il suo amato. Voleva intervenire ad ogni costo. Voleva andare a salvare Altair. Mi si strinse il cuore ed essendo seduta proprio accanto a lei, le strinsi la mano per tentare di infonderle un po’ di forza. Lei ricambiò la stretta e mi guardò con occhi sgranati e pieni di lacrime che però non volevano uscire.
    Quando la sua voce vacillò, mia sorella proseguì al suo posto.
    “Già da tempo, grazie a Partenope avevamo scoperto che sia Altair che Ezio erano stati rinchiusi in un piano sotterraneo, chiamato Livello 2. L’unico problema è che non sappiamo minimamente cosa ci sia là sotto e soprattutto cosa gli stiano facendo.”
    Forse un’idea ce la potevamo fare, tutte potevamo percepire l’anima spezzata di Aphrodite.
    “Di Ezio non abbiamo nessuna notizia certa, ma presumiamo sia nelle stesse condizioni di Altair. Non sappiamo se si trovino insieme o in celle separate. Non conosciamo le loro condizioni fisiche…” Pandia aveva parlato con una strana inflessione nella voce. Era ovvio che tutte noi fossimo preoccupate per le sorti dei due Assassini, ma sentirla parlare di Ezio, mi aveva fatto “quasi” lo stesso effetto di Aphrodite. Perché?! Tutte noi sulla Luna, ancora non avevamo compreso il motivo che aveva spinto la nostra amica a scappare sulla Terra a inseguire lo stesso destino delle Guerriere Senior. Loro potevamo comprenderle, i loro mariti erano in pericolo, ma lei… Non ci aveva detto una sola parola ed era sparita. Ci eravamo sentite tradite da questo suo atteggiamento, ed io, che affrontavo sempre tutto un po’ troppo a muso duro, avevo accusato la ferita più grave. Se solo ci avesse parlato, se solo ci avesse spiegato. Solo silenzio. La guardai con fermezza, ma i miei occhi non erano freddi, non ci sarei mai riuscita. Non era il momento di affrontare i nostri diverbi tra amiche. C’erano cose più urgenti da discutere.
    “Volete che io utilizzi i miei poteri sulle superfici riflettenti per scoprire come stanno e capire come possiamo salvarli?”
    “Esatto! Già sappiamo che la tecnologia che Partenope ha testato per noi, funziona perfettamente e quindi potremo organizzare un piano per entrare nell’Abstergo senza essere rilevate dai loro sensori devianti.” Athena era sempre la più pratica del gruppo.
    “Dobbiamo fare in fretta, Iuventas. Non c’è più tempo… devi trovare Altair ed Ezio… non resisteranno a lungo…!”Aphrodite era sì sconvolta, ma la determinazione che aveva stampata in volto era tipica del suo carattere battagliero.
    “Li devo portare in salvo?
    “No, se portiamo fuori loro, il piano per liberare anche gli altri non avrà più l’effetto sperato. Dobbiamo essere cauti!” Nike parlò molto chiaramente. Vidi Aphrodite serrare i denti e le dita che ancora stringevano la mia mano.
    "Sono qui per aiutarvi… Portatemi uno specchio…”
    Nel frattempo, mentre le altre ragazze stavano organizzando il tutto, la Guerriera di Venere mi prese da parte e mi parlò mormorando.
    “Scopri in che condizioni si trova Altair, ti prego… se puoi farlo, portalo da me. Riportalo da me! Altrimenti, io stessa farò irruzione in quella maledetta prigione!” La sua voce era stata un soffio di furia che, mi aveva sconvolta fin nel profondo.
    […]
    Non era stato semplice. Quel posto era un inferno fatto di acciaio e plexiglass. Gli specchi erano molto rari e presenti solo in delle strane stanze con un tavolo e due sedie. Erano affissi alle pareti e davano su un’altra stanza attigua, dove non c’era null’altro che una telecamera e una sedia. “Decisamente minimalisti. Evviva il design!” pensai. Qui la superficie non fungeva da specchio come nell’altra, ma si poteva vedere al di là, senza essere scorti.
    Passai in rassegna tutte quelle strane salette e in alcune vi trovai dei prigionieri rannicchiati negli angoli, con lo sguardo vacuo e che si dondolavano senza avere percezione del mondo circostante. Non mi muovevo in dei veri e propri specchi, ma la parte riflettente era sufficiente per consentirmi di utilizzarli come passaggio.
    All’improvviso mi bloccai in una saletta con la telecamera e ciò che vidi al di là mi perforò il petto al pari di un pugnale. Ezio e Altair erano seduti in terra appoggiati l’uno alla spalla dell’altro. Erano a torso nudo e lo sguardo era vuoto. Non appena tentavano di chiudere gli occhi, musica ad alto volume e luci intermittenti disturbavano il loro sacrosanto riposo. Ma che barbarie era mai questa? Una simile forma di tortura non doveva essere nulla rispetto a tutto ciò che avevano passato, ma vederlo in prima persona mi stava rivoltando lo stomaco.
    “Devo parlargli! Devo dirgli di resistere! Che presto verremo a salvarli.” Poi, il ricordo delle parole di Aphrodite mi scorticò la mente. E se li portassi in salvo? Se trovassi il modo di fargli attraversare lo specchio e portarli con me? Gli altri li potremmo salvare in seguito. Se scomparissero senza lasciare tracce, potremmo avere il tempo per tornare senza aver creato troppo schiamazzo. Loro due non potranno resistere a lungo in queste condizioni.
    Appoggiai le dita sul vetro e mi stavo apprestando ad attraversarlo, quando mi sentii strattonare per i capelli e fui sbalzata all’indietro. Andai a sbattere contro la parete opposta, travolgendo il trepiedi che sosteneva la telecamera. Chi era?! Non avevo sentito arrivare nessuno alle mie spalle… e in una stanza così piccola… La testa mi doleva e la schiena aveva subìto un forte contraccolpo, ma non ero intenzionata a cedere. Avrei combattuto con le unghie e con i denti per poter salvare Ezio e lo sposo di Aphrodite. Non ero il tipo che si tirava indietro!
    Mi asciugai col dorso della mano un rivolo di sangue che colava dal labbro spaccato e sollevai lo sguardo. Vidi un uomo imponente. La luce a intermittenza alle sue spalle, mi impediva di scorgerlo chiaramente. Riuscii a captare solo alcuni dettagli, occhi di ghiaccio, capelli chiari…
    “E tu… chi diavolo sei?!” dissi con tutta la rabbia di cui ero capace.
    “Potrei farti la stessa domanda, ragazzina!” La sua voce roca che mi scherniva, mi diede la forza necessaria per rialzarmi e lanciarmi all’attacco.
     
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    Annarita
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    :Liam:
    Chi diavolo era quella guastafeste? Perché si trovava in questo posto? Percepivo un'energia potente, vibrante… ma strana. In un primo momento, avevo dato per scontato fosse una deviante. L'avevo seguita nel suo breve peregrinare, nel suo passare attraverso superfici riflettenti, un potere che un deviante avrebbe potuto tranquillamente sviluppare. Un dettaglio fondamentale, però, demoliva la mia tesi: perché si muoveva in maniera furtiva? Perché i suoi occhi avevano osservato gli Assassini in difficoltà con orrore? Perché temeva di essere sorpresa da un momento all’altro? Poteva essere una traditrice, una ribelle che militava tra le fila degli umani, oppure… un deviante negato. Mille domande mi affollavano la testa, mentre stringevo i denti e cercavo di controllare la mia energia. Non era semplice, perché il richiamo era potente e sì, lo sapevo che stavo giocando con un incendio di proporzioni apocalittiche ma quali alternative avevo?
