Present Day #2020/#2021: Earth, Mandalore & Core

Season 6

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    Love GDR

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    Cristina
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    I primi Devianti lo chiamarono "The Harvest". Il giorno in cui l'umanità aveva visto il corso del destino cambiare e la vita sulla Terra prendere una piega inaspettata.
    Era un racconto della buonanotte che si tramandava di genitore in figlio, da quei primi Devianti, fino ad oggi. Non c'era stato subito l'Impero né tanto meno l'organizzazione mondiale che oggi impregnava ogni settore politico e sociale, ma solo un grande caos.
    I governi si erano mossi come una crisi come quella avrebbe imposto fare, cercando di dare un senso al tutto. A mettere ordine. Tuttavia erano solo tentoni alla cieca di chi non aveva la minima idea di cosa stava succedendo.
    L'ondata scaturita da colei che veniva definita una Dea, il giorno dell'omicidio di Adolf Hitler, aveva causato reazioni opposte. Alcune persone erano state avvolte in bozzoli da cui, una volta usciti, si scoprirono trasformati. Altri erano semplicemente morti sul colpo, divenute statue di pietra poi dissolte in cenere.
    Nessuno era stato risparmiato, tutti i ceti sociali, le età, le razze, i sessi... tutti ne erano stati colpiti e chi era riuscito a scamparla, in un modo o nell'altro, sopravviveva con un bisogno sempre più pressante di cibo, riparo, aiuto medico e psicologico.
    Solo nella prima settimana, solo negli Stati Uniti, si contarono all'incirca tra i 15.000 e i 20.000 Devianti, ma il fenomeno si diffuse in tutto il mondo e dopo un mese i Devianti furono già centinaia di migliaia.
    Più questo accadeva e più le divisioni si fecero nette, con gli umani sopravvissuti e non trasformati che fuggivano verso le campagne, mentre i Devianti al potere, quelli più vicini alla Dea, che si imponevano.
    Nel giro di un anno il mondo era diviso da un muro invisibile.
    Il Regime Deviante diventò l'unica forma di governo dove la Gran Madre, colei che era stata sempre chiamata Dea, divenne l'unica forma di religione esistente.
    Tutti gli ordini ecclesiastici vennero soppressi ed al loro posto tutte le chiese vennero trasformate in Templi in cui venerarla. Chi voleva seguire la via ecclesiastica poteva diventare sacerdote o sacerdotessa, mentre l'unica religione insegnata era quella del Pantheon celeste con i Celestiali, gli Antichi e l'eterna lotta tra Devianti ed Eterni ove veniva insegnato che i primi erano le vittime gloriose e i secondi i villani boriosi.
    Lo stato sociale si basava sulla biologia razziale per cui tutti gli umani vennero cacciati e non accettati come membri della società, venendo costretti così alla fuga ed ad una vita da perseguitati. Vivevano nascosti ed in povertà lontani dai grandi centri abitati.
    Al contrario ad ogni Deviante venne assicurato un posto di lavoro fisso ed uno stile di vita più che dignitoso. La sanità fece passi da gigante e l'istruzione puntava all'inserimento dei giovani, tutti prontamente addestrati e con un'ottima forma fisica, in una delle 4 caste in cui era suddivisa la società: soldati, scienziati, viaggiatori o i saggi.
    Alle donne veniva data parità di scelta e possibilità in tali settori, ma era ancora una società particolarmente patriarcale infatti se le stesse si sposavano venivano spinte ad abbracciare il loro ruolo e come tale riconoscere come unico mondo il proprio marito, la famiglia, i bambini e la casa.

    Provenendo da una famiglia totalmente Deviante, all'epoca del "The Harvest" non avevamo subito perdite come tante altre, e dunque ero cresciuta con tali ideali senza troppe remore.
    Mia nonna era stata tra le prime donne a riuscire ad entrare nella casta degli scienziati, mia madre per un periodo era stata una viaggiatrice e poi una volta spostatosi con mio padre aveva impegnato tutta la sua vita a crescere me e i miei otto fratelli.
    Nel tempo Saturno era divenuto il pianeta ufficiale di noi Devianti e la Terra solo una colonia seppur essendo dove tutto era nato la famiglia Imperiale passava la maggior parte del suo tempo proprio lì.