    Proprio per ciò che stavo rischiando non potevo permettere che quella ragazzina interferisse con i miei piani. Quando intuii che desiderava comunicare con Auditore e Ibn-La'Ahad mi decisi a intervenire. E non avrei badato a calibrare la mia forza, non ne avevo né il tempo, né la voglia!
    Poco prima che la piccoletta oltrepassasse l’ennesima superficie riflettente per giungere di fronte agli Assassini, presi un respiro profondo e concentrai tutte le mie energie nella presa ferrea con cui le strattonai i capelli e la scaraventai sulla parete di fronte. Lo spazio era esiguo e l’impatto fu potente. Un brivido mi corse lungo la schiena, mentre il cuore pareva voler uscire fuori dalla gabbia toracica… anche se sapevo che nella mia condizione era praticamente impossibile. Tuttavia, la sensazione era sempre più tangibile, pericolosa, eccitante… ed io dovevo smetterla di farmi inebriare come un novellino alle prime armi. Era vergognoso!
    Il brevissimo scambio di battute fu interrotto da un attacco improvviso della ragazza. Tentò di caricarmi come una specie di piccola ariete e la scelta della strategia di attacco mi lasciò spiazzato per un attimo di troppo. Il suo scopo era quello di farmi perdere l’equilibrio, ma dopo un primo momento di disorientamento, comandai al mio corpo di perdere consistenza e la vidi abbracciare l’aria prima di crollare sul pavimento. Non persi tempo, la afferrai per le spalle, mi concentrai ancora una volta, e la feci andare a sbattere contro il tavolo e le sedie di acciaio fissate a terra. L’espressione di dolore e il sangue che le colava dal naso e dalla bocca, però, non offuscavano la sua espressione determinata. Dovevo mettere fine a questa pagliacciata e costringerla a levare le tende, avevo la sensazione che non avrebbe mollato tanto in fretta. Mi materializzai al suo fianco, cogliendola di sorpresa, proprio mentre tentava di rimettersi in piedi. Avvolsi la mia mano grande attorno al suo collo sottile e strinsi, intanto che – con una velocità impressionante – mi spostavo per farla scontrare contro la parete, di nuovo, ma questa volta con la mia faccia a pochi millimetri dalla sua. Lei aprì la bocca in un muto urlo di strazio, dovevo averle rotto qualcosa, perché delle lacrime involontarie iniziarono a raccogliersi agli angoli dei suoi occhi “inumani”. La osservai meglio, i suoi capelli non erano tinti, le iridi erano scure ma senza pupilla, la pelle era levigata e priva di imperfezioni senza avere nulla a che fare con la sua apparente giovane età. Di fronte, avevo un essere diverso, forte, ma non abbastanza da travolgere il mio potere di deviante. Solo pochi esperti guerrieri erano in grado di rivaleggiare con la mia capacità, ma non potevo fare a meno di ammirare lo spirito battagliero che non aveva mai abbandonato il suo viso. Anche se lo strazio doveva essere molto forte, continuava a strattonare la mia presa per tentare di liberarsi.
    “Non ho idea di chi tu sia e, sinceramente, non me ne importa. Una cosa però te la voglio dire, chiunque ti abbia mandata qui… digli di rinunciare. Non c’è alcuna speranza per quegli Assassini, ormai i Devianti li hanno infettati e tutto quello che gli accadrà da ora in poi sarà più terribile della morte. Se non avete intenzione di ucciderli voi stessi, allora considerateli già persi…” Come facevano i suoi occhi a contenere così tante emozioni? Dolore, disperazione, incredulità, fermezza. Sembrava che avessi appena demolito tutto il suo mondo, nonostante ciò, se avesse potuto, mi avrebbe ridotto in polvere. La tenevo ancora stretta e la feci sbattere ancora una volta, con più forza – tanto da sentire scricchiolare le ossa della schiena –, contro il muro. “Vai via e non tornare. Qui troverai solo nemici e morte!” La esortai ancora e la vidi sbatacchiare freneticamente le ciglia ma sapevo che non si trattava di un cenno di assenso, cercava solo di trattenere le lacrime. Orgoglio, ecco il nome della forza che la animava in questo preciso istante. La trascinai, senza lasciare la presa ferrea sul suo collo – fin troppo delicato tra le mie dita! – verso il vetro che ci separava dalla stanza in cui gli Assassini vertevano in condizioni pietose. Schiacciai il suo volto contro la superficie riflettente. “Ricorda, solo nemici e morte.” Premetti forte, fino a quando non vidi la sua pelle fondersi con lo specchio e sparire oltre. La lasciai andare giusto un attimo prima di venire risucchiato assieme a lei nel portale. Era sparita, speravo per sempre!
    Nessuno doveva interferire con i miei piani. Non desideravo la morte di Auditore e Ibn-La'Ahad, ma c’era qualcosa di più importante per me, qualcosa che si avvicinava molto più al bene comune di quanto chiunque potesse immaginare: dovevo impedire al veleno che mi scorreva nelle vene di palesarsi, dovevo impedire a un potente deviante di venire alla luce. Nessuno poteva quantificare la distruzione che avrei potuto causare se… se… qualcuno avesse scoperto la mia identità e le mie potenzialità, decidendo di usarmi… Scossi il capo e scacciai quei pensieri. Dovevo continuare a muovermi, agire, perseguire il mio scopo, anche se dietro di me stavo disseminando cadaveri di amici e nemici, ma era l’unico modo per non perdere la strada. Non ancora.
     
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    Voglio essere una macchia colorata in mezzo al grigiume della realtà

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    :Ares:
    “Quello lo ammazzo!”
    “Ares, ti vuoi calmare? Sto bene… più o meno.”
    “Tu questo lo chiami stare bene!?” le chiesi prendendo lo specchietto che usavamo solitamente per contattarci e piazzandoglielo davanti, riflettendo lo stato disastroso in cui si trovava.
    “Rettifico, sto meglio. Prima avevo un grosso taglio in fronte, ora invece non c'è più.”
    La incendiai con lo sguardo, appoggiai delicatamente -ovvero sbatacchiai con forza- lo specchio sul tavolo al mio fianco e ripresi a fasciarle con cura il braccio. Il modo dolce e pacato con cui mi stavo occupando di lei era in netto contrasto con il mio umore ed il mio atteggiamento. Non appena allontanavo le mani da mia sorella -che fosse per prendere il disinfettante o per lasciare le garze- mi muovevo con aggressività ed eccessiva forza. Ero in preda alla rabbia.
    Mentre mi concentravo sulla fasciatura rivedevo in continuazione il momento in cui era tornata.
    Era riapparsa all'improvviso dallo specchio, accasciandosi a terra priva di forze e ricoperta di sangue. Accorremmo subito e la presi fra le braccia, o almeno ci provai, perchè non appena la sfiorai la vidi contrarsi e mugugnare per il dolore.
    Era a pezzi, e purtroppo non era una metafora.
    Dopo essere riuscita a portarla su un letto, e vi assicuro che l'impresa non era stata facile, constatai che aveva più costole rotte che integre, la mandibola fratturata, ematomi e tagli ovunque... quello che più mi preoccupava erano i danni che non potevamo vedere.
    Con l'aiuto delle altre la rimettemmo in sesto, o almeno il minimo indispensabile. Non poteva di certo tornare sulla Luna conciata a quel modo!
    Per fortuna si era ripresa velocemente nel giro di un'ora.
    Quel bastardo... mia sorella mi aveva accennato poco riguardo a quel che era successo, ne avremmo parlato dopo insieme alle altre, però mi disse che non sapeva chi fosse il suo aggressore. Quel tizio era apparso dal nulla, l’aveva colpita ripetutamente per poi farla scappare.
    Non oso immaginare come l'avrebbe conciata se non fosse stata un'Eterna... sicuramente sarebbe morta.
    Il senso di colpa mi stava divorando. L'avevo chiamata io per chiederle aiuto e per poco ci rimetteva la vita.
    Il solo pensiero di perderla mi dilaniava.
    "Ares... Ehi, guardami."
    Mia sorella mi strappò ai miei pensieri con una dolcezza che usava estremamente di rado. Mi bloccò le mani ed intercettó il mio sguardo.
    "Sto bene, vedi?" sospirò "Non è colpa tua..."
    "Sono io che ti ho chiesto di venire. Sono io ad averti messo in pericolo."
    "Sbagliato! Tu hai chiesto il mio aiuto, io ho accettato, io sono rimasta in quel posto più del dovuto perché mi ero messa in testa di salvarli. Ergo, tu non c'entri niente."
    "Ma..."
    "Ares. Smettila di addossarti colpe che non hai. Se un soldato al tuo comando facesse qualcosa di diverso da quel che tu gli hai ordinato, di chi sarebbe la colpa?"
    "Dal punto di vista militare? Davvero?"
    "Rispondi."
    "Non è la stessa cosa!"
    "Tua o sua?!"
    "Sua... ma tu sei mia sorella!"
    "Ma ho comunque fatto qualcosa di diverso dal piano originale, quindi smettila!"
    Sbuffai.
    "Fatto." dissi soddisfatta delle numerose medicazioni che le avevo fatto.
    "Finalmente!" si alzò entusiasta dalla sedia. Era tornata la Iuventas di sempre. Un po' acciaccata, ma sempre lei. "Andiamo dalle altre almeno vi racconto quel che ho visto."
    Assentii, però prima di andare nell'altra stanza la abbracciai stretta. Non so cosa mi prese. So solo che il mio corpo si mosse in automatico.
    "Ahiii! Areees, ma che fai!?"
    "Non farmi mai più uno scherzo del genere. Rischio già di perdere una persona a me importante, non voglio avere paura di perdere anche te."
    Iuventas ricambiò il mio abbraccio e mormorò un piccolo "scusa".
    "Ti voglio bene peste..."
    "Anch'io scorbutica."
    Sciogliemmo l'abbraccio e sorridemmo, per poi avviarci nell'altra stanza.
    "Vedrai che lo salveremo... Soprattutto perché Bayer è un toccasana per il tuo caratteraccio."
     
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    Roberta
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    :Iuventas:
    Sentivo che stavo scivolando in uno stato di incoscienza sempre più denso… Le Guerriere mi avevano, con non poca fatica, trasportato in una stanzetta tranquilla, che usavano per riposare. Il letto era comodo, ma lo percepii come pieno di spilli. La mia pelle era ricoperta da ferite e contusioni e le mie ossa urlavano pietà. Avevo udito il sonoro crack di ossa spezzate fin troppe volte, al punto da allarmarmi e temere che questa volta non ce l’avrei fatta… Ero terrorizzata dall’abbassare le palpebre, perché ogni volta che provavo ad abbandonarmi a un po’ di agognato riposo, mi tornava alla mente, quell’uomo che non era un uomo, quel gigante assassino che mi aveva ridotto in questo stato pietoso. Chi diamine era? Perché mi aveva quasi uccisa e poi risparmiata? Le sue parole mi rimbombavano nella testa, ma non ero abbastanza lucida per poterle analizzare in questo momento.
    Attraversare quello specchio era stata la cosa più straziante e faticosa che avessi mai dovuto fare. Sentivo ancora il volto premuto contro il freddo vetro, senza possibilità di movimento, sotto i miei occhi i corpi dimessi e deboli di Ezio e Altair, e un dolore accecante che mi aveva “costretto” a passare dall’altra parte. Non avrei voluto tornare, non avrei voluto abbandonare gli Assassini alla loro sciagurata sorte, ma non avevo avuto altra scelta. Quel farabutto sconosciuto mi avrebbe uccisa e Aphrodite non avrebbe mai avuto la possibilità di conoscere le condizioni del suo sposo e le Guerriere non avrebbero avuto gli elementi necessari per organizzare l’ultima parte del piano… E Ares, lei sarebbe morta per la seconda volta, non potevo darle l’ennesimo immenso dispiacere, dopo il distacco da Bayek… Dovevo tornare!!
    Sentii entrare mia sorella con tutto il necessario per le medicazioni. Avevamo una tempra forte e mi sarei ripresa in fretta, a dispetto della sofferenza che il mio corpo stava provando in quel momento. Tentai in ogni modo possibile di camuffare i miei mugugni di dolore, sapevo che Ares era come un vulcano pronto ad esplodere e lo potevo notare dai suoi gesti a scatti e secchi nel riporre gli oggetti, ma che subito dopo tornavano dolci e delicati, al posarsi sul mio corpo. Disinfettò le ferite al volto, all’addome e alla schiena, almeno quelle che ancora sanguinavano e spalmò unguenti miracolosi per lenire il dolore delle contusioni e delle fratture… il riposo assoluto per alcuni giorni sarebbe stato il toccasana ideale, ma dovevamo rimettere insieme i pezzi che erano rimasti del mio corpo affinché potessi tornare sulla Luna, senza dare troppo nell’occhio. Lì, conoscevano tutti il mio temperamento focoso, e non sarebbe stato difficile far passare qualche livido come risultato di un allenamento fin troppo “pesante”.
    Dopo oltre un’ora di medicazioni, fasciature e pomate dall’odore nauseabondo, Ares non aveva ancora spiccicato parola. Il suo silenzio era furente, covava vendetta fin dentro le sue vene, lo potevo sentire. E non era solo quello… io e lei eravamo molto simili e sapevo perfettamente il motivo per il quale si stava lacerando l’anima: il senso di colpa. Secondo il suo pensiero turbato dagli eventi, era lei che mi aveva coinvolta in questa missione, era lei che mi aveva chiesto di venire e di darle una mano, dunque, facendo due più due, non era difficile capire cosa le passava in quella testarda testolina.
    La costrinsi a parlare, a sfogarsi, a buttare fuori ogni più piccola preoccupazione e senso di impotenza. Tentai di tranquillizzarla con ogni mezzo, di farle comprendere che tutto quello che era accaduto non era affatto per colpa sua, che era stata una mia scelta. Avevo accettato di venire sulla Terra mentendo alla mie amiche, avevo accettato di entrare nel Livello 2 dell’Abstergo usando i miei poteri, avevo deciso di andare contro le decisioni che avevamo preso, mettendo a rischio la mia vita e forse anche quella di Ezio e Altair. Nessuno avrebbe dovuto sentirsi responsabile per le decisioni che IO avevo preso.
    Ero stata impulsiva, ma sapevo di potercela fare, se solo non fosse spuntato dal nulla quell’energumeno spacca ossa, forse sarei davvero riuscita salvare lo sposo di Aphordite ed Ezio Auditore. Che stupida ero stata… ci avevo creduto sul serio di poterli portare con me.