    Io invece ero nata su Saturno, ero cresciuta su Saturno ed avevo impiegato tutta la mia vita a mostrare che donna forte ed intelligente fossi. Fin da bambina ero stata la prima della classe con ottimi voti. Eccellevo nello sport. Ed all'università mi ero impegnata per entrar a far parte della casta dei saggi. Il mio sogno era studiare, studiare, studiare e studiare. Conoscere sempre più e far di ciò il pilastro della mia esistenza.
    Non avevo grande interesse a sposarmi, ma la mia famiglia aveva altre idee, essendo io l'unica femmina. Hans era un tenente colonnello giovane e dotato. Il pupillo di mio padre. Non mi fu nemmeno chiesto, molto semplicemente venni promessa a lui e a 23 anni fui costretta a sposarlo e con lui trasferirmi sulla Terra.
    Da quel giorno non vidi più la mia famiglia, che trovava giusto il mio dovervi dedicare unicamente ad Hans. Lui non volle in alcun modo che io proseguissi i miei studi, né tanto meno che lavorassi. Il mio unico impegno ora sarebbe stata la casa e lui.
    La mia cecità mi aveva fatto accettare la situazione, ma sotto la pelle sentivo la mia voglia di conoscere e ribellarmi a ciò. Lui non voleva che leggessi e così io compravo i libri e li leggevo di nascosto assicurandomi che lui non lo sapesse. Lui non voleva che uscissi a meno che non fosse per compere essenziali, ed io approfittavo di quei momenti per spingermi lì dove non avrei dovuto. Biblioteche, circoli culturali e negli ultimi anni perfino il mercato centrale.
    Non era ben visto, si chiamava così, ma si trovava verso la periferia. Era famoso per nascondere, dietro molte delle sue bancarelle apparentemente normali, in realtà umani che si fingevano Devianti e che così potendo stare in città fomentavano la Resistenza attraverso informazioni e tutto ciò che avrebbe potuto essere utile.
    Mi era stato insegnato che tutto ciò era il male, ma senza entrarci direttamente in contatto, avevo studiato da lontano il tutto e la mia voglia di conoscere mi aveva solo portato con gli anni a riflettere e capire quanto tutto ciò in cui avevo sempre creduto fosse sbagliato.
    La mia famiglia era stata privilegiata e questo non l'aveva mai portato a soffermarsi su tutto ciò che davvero significava la società in cui vivevamo. Ne avevano preso solo gli aspetti migliori: una lunga vita (mia nonna appariva a malapena poco più grande di mia madre che sembrava mia coetanea), una salute forte ed una grande resistenza, una posizione in società invidiabile, il successo, le feste, la libertà... ma se fossimo stati umani? Tutto ci sarebbe stato negato e perchè? Per biologia!
    Questo mi aveva portato a cercare informazioni, reali, sugli Eterni e le altre razze e pianeti della galassia. Mi aveva portato a studiare la cultura, la storia, l'arte e la letteratura della Terra prima dell'Impero Deviante ed ero rimasta affascinata a leggere quei libri proibiti che solo al mercato centrale trovavo.
    Con il passare degli anni divenne sempre più difficile accettare la mia vita, accettare ciò che accadeva senza batter ciglio e quando Hans venne coinvolto nel Progetto Abstergo quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Trovai il coraggio e lo affrontai, credendo di essere abbastanza forte, ma mi sbagliavo. Da quel giorno iniziò l'incubo.

    Lui che già mi accusava di essere incapace di dargli dei figli, di essere una debole ed inutile, iniziò a picchiarmi. Iniziò a farmi pesare il suo ruolo a dispetto del mio ed io subivo, ma non lo facevo in silenzio. Dopo ogni livido imparavo qualcosa di nuovo ed al mercato centrale, osservando di nascosto alcuni incontri clandestini, iniziai ad imparare l'arte dell'auto difesa e dello sparare. Certo non era un granché osservava da lontano e ripetere da sola i gesti, ma almeno così ero riuscita quanto meno ogni tanto a lasciargli anche io dei segni sulla pelle quando mi metteva le mani addosso seppur ero ancora lungi d'averla vinta su di lui. Ma ero paziente ed avevo ormai fatto della mia pazienza la mia virtù.