    Ma Ares non doveva in alcun modo tirarsi dentro questa storia con chissà quali colpe da espirare, non ero più una bambina, ma un soldato che avrebbe dovuto trattare al pari di tutti gli altri… glie lo avevo fatto notare e con parecchia enfasi anche! Era difficile per lei trattarmi come una guerriera sua pari o almeno come un suo sottoposto, nel suo cuore ero sempre e solo la sua “dolce sorellina”. Adoravo che si prendesse cura di me e che lenisse il dolore delle mie ferite, ma non le avrei permesso di assumersi responsabilità che spettavano solo a me.
    Una volta che ebbe finito con le medicazioni e le fasciature, iniziavo a stare decisamente meglio. Mi alzai mostrando più sicurezza e benessere di quello che provavo, ma non volevo che Ares continuasse a preoccuparsi per me. Inghiottii parecchie imprecazioni per le fitte lancinanti che mi attaccarono la schiena e l’addome, ma le mascherai abilmente dietro un sorriso convinto e la esortai a raggiungere le altre. Volevo raccontagli com’era andata e dare le notizie che fremevano di ottenere da parecchio tempo. Un lampo di mesta tristezza mi attraversò il cuore, per la cocente delusione che gli avrei inflitto. Come avrei potuto guardare negli occhi Aphrodite?
    Ares mi abbracciò e io la ricambiai con immenso affetto.
    “Ti voglio bene peste...”
    ”Anch'io scorbutica… Vedrai che lo salveremo... Soprattutto perché Bayek è un toccasana per il tuo caratteraccio.” L’ironia era l’unico modo per nascondere i miei reali sentimenti. Con il cuore in una morsa ci avviamo per raggiungere le altre.
    Le Guerriere erano in fervida attesa, preoccupate e avvilite per le condizioni penose in cui mi ero presentata a loro, una volta attraversato lo specchio. Non appena mi videro balzarono in piedi all’unisono e mi raggiunsero.
    Sfoggiai il sorriso più rassicurante che riuscii a cavare dalla mia anima e glie lo donai.
    “Tranquille ragazze, ci vuole più di un energumeno incazzato per mettermi ko!” tentai di ironizzare, per poi tornare subito seria e invitarle a sedersi. “Venite, vi racconterò come è andata, magari voi potrete dare un senso a quanto è successo…”
    Ci sedemmo tutte allo stesso tavolo che ci aveva viste preparare il piano per entrare nel Livello 2.
    “Ho vagato a lungo in quei sotterranei. Le stanze erano fredde e impersonali, munite di strani specchi che permettevano di vedere da una sala all’altra senza essere scorti. Come se spiassero i prigionieri. Dopo parecchio tempo, ho visto, al di là di uno di questi strani vetri, Altair ed Ezio. Erano vivi…” precisai guardando Aphrodite che aveva la morte negli occhi e l’ansia che la divorava ogni momento di più.
    “Come stavano?” chiese titubante Pandia, dando voce alle medesime preoccupazioni della Guerriera di Venere.
    “Erano quasi privi di conoscenza e molto deboli…” risposi in un soffio, non potevo nascondergli la verità, ero andata lì per questo. “In quella stanza, a intervalli regolari di pochi secondi si avvicendavano rumori molto forti e luci abbaglianti a intermittenza. Forse per disorientarli. Non potevo continuare a vederli in quello stato, allora ho preso la decisione di attraversare lo specchio e andare a prenderli. Volevo portarli qui come me, ma qualcuno mi ha bloccato da dietro e mi ha scaraventata con un muro…” affermai guardando Aphrodite che si portò una mano alla bocca, reprimendo un singhiozzo. Avrei voluto tanto dirle ad alta voce: “ci ho provato, davvero. Ho fatto di tutto per riportare il tuo sposo da te…” ma non ce l’ho fatta.
    I loro sguardi erano inorriditi e atterriti.
    “Vi risparmio i dettagli sullo scontro, ne avete visto i risultati, ma vi devo dire assolutamente una cosa strana che quel tipo mi ha rivelato…” dissi senza esitazione. Ricordavo ogni singola parola marchiata a fuoco nella mia mente e le ripetei testualmente. “Ha detto: ‘Non ho idea di chi tu sia e, sinceramente, non me ne importa. Una cosa però te la voglio dire, chiunque ti abbia mandata qui… digli di rinunciare. Non c’è alcuna speranza per quegli Assassini, ormai i Devianti li hanno infettati e tutto quello che gli accadrà da ora in poi sarà più terribile della morte. Se non avete intenzione di ucciderli voi stessi, allora considerateli già persi…’ e poi ha aggiunto: ‘Vai via e non tornare. Qui troverai solo nemici e morte!’ Me lo ha ripetuto due volte.” La sensazione di impotenza che avevo provato prima di andare via ancora mi strisciava sotto pelle e la nefasta rivelazione non aveva fatto altro che martellarmi nel cervello.
    “Che cosa significa?” intervenne Ares concitata…
    “In che senso li hanno infettati?” Athena era sconvolta…
    “Moriranno?” chiese Pandia tremante…
    Aphrodite non disse una parola, forse ora poteva dare un senso alle sensazioni di straziante nulla e vuoto dolore che aveva percepito dal suo amato sposo.
    “Ce lo sapresti descrivere? Questo tizio… chi è?” chiese Nike con sguardo perso in pensieri difficili.
    “Mi dispiace ragazze, ma non so rispondere a nessuna delle vostre domande… Scusatemi. Nike, so solo che era alto, capelli castani e con uno sguardo di ghiaccio. Aveva la capacità di smaterializzarsi e ricompattarsi in pochissimi attimi, era come se non fosse concreto, che non fosse reale, ma un ologramma non avrebbe mai potuto fare tanti danni?” dissi mostrando il mio volto con fare eloquente. “Con certezza ricordo che emanava una forza oscura, terrificante… era un Deviante, ma che motivo avrebbe avuto di risparmiarmi la vita e darci queste informazioni, che magari adesso non capiamo, ma che chissà potrebbero esserci utili?” Mi afferrai le tempie con le mani e massaggiai energicamente. Ero riuscita a creare solo ulteriori interrogativi senza portare a nulla di risolutivo. Mi sentivo inutile… “Mi dispiace, ho fatto solo casini… erano lì, a pochissimi metri da me, a tanto così, avrei potuto salvarli…” Ora il panico della sconfitta e la tragicità degli eventi mi stavano sopraffacendo.
    “Tu non preoccuparti di nulla… vai in camera a riposare, sei ancora in pessime condizioni. Penseremo noi al resto, ok?” Ares mi aveva preso una mano e tentava di confortami, ma il senso di colpa era schiacciante.
    “Va bene, se posso ancora fare qualcosa, ditemelo… Non mi tirerò indietro!” affermai con il fuoco negli occhi. Se solo ce lo avessi avuto di nuovo davanti, quel farabutto lo avrei fatto a fettine solo con la forza della collera che mi scorreva dentro.
    Mi ritirai nella stanzetta e mi sdraiai sul letto. Mi sentivo massacrata e ogni osso rotto chiedeva il conto, ma li ignorai. Volevo solo un po’ di pace.
    Dopo pochi minuti udii bussare alla porta e vidi Pandia entrare. Il suo volto era funereo e gli occhi umidi, ma era evidente che volesse celare queste sue emozioni. Ma perché?
    “Possiamo parlare un momento? Te la senti?” mi chiese con un filo di voce.
    Io mi sollevai e mi misi a sedere, facendole cenno di raggiungermi con leggere pacche sul materasso accanto a me. Forse era arrivato il momento di sapere, di capire perché sulla Luna avevamo perso una fidata Guerriera e soprattutto una carissima amica.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 13/7/2020, 17:31
     
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    :Pandia:
    L'oppressione che sentivo sul petto era così devastante che ormai mi rendeva difficile operazioni semplice come respirare o mangiare. Raramente avevo appetito ed ancor meno spesso avevo la lucidità e l'attenzione per pensare ad altro che non fosse la missione.
    Mi sentivo schiacciare da un luogo che non sentivo mio e da una realtà che ancora faticavo ad assorbire. Potevo avere ogni singolo ricordo di quel mondo e delle persone che vi abitavano eppure era come se non sentissi di appartenere a quel luogo, quanto non lo facevo più con quello che ricordavo.
    La solitudine era divenuta la mia compagna e la malinconia la fedele amica che non mi abbandonava mai. C'era voluto un evento tanto improvviso ed inspiegabile come quello per farmi apprezzare cose che davo per scontato: il tempo passato nel loft con le ragazze, i pomeriggi con Selene di chiacchiere e shopping, l'amicizia indissolubile con Thot con tutto l'angst che si era portata dietro, le mie Guerriere con le quali avevamo stretto un rapporto lento ma solido ed infine Ezio. C'era tanto sulla Terra che non riconoscevo e di cui soffrivo terribilmente la mancanza.
    Dov'era Lara? Quell'amica inattesa che senza nemmeno accorgersi era divenuta importate nella mia vita? Dov'erano gli Assassini ed il loro Covo in cui mi piaceva camminare orgogliosa del forte legame tra la mia gente e la loro? Dov'erano i sorrisi, gli abbraccia e le ore passate a fare l'amore con Ezio?
    Faceva male chiudere gli occhi e rivedere quelle scene, viverle e poi scoprire che erano solo sogni sfumati che mai sarebbero tornati. Forse anche per quello ero fuggita, desiderosa di allontanarmi da una casa che non sentivo più mia, insieme a persone che teoricamente conoscevo eppure tenevo distanti e combattendo per il mio stesso cuore con la certezza che fosse infranto.
    Ero sull'orlo della disperazione e della depressione, ogni mattina infatti davanti allo specchio piangevo e mi sforzavo tra le lacrime di sorridere. Non volevo che dai miei occhi trasparisse ciò che provavo e così avevo imparato a fingere. Era stato tuttavia l'arrivo prima di Partenope e poi di Iuventas a riscuotermi.
    La prima, nel suo breve soggiorno, aveva tentato di avvicinarsi a me e nonostante io volessi solo buttarmi tra le sue braccia l'avevo allontanata. Ora però non riuscivo più a trattenermi, sentivo che stavo sprofondando e necessitavo un aiuto. Forse era arrivato di ammetterlo ad alta voce e fare il primo passo.

    “Possiamo parlare un momento? Te la senti?” le chiesi con un filo di voce dopo aver bussato alla stanza di Ares ed essere entrata quasi con timore.
    Iuventas si sollevò e si mise a sedere, facendomi cenno di raggiungerla. Io dal canto mio lo feci sedendomi accanto a lei. Il viso basso e le mani strette l'una all'altra intente a torturarsi tra loro.
    "S-So che forse non vorrai nemmeno ascoltarmi, ma ho bisogno di parlare con qualcuno..." ammisi con voce tremante e mordendomi il labbro inferiore per trattenere le lacrime.
    Non era da me sentirmi così fragile e l'odiavo.
    "S-So che tutti... vi chiedete se sia impazzita o... semplicemente dall'oggi al domani sia diventata un'altra... ed in parte è così..." ammisi sollevando il capo e passandomi una mano sul viso.
    "Non so spiegare lucidamente cosa sia successo, ma... il mondo non era così... ricordo vividamente l'essere stata rapita di Nyx e l'incontro tra lei e Selene... ricordo anche di aver perso i sensi e di essermi risvegliata qui!" raccontai guardandomi intorno, come un'estranea guarda qualcosa che non le appartiene.
    "Da quel giorno, ogni giorno ho tentato di sistemare le cose, convinta che fosse possibile, ma guardando negli occhi di chi avevo intorno ho capito che non lo era... Sai questa realtà non è male in realtà. Mio padre non ha mai cacciato mia madre e me da corte e non ho vissuto di stenti per anni, ho conosciuto voi molto prima e questo ci ha dato modo di creare un'amicizia molto più lunga e solida e Toth non ha mai sofferto per il mio rifiuto nei suoi confronti, ma..."
    “Ti manca quel che avevi... c-come il rapporto con Ezio?” Iuventas era sconvolta eppure si stava sforzando di capire, mentre io assentivo a pezzi.
    "Siamo estranei ed ogni giorno affronto il fatto che quando lo salverò per lui non sarò nulla... E a casa? Quale casa? Io e Selene qui non abbiamo quel rapporto che con sudore e lacrime abbiamo costruito... lei ha la sua famiglia, una che mi odia... non esisto... Mi sento così sola... Ho perso la mia famiglia, ho perso l'amore e non ho potuto dirlo a nessuno per mesi... Con le altre mi sforzo di essere me stessa, ma è difficile... Si chiedono cosa ci faccia qui e quasi nemmeno mi conoscono... non sono le ragazze con cui ho vissuto per mesi... e confidarmi è fuori discussione, hanno già tanto a cui pensare, preoccupazione che pesano sui loro cuori che non hanno bisogno anche di me, ma... inizio a non farcela più... mi sento persa... Non so più chi sono..." portandomi una mano sulla bocca cercavo di calmarmi, perchè mi ero resa conto che avevo iniziato a singhiozzare e a parlare a fatica.
    Il respiro si era accelerato e le lacrime erano così copiose che mi avevano appannato la vista. Non reagì quando Iuventas mi abbracciò, ma rimasi immobile perdendomi nel suo calore.
     
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    Roberta
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    :Iuventas:

    Il mio petto era un tamburo battente e il mio cuore fremeva per conoscere finalmente le ragioni che avevano spinto la mia cara amica ad andare via, a fuggire come se l’unico suo interesse fosse sulla Terra.
    Nell’ultimo periodo prima che partisse era cambiata, assente, diversa. Non era più la ragazza solare e allegra che eravamo abituate a vedere, che accettava i miei dispetti scherzosi e che mi faceva da spalla per organizzarli alle altre. Era più taciturna e silenziosa. Un costante velo di tristezza negli occhi. Non la riconoscevamo più e quando avevamo provato più volte ad avvicinarla per chiedere, capire, sapere, lei ci aveva sempre allontanate, adducendo una scusa assurda: “voi non potete capire”. In quei momenti mi sentivo impotente e neppure la mia proverbiale irruenza era stata in grado di scalfire la corazza che con il tempo e con cura aveva costruito intorno alla sua anima.
    Poi, un giorno è andata via, ci ha detto che sarebbe partita con alle Guerriere Senior per trovare un modo di salvare gli Assassini. E mentre parlava, la sua ansia era palpabile, il suo sconforto infinito, ma allo stesso tempo era determinata a portare a termine quel compito.
    Ares e le altre, così come noi Baby, non avevano compreso il motivo di questa partenza e non avevamo né il potere né la volontà di impedirglielo. Alla fine era andata, lasciando il gruppo, all’inseguimento di un obiettivo che non riuscivamo a condividere, solo perché non lo capivamo fino in fondo.
    Adesso ero felice che Pandia fosse venuta da me per parlare. Sebbene avessi tante domande da porle, imposi alla mia impulsività di tacere, non era il mio momento.