    Ciò che non mi sarei mai aspettata fu divenire, dall'oggi al domani, vedova. Quando bussando alla porta avevo trovato niente di meno che mio padre e mia madre, ero rimasta scioccata. Erano così affranti che per un momento mi preoccupai, ma quando mi dissero della morte di Hans dovetti a stento controllare la felicità.
    Mio padre mi aveva avvisato che era stato aggredito già nei giorni addietro e non mi aveva detto nulla per non preoccuparmi, ma... purtroppo era perito nella missione punitiva che aveva guidato contro chi aveva osato affrontarlo. Parlava di come fosse colpa degli umani, dei loro alleati, di come la Resistenza fosse subdola e mentre mia mamma mi accarezzava la schiena piangendo quasi più di me, io nascondevo il viso dietro il fazzoletto sospirando. Che finalmente le mie preghiere fossero state ascoltate?
    D'istinto strinsi il medaglione che portavo al collo. Una delle poche cose del mio passato che Hans mi aveva permesso di non buttare. Ci ero affezionata perchè me lo aveva regalato Ezra, il mio fratellino. In realtà era più grande di me, ma era l'ultimo degli altri miei fratelli maschi. Lui già prima di me aveva notato ed appreso quanto di sbagliato c'era in quel mondo e così regalandomi quel medaglione mi aveva fatto promettere di credere sempre in me stessa e di lasciare che solo la mia mente fosse sempre e solo ciò che avrei ascoltato, insieme al mio cuore.
    Ci eravamo separati prima di quanto avrei voluto, lui mi aveva raccontato di un ordine ed di un Credo a cui aveva giurato, lo stesso per cui morì. Quando dunque seppi che Hans aveva voluto farsi assegnare proprio all'Abstergo, ove si "occupavano" degli Assassini, capì quanto crudele fosse. Quanto volle silenziosamente mettere il dito nella piaga e gioire del mio dolore più di quanto faceva quando mi picchiava.
    I miei genitori decisero di fermarsi a casa mia per un settimana, volevano a tutti i costi aiutarmi per il glorioso funerale, tutte cose a cui non ero interessata, ma con la scusa del lutto potevo chiedere dei momenti per star sola o uscire a prendere aria e loro me li concedevano senza far domande.
    Fu in uno di quei giorni che, lontana da occhi indiscreti, mi tolsi il velo nero che ero obbligata ad indossare e buttandolo a terra chiusi gli occhi con il capo rivolto al cielo. Respiravo a pieni polmoni sentendomi leggera e felice, mentre stringendo il medaglione tra le dita sottili immaginavo il volto sorridente di Ezra di fronte a me.
    Lo vedevo fiero, mentre mi ripromettevo di non deluderlo più. D'ora in poi di combattere per ciò in cui credevo davvero.
    "Essere un Deviante non definisce chi siamo Omera, lo fa le scelte che facciamo" mi ricordò, mentre mi parve quasi sentire la sua voce. Fu un solo momento però perchè improvvisamente una mano guantata si posò sulla mia bocca, il tempo di tentare di reagire dimenandomi ed urlando che qualcosa mi fece perdere i sensi.

    Non seppi per quanto avevo dormito, seppi solo che quando riaprì gli occhi la testa mi doleva leggermente. Appoggiai una mano sulla fronte e me l'accarezzai, guardandomi intorno. La vista era appannata, ma la luce era fioca e l'ambiente prettamente metallico. Tentai di mettermi seduta, ma rinunciai quando tutto si fece ancor più confuso. Rimasi immobile respirando affannosamente, mentre un rumore di passi mi mise in allerta. Erano forse di chi mi aveva rapita?
     
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    Annarita
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    Vedere il profilo della Terra comparire oltre il vetro della Rezor Crest fu una specie di epifania. I suoi colori erano davvero ipnotizzanti e non mi capitava di andarci spesso, anzi erano decenni che non vi mettevo piede. Quando uno dei capi della Resistenza Umana in persona mi aveva ingaggiato per un lavoro – in apparenza semplice, ma che il mio istinto declamava piuttosto complesso – ero rimasto sbigottito. I terrestri non si muovevano molto dal loro pianeta, a maggior ragione se facenti parte di fazioni ribelli ricercati dal Governo vigente. Per venire a cercare un Mandaloriano, promettendo addirittura un pagamento molto prezioso, le informazioni che volevano decriptare dovevano essere quantomeno fondamentali per una importante rivalsa. Perciò, non avevo creduto a molte delle cose che mi erano state dette dai mandatari. Nessuna missione pagata in Nth poteva considerarsi priva di rischi… ma questo a loro non lo avevo detto. Non parlavo molto, mi piacevano di più i fatti. Così avevo accettato l’incarico, la ricompensa sarebbe tornata molto utile per i nostri trovatelli, ma dovevo anche ammettere che l’idea di andare sulla Terra dopo tanti anni aveva giocato un ruolo cruciale.