    La ascoltai in silenzio, come fa un confessore più che un’amica, ma non mi sarei mai aspettata la mole di disperazione che come una valanga mi travolse.
    “S-So che forse non vorrai nemmeno ascoltarmi, ma ho bisogno di parlare con qualcuno... S-So che tutti... vi chiedete se sia impazzita o… semplicemente dall'oggi al domani sia diventata un'altra... ed in parte è così...” iniziò mormorando in un soffio, a spezzoni, come se le mancasse il coraggio, o meglio ancora la forza di potersi finalmente aprire con me.
    “Non so spiegare lucidamente cosa sia successo, ma... il mondo non era così... ricordo vividamente l'essere stata rapita di Nyx e l'incontro tra lei e Selene... ricordo anche di aver perso i sensi e di essermi risvegliata qui!” Le sue parole non avevano molto senso per me, conoscevo Nyx come regina dei Devianti e acerrima nemica di noi Eterni, ma nulla di più… Parlava di incontri e mondi alla rovescia. Forse per lei era davvero cambiato tutto e noi non ce n’eravamo rese conto.
    “Da quel giorno, ogni giorno ho tentato di sistemare le cose, convinta che fosse possibile, ma guardando negli occhi di chi avevo intorno ho capito che non lo era... Sai questa realtà non è male in realtà. Mio padre non ha mai cacciato mia madre e me da corte e non ho vissuto di stenti per anni, ho conosciuto voi molto prima e questo ci ha dato modo di creare un'amicizia molto più lunga e solida e Toth non ha mai sofferto per il mio rifiuto nei suoi confronti, ma...”
    Una sottile lama di consapevolezza mi attraversò la mente e mi fece collegare ogni suo atteggiamento e la sua decisione di voler raggiungere gli Assassini sulla Terra. Il suo universo, non avevo ben capito come, si era capovolto e tutte le relazioni che aveva intessuto negli anni, si erano sgretolare e rimescolate. Aveva perso ogni certezza, ma solo una la teneva ancora a galla, la teneva ancora viva: un fortissimo sentimento verso colui che amava.
    “Ti manca quel che avevi... c-come il rapporto con Ezio?” dissi con flebile convinzione. Ero certa delle mie deduzioni, ma non volevo rischiare di rompere quel fragile legame che si stava lentamente ricucendo tra noi. Non volevo si richiudesse di nuovo a riccio, impedendomi di vedere le sue emozioni e impedendomi di aiutarla. Lei, per fortuna, non si fece distrarre dalla mia interruzione, al contrario, la utilizzò come trampolino di lancio verso una nuova cascata di confessioni.
    “Siamo estranei ed ogni giorno affronto il fatto che quando lo salverò per lui non sarò nulla... E a casa? Quale casa? Io e Selene qui non abbiamo quel rapporto che con sudore e lacrime abbiamo costruito... lei ha la sua famiglia, una che mi odia... non esisto... Mi sento così sola... Ho perso la mia famiglia, ho perso l'amore e non ho potuto dirlo a nessuno per mesi... Con le altre mi sforzo di essere me stessa, ma è difficile... Si chiedono cosa ci faccia qui e quasi nemmeno mi conoscono... non sono le ragazze con cui ho vissuto per mesi... e confidarmi è fuori discussione, hanno già tanto a cui pensare, preoccupazioni che pesano sui loro cuori che non hanno bisogno anche di me, ma... inizio a non farcela più... mi sento persa... Non so più chi sono...”
    Non avevo osato interromperla di nuovo, volevo buttasse fuori ogni sua incertezza, ogni suo dolore, ogni suo cedimento. Solo comprendendo a pieno il suo stato d’animo, avrei potuto sperare di fare qualcosa di concreto per lei.
    L’avvolsi in un caldo abbraccio, che non ricambiò. Rimase stretta a me a torturarsi le mani in grembo e singhiozzando disperata.
    Avevo un magone in gola che, in un primo momento, mi aveva quasi impedito di prendere la parola, ma serviva qualcosa di più della commozione per frenare il fiume in piena dei miei pensieri.
    La scostai da me quel tanto che bastò per guardarla dritta negli occhi…
    “Non credo di poter comprendere a pieno le sensazioni che stai vivendo, e neanche le motivazioni, ma quello che so è che questa cosa ti sta lentamente uccidendo. Non puoi consentire a queste emozioni di distruggerti l’anima, soprattutto perché, ascoltami bene: tu non sei sola!” dissi con solenne chiarezza. “Tu pensi che il mondo abbia sovvertito le sue regole, che le persone che un tempo conoscevi non siano più le stesse, che possiedi ricordi edulcorati e non veritieri, i quali si mescolano con quelli più vividi che ti dilaniano il cuore. Ti credo! Nonostante non sappia come sia potuto succedere, ti credo! Perché so che tu non menti mai, perché ti conosco da troppi anni per poter mettere in discussione ciò che provi, ciò che sai. Nonostante tutto, però, devi capire una cosa molto importante. Magari non sarò la stessa Iuventas che ricordi, magari le altre baby guerriere non saranno le stesse con le quali hai condiviso il tuo mondo di prima, ma sappi che per noi tu resti sempre la stessa Pandia!” feci una piccola pausa, solo per riprendere fiato, non avevo ancora finito. “Con te abbiamo passato momenti felici e momenti dolorosi, l’addestramento, le missioni e l’affiatamento che ci ha legato e che ancora ci lega, se guardi un po’ più a fondo. Noi non siamo cambiate, ti vogliamo bene e qualsiasi cosa tu voglia fare, saremo sempre al tuo fianco.”
    “Ma io… non so cosa fare!” mi rispose con la voce ancora impastata dalle lacrime anche se aveva smesso di singhiozzare.
    “Allora non fare nulla adesso. Pensa, vivi, sii te stessa, quella che ricordi, e fregatene di tutto il resto. Agirai come meglio credi quando sarai pronta. Non c’è nessuna fretta. Noi saremo sempre lì ad aspettarti” la tranquillizzai con il timbro più rassicurante che riuscii a scovare.
    La vidi annuire, sempre più convinta, ma potevo ancora scorgere la spina malefica che aveva conficcata nel cuore.
    “Per quanto riguarda Ezio Auditore…” Notai il suo fremere di ansia e di paura. Mi prese una mano e me la strinse forte.
    “Io lo amo…” disse con una nuova ondata di pianto bloccata in gola.
    “Beh, su questo fronte, mi trovi del tutto impreparata” risposi sorridendo appena per tentare di alleggerire l’atmosfera. “Non ho idea di che tipo di relazione abbiate e se lui si ricordi come te di questo amore folle che vi legava nel tuo mondo, ma sono certa di una cosa: se ti avrà dimenticata, non ci vorrà molto per fargli tornare la memoria!” affermai sorridendo e sollevandole il mento con due dita continuai: “gli basterà guardarti negli occhi per capire chi sei e quanto amore gli porti in dono. Lo salveremo, Pandia! Te lo prometto! E quando sarà proprio davanti a te, lui saprà tutto, vedrai!”
    “Come fai a dirlo?” mi chiese con una piccola e flebile speranza nel cuore. Non avrei mai voluto illuderla, ma in quel momento, sentivo la certezza serpeggiare nelle mie vene.
    “Lo so perché quando si provano sentimenti tanto forti, che ti tolgono il respiro e ti impediscono quasi di vivere, il destino non può rimanere lì a guardare. Deve pur fare qualcosa per sdebitarsi dopo averti subissato di così tante sofferenze no?” Le sorrisi con calore.
    “E se non dovesse essere così?” Il dubbio, come era ovvio che fosse, la stava attanagliando.
    “In quel caso, fammi un fischio che ti aiuto a prendere a calci questo destino e poi ti accompagno a riprenderti il tuo Ezio! Intesi?!”
    Un lieve sorriso affiorò sul suo viso umido di lacrime.
    “Grazie Iuventas, sapevo che con te avrei potuto sfogarmi un po’…” disse con aria mesta, ma un po’ più tranquilla.
    “Non c’è di che, ma anche quando non ci sarò, credo che dovresti provare ad appoggiarti alle Guerriere Senior. Dovresti dargli una possibilità. Anche loro, come noi, non hanno idea del perché tu sia qui ed è normale che si sentano disorientate. Tu non tagliarle fuori, ok?” affermai convinta. Ero certa che Aphrodite e le altre non avrebbero mai potuto lasciarla da parte, se solo avessero compreso il suo reale stato d’animo.
    “Ma loro hanno così tanti problemi a cui pensare…” protestò debolmente.
    “Tu non sei e non sarai mai un problema aggiunto, Pandia! Sei entrata a far parte del loro gruppo, state collaborando per qualcosa che sta a cuore a tutte. Non puoi tirarti fuori perché non vuoi essere di peso. Con loro funziona come tra di noi. Si gioisce e si soffre insieme! È così che si fa… ricordalo sempre!”
    L’abbracciai forte, come non avevo mai fatto con lei, né con le altre. Raramente mi lasciavo andare a simili “smancerie”, preferivo una pacca sulla spalla o un adorabile dispetto, ma con lei, in quel momento, sentivo il bisogno di tenerla stretta stretta. Lei ricambiò con vigore questa volta e io ne fui felice.
    “E se qualcosa va storto, ricordati di farmi un fischio! Una promessa è una promessa!”


    Edited by SydneyD - 14/7/2020, 09:40
     
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    :Aphrodite:
    Un altro giorno era passato. Altro tempo passato a farmi le solite domande: quando avrei potuto avere Altair di nuovo al mio fianco, quando avrei di nuovo potuto fare l'amore con lui? Perché era solo su quello che gravitavano i miei pensieri: lui, il suo corpo, la sua voce, i suoi baci, la sua pelle, il suo profumo.
    Il piano che stavamo concretizzando pezzo per pezzo era un mostro insensibile, che continuava a chiedere, a pretendere, e non era mai pronto per essere usato. Ormai quasi evitavo le altre guerriere, era troppo per tutte noi la continua tensione che si creava quando eravamo insieme: da una parte la razionalità di Athena, dall'altra l'impazienza mia potevano fare scintille che diventavano fuoco vicino ad un cumulo di fieno. Solo per discutere alcuni particolari o nuove notizie mi univo a loro, come il giorno precedente: Iuventas era tornata dalla sua parte di missione che più malconcia di così non avrebbe potuto. Solo un miracolo e la sua costituzione marziana la avevano salvata.
    Quando aveva raccontato la situazione degli Assassini, avevo cercato di usare un po' di sensibilità, ripetendomi che anche le altre avevano i loro amati in mano dei Devianti, ma non avevo potuto fare a meno di pensare solo al mio amore. Era lui ad essere finito nel settore più pericoloso della prigione, lui che veniva torturato, che era stato avvelenato per compiere esperimenti aberranti.
    E quando avevo saputo dove lo tenevano, in quali condizioni lo avevano ridotto, quando avevo sentito le parole che lo condannavano, avevo temuto di crollare vergognosamente. Ero una Contessa, la Guerriera a protezione del suo pianeta, ma ero, prima di tutto, venusiana: anche solo la minaccia di perdere la propria anima gemella equivaleva ad una sofferenza indicibile, che non si poteva paragonare a nulla. Neanche se mi avessero smembrata viva avrei provato una simile, atroce sofferenza. Era la nostra maledizione.
    Strinsi talmente tanto i pugni che le unghie non si limitarono a lasciare segni rossi sui miei palmi, li trafissero, e il sangue macchiò i miei vestiti eleganti. Nascosi la mia reazione a tutte le altre, tamponando le macchie vermiglie con la sciarpa che portavo al collo, e appena Iuventas andò a riposare, stanca e affranta, mi dileguai anche io, come al solito.
    Mi rifugiai sul tetto del palazzo in cui avevamo trovato rifugio e lì passai tutta la notte, una delle innumerevoli che avevo trascorso insonne, impossibilitata a dormire dal dolore che non mi abbandonava mai.
    Sotto una tegola staccata recuperai le sigarette che fumavo senza controllo, compulsivamente, una dietro l'altra, di nascosto da tutte, anche da me stessa. Il fumo mi lasciava un sapore amaro in bocca, rovinava la mia pelle che stava perdendo la sua luminosità e perfezione, ma tutto questo mi lasciava indifferente.
    Vivevo in uno stato di perenne delirio, dove i ricordi della mia vita felice con lui si alternavano alle paure di dover passare ancora un altro giorno senza il suo amore.
    Al mio strazio si aggiungeva la confusione, la sofferenza che sentivo provenire da Altair, ma anche se il fardello da sopportare era molto più gravoso, almeno avevo nuovamente un contatto con lui, e non il vuoto orrendo che mi lasciava senza fiato, senza forze, orribile anche solo da concepire, dei giorni passati. Cosa era successo in quel periodo, che aveva reciso il nostro prezioso e unico legame? Forse gli avevano iniettato delle droghe che lo avevano reso incosciente, forse qualcosa d'altro aveva interrotto il nostro legame. Dovevo sapere.
    Il cielo si era scurito poco alla volta, aveva mostrato le stelle lontane come un manto tempestato di pietre preziose. Venere, casa mia, brillava particolarmente quella notte, ma il mio cuore non era lì. Il mio cuore era ad un passo dalla tomba. Tutto sembrava procedere così normalmente, mentre io morivo ogni secondo di più. Non era giusto, tutto questo. La rabbia era l'unico fuoco che ancora mi teneva calda. Era la sua forza a farmi andare avanti, unita alla speranza sempre più flebile di potermi scaldare di nuovo tra le sue braccia forti.
    Con il passare delle ore, il cielo cominciò a scolorare, e la luce lo fece ingrigire poco alla volta. Un nuovo giorno stava iniziando. Mi alzai per tornare nel piccolo, soffocante appartamento che dividevo con le mie amiche. Non potevamo più aspettare, non volevo più farlo. Erano mesi che cercavo di essere paziente, ma ora non era più il tempo.
     
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    Roberta
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    :Nike:
    Dolore, annientamento, sete di vendetta erano i sentimenti che albergavano nel mio petto e raschiavano la mia anima senza pietà. Ma nonostante mi stesse lacerando dall’interno, io le avevo tenute sotto chiave e le avevo relegate in una voluminosa sacca emotiva, nella quale avevo ingabbiato ogni singola emozione nefasta. Esibendo fieramente, al contrario, una maschera di fermo autocontrollo e regale giudizio.
    Tutte noi conoscevamo alla perfezione la sofferenza che provavano le altre, perché era semplicemente la medesima. Stesso strazio e senso di mancamento, di vuoto e di precipizio. Eravamo nulla lontane dai nostri sposi, solo che ognuna di noi, vittima del proprio temperamento dimostrava questa vitale assenza di ossigeno in maniera diversa.