    Simili alla Terra, esistevano centinaia di pianeti nella galassia, ma il pianeta blu riusciva sempre a esercitare un magnetismo tutto suo, speciale, unico… almeno su di me… ma forse non ero il solo.
    Stavo per giungere al piccolo spazioporto gestito dalla Resistenza, con la modalità Stealth sarei riuscito ad atterrare senza allertare i radar ufficiali. Nel mentre, avevo raccolto notizie riguardanti il mio obiettivo, il Governo di cui era un alto Gerarca, sul popolo dei Devianti… che da tempo aveva imposto la propria dittatura. I terrestri umani erano stati quindi costretti a una vita clandestina, ma anche un’altra fazione era stata cacciata e reclusa come si fa con le bestie feroci: gli Assassini, una Confraternita che combatteva per difendere il libero arbitrio. Non erano tutti umani, alcuni di loro erano degli Ibridi e quest’ultimi erano stati fatti oggetto di esperimenti aberranti. La Resistenza mi aveva dato tutti i dettagli e le informazioni che doveva decodificare provenivano proprio dalla famosa prigione Abstergo. Di tale progetto, Hans Schulz era stato un forte sostenitore, vicinissimo ai pezzi grossi della catena di comando, unico detentore della chiave di lettura dei documenti criptati più importanti. L’Abstergo però era stata chiusa da qualche settimana, dopo una rivolta che aveva portato alla morte di tantissimi detenuti, ma molti altri, tra cui Assassini Ibridi, si erano volatilizzati ritrovando la loro libertà.
    Con tutte queste notizie aggiuntive, il quadro si faceva molto più pericoloso. Non c’era nessuna certezza che questo Schulz avesse ancora la chiave… e se l’avesse data a un suo collaboratore? Se l’avesse distrutta? Ecco, almeno un’idea precisa delle tante variabili che avrebbero potuto far fallire la mia missione. Di una in particolare, però, non avrei mai potuto immaginarne l’esistenza.
    […]
    Perché il mio istinto aveva sempre ragione? Qualche volta, avrebbe anche potuto illudermi che le apparenze sarebbero state a mio vantaggio. E invece no, avevo capito che questa missione mi avrebbe creato non poche grane e non ero stato smentito.
    Avevo rintracciato Hans Schulz, lo avevo seguito fino a una delle tante taverne riservate agli alti ufficiali del Reich. Non potevo entrare, avrei dovuto attendere che ne venisse fuori per poterlo ingaggiare. La mia presenza non sarebbe di certo passata inosservata, l’armatura in Nth e l’elmo non me lo permettevano mai, su nessun pianeta. Era un rischio che correvo ogni volta di buon grado, era tutto ciò che mi rappresentava, era tutto ciò che ero, perciò ero sempre pronto a farci i conti nel bene e nel male. Ma qui, dove la dittatura gettava sospetti persino sul semplice contadino che lavorava onestamente la terra, avevo prediletto un intervento più cauto. Anche io mi sarei mosso nell’ombra, come gli Assassini di cui tanto avevo sentito parlare tra gli abitanti della città.
    Sulla Terra, nessuno sembrava conoscere i Mandaloriani, le anime che avevo incrociato avevano reagito solo con estrema curiosità, pochissimi con timore. Qualcuno aveva sfiorato l’armatura come se fosse fatta di oro zecchino – per loro il metallo più prezioso, e non si erano poi sbagliati di molto –, qualcun altro si era nascosto impaurito credendo di avere davanti un droide – “Dank Farrik, che io sia dannato, scambiato per un ammasso di ferraglia!” –, altri ancora, soprattutto i bambini, mi avevano seguito festanti… chissà che cosa gli era passato per la testa. Erano strani questi terrestri, vivevano sotto il giogo di un Governo tiranno, ma non perdevano occasione di sorridere di fronte a una qualche stranezza o meraviglia. Nessuno di loro aveva neanche lontanamente immaginato il fatto che fossi un cacciatore di taglie, né che ciò che portavo agganciato dietro le spalle fosse un pericolosissimo fucile a impulsi, mentre il blaster era nascosto dal mantello.
    Quando mi ero infiltrato nel cuore della città di Berlino e dunque nel cuore della dittatura, avevo dovuto nascondermi, approfittare delle fitte ombre della notte per avvicinarmi al luogo dove sapevo avrei trovato Schulz. Restò nella taverna per tre ore buone, mentre io lo avevo atteso paziente e immobile in un vicolo cieco parallelo al locale. Quando ne uscì era ubriaco fradicio, ovviamente, in tre ore non aveva di certo solo guardato il soffitto, ma non era in compagnia e questo mi aveva fatto tirare un sospiro di sollievo. Lo avevo aggredito, stordendolo con un pugno alla testa. Dovetti calibrare la forza per evitare di ucciderlo sul colpo… Lo avevo poi trascinato nel vicolo e gli avevo infilato la faccia nella neve ancora fresca, accumulata durante la nevicata della giornata, per fargli riprendere un po’ di lucidità. L’impatto gelido aveva fatto il suo dovere, ma i risultati di un breve ma intenso interrogatorio mi aveva dato conferma della mia peggiore sensazione. Ero bravo a riconoscere le bugie quando venivano dette, tanto quanto ero conscio che il terrore non era un buon alleato delle menzogne. E Hans Schulz se l’era fatta anche nei pantaloni. No, non mentiva quando diceva che non aveva con sé la chiave. Avevo cercato di fargli dire dove l’avesse nascosta, ma era svenuto miseramente. Avrei dovuto attendere al suo fianco che si risvegliasse… ma avevo commesso l’errore di allontanarmi per contattare la Resistenza e riferire gli sviluppi, per esperienza, sapevo che non avrei cavato un ragno dal buco con un tipo del genere. Quando ero tornato al punto dove lo avevo lasciato, non c’era più. Si era trascinato via, lasciando dietro di sé solo il puzzo della sua paura.
    Scossi il capo, il cattivo presagio non voleva abbandonarmi e gli diedi un vero nome due giorni dopo. Attendevo Hans Schulz fuori da una taverna diversa. Era azzardato, me ne rendevo conto, gli agguati dovevano essere diversificati per non diventare prevedibili, ma io non avevo molto tempo e soprattutto ero perfettamente in grado di gestire un tipo come Schulz. Così, avevo deciso di rischiare e non fui neppure tanto sorpreso di vedere una pattuglia di dieci uomini armati fino ai denti guidata proprio da lui. Stava setacciando tutti i vicoli e io non mi sarei mosso di un passo: dovevo chiudere il conto e la missione senza ulteriori ritardi.
    Tre soldati fecero irruzione nella stradina dove li attendevo, stranamente tranquillo. Non si aspettavano di trovare davvero qualcuno a quell’ora di notte, vista anche la fama di gran bevitore dell’ufficiale Schulz, di certo erano convinti che li avesse impiegati per una ronda speciale solo per capriccio. Mi dispiacque un po’ smentirli: quando mi videro urlarono, attirando l’attenzione degli altri soldati e del loro comandante. In pochi secondi, i tre che avevano tentato di puntarmi con il loro fucile giacevano ai miei piedi privi di sensi. Non erano altro che ragazzi giovanissimi, che seguivano degli ordini assurdi di soggetti che avrebbero fatto bene a non respirare più. Qualche proiettile degli altri soldati raggiunse la mia armatura, ma rimbalzarono via. Con qualche colpo preciso, senza neppure tirare fuori il mio blaster, riuscii a sbaragliarli tutti quanti… avrebbero dormito per un bel po’.
    Quando mi voltai verso Schulz, che non si era unito ovviamente al combattimento, vidi nei suoi occhi un odio viscerale. Dovevo averlo umiliato qualche sera prima, ma questo non gli impediva di pensare di nuovo alla fuga, solo che io non glielo avrei più permesso. Lo immobilizzai contro il muro sudicio dell’edificio che delimitava il vicolo. Il viso era schiacciato sul cemento. La mia mano guantata gli teneva ferma la testa, mentre con l’altra gli torcevo un braccio dietro la schiena.
    “Colonnello Schulz, la prego