    Ares era una fiera in gabbia, che sbraitava ogni volta le scoppiava il cuore; Athena mascherava il suo senso di impotenza con arguzia e voglia di creare, di fare, ingegnandosi per qualsiasi cosa avessimo in ballo; Aphrodite era sull’orlo di un burrone, uno strapiombo insidioso, pressoché mortale, e da quando aveva recuperato il legame interiore con Altair, sembrava barcollare sempre di più, pronta a precipitare da un momento all’altro; Pandia era lì con noi, e non avevo ben capito il motivo. Si era offerta di seguirci e di aiutarci in quella strabiliante impresa, senza dare alcuna spiegazione logica. Non avevo avuto modo di chiedere e di approfondire la cosa, ma avevo studiato le sue reazioni e i suoi atteggiamenti. C’era qualcosa sotto il suo strato di voluta indifferenza, che celava anche piuttosto male, qualcosa che ancora non ci era dato sapere, ma che ero certa avrebbe presto sottoposto alla nostra attenzione, non avrebbe retto a lungo questa farsa: lei ed Ezio Auditore erano legati in qualche modo, ma non avevo capito come. La conferma l’avevo avuta quando Partenope era giunta con la ferale notizia dello spostamento di Ezio e Altair al Livello 2.
    Concentrarmi sulle reazioni e sulle occupazioni delle altre, mi aiutava a non impazzire. Il Giudice Supremo non avrebbe dovuto provare incertezza, la Guerriera di Giove non avrebbe dovuto dimostrarsi debole, e così la maschera era ben posizionata sul mio volto.
    Dopo l’arrivo di Iuventas, nelle condizioni pietose in cui era apparsa, quella stessa corazza aveva cominciato a incrinarsi e a mostrare piccolissime crepe, che nessuno poteva vedere ancora, ma che avrei dovuto celare con maggiore veemenza.
    Conoscere le condizioni in cui tenevano gli Assassini al Livello 2 e sapere della loro sorte “segnata” aveva fatto scattare un campanello d’allarme che non voleva smettere di martellare nella mia testa e nel mio petto. Sebbene Altair ed Ezio fossero in imminente pericolo di morte, non riuscivo a non pensare che in qualsiasi momento, anche tutti gli altri avrebbero potuto presto trovarsi nelle medesime circostanze.
    Mi sentii trafiggere il cuore e dovetti allontanarmi in una stanzetta che usavo per riposare per non boccheggiare di fronte a tutte le altre.
    Edward… ne avevamo passate tante, troppe, anche per poter solo immaginare di non averlo più tra le braccia, per sentire il suo calore, il suo profumo speziato, per disegnare con le dita i contorni dei tatuaggi che gli marchiavano il corpo, per incastonare i mie occhi smeraldo nei suoi blu oceano. Quanto mi mancava il suo sorriso, il suo carattere strafottente e scontroso che solo io ero in grado di dominare…
    Lui è con me, dentro di me e parte di me. Se lui fosse morto lontano dalla mia presenza, io non avrei perso la vita, ma avrei senz’altro, consegnato alle sue spoglie un pezzo essenziale della mia anima: la mia capacità di amare. Solo lui e senza di lui il nulla!
    Mi ero rannicchiata con la schiena alla parete e le ginocchia tirate al petto.
    Avrei voluto crollare, urlare al mondo intero quanto ero sfinita, quanto ero mortificata dal tempo che passava, quanto ero annichilita dalla lentezza con la quale il nostro piano si dipanava, quanto ero terrorizzata dalle notizie aberranti che ricevevamo in cambio del nostro instancabile lavoro. Non era abbastanza, non era mai sufficiente il nostro sforzo di fronte alla nostra volontà di reagire e di agire.
    Era troppo tempo che io e le altre Guerriere eravamo rinchiuse in quel maledetto appartamento, braccate, recluse come delinquenti, impossibilitate a muoverci come avremmo voluto. I Devianti erano una potenza non comune e con mezzi non comuni avevamo deciso di affrontarli e distruggerli. Fino al momento avevamo concretizzato una strategia ineccepibile e sebbene mi e ci sembrasse “troppo lenta” era il meglio che potevamo fare per poter penetrare in quella fortezza senza eguali e trarre in salvo i nostri sposi. Il sangue del nostro sangue, anche se non erano Eterni.
    Ma era il momento di reagire. Nonostante il dolore fosse lì, sempre in agguato dietro l’angolo del petto, non potevo restare immobile di fronte al pericolo, di fronte all’ingiustizia. Avrei compresso la mia sofferenza e messa al sicuro, dove solo io avrei potuto inspirarla e toccarla.
    Le altre Guerriere, mie sorelle avrebbero visto solo forza e determinazione nei miei occhi. Non era ancora finita, non avevano ancora vinto ed io non ero intenzionata a lasciare nelle loro mani la partita che coinvolgeva i nostri cuori e i nostri amori.
    Mi alzai di scatto e mi guardai al piccolo specchio che era posato sul comodino. Non vi erano lacrime sul mio volto, nonostante mi fosse sembrato di aver liberato una cascata di emozioni. Potevo scorgere solo una grande fermezza e decisione.
    “Edward, non temere. Verrò a salvarti, di nuovo! E tu, per l’ennesima volta dovrai dirmi grazie e baciarmi con passione fino a scordare il tuo nome. Sei mio e lo sarai sempre!”
    Uscii dalla stanza con passo marziale, per dirigermi in un posto in particolare, con un idea balzana in testa e che solo lei avrebbe potuto mettere a frutto nel migliore dei modi.
    Entrai nella camera di Athena, rubando l’irruenza di Iuventas. Subito dopo mi diedi un contegno e tossicchiai per manifestare la mia presenza, ormai del tutto nota alla mia interlocutrice. Si trovava alla sua piccola scrivania, immersa nei suoi pensieri.
    “Perdonami se entro con così poca grazia, ma ho bisogno di parlare con te. È molto importante!” dissi con un’urgenza pregnante nella voce.
    “Lascia perdere le buone maniere e vieni qui. Dimmi tutto…” rispose la mia cara amica, conscia che non avrei mai disturbato il suo flusso di riflessioni per qualcosa di poco conto. Sapevo bene quanto adorava rinchiudersi nel suo modo e odiava interruzioni esterne.
    “Ok… le notizie che Iuventas ci ha portato sono sconcertanti. Siamo tutti d’accordo su questo. Ma se Ezio e Altair rimangono separati dal resto degli Assassini, non saremo mai in grado di poter attuare il piano che abbiamo congeniato con tanta precisione. E aspettare oltre, senza sapere quali potrebbero essere le conseguenze, credo che ci porterebbe tutte alla follia o a morire di crepa cuore” dissi con ostentata convinzione, pensando improvvisamente ad Aphrodite e rispecchiandomi nelle sue emozioni.
    “Potremmo apportare delle modifiche alla nostra strategia…”
    “Non c’è tempo, Athena. Se il futuro di Altair ed Ezio ad Livello 2 è segnato, potrebbero non avere altre chance di essere salvati. Non avremmo tempo sufficiente per modificare il piano e includere una spedizione di salvataggio su due fronti. C’è solo un modo…”
    “Avanti, dimmi…” mi incalzò Athena, sempre più attenta.
    “Dobbiamo riportare Ezio e Altair al Livello 1, insieme a tutti gli altri. Solo lì potremo agire secondo il progetto originario e assicurarci la buona riuscita della missione. Solo che, non ho idea di come fare, per questo mi sto rimettendo alla tua mente super geniale.” Parlai con un lieve sorriso dipinto sulle labbra, stringendole la spalla, fiduciosa che insieme avremmo potuto trovare una soluzione per i nostri scopi.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 20/7/2020, 18:50
     
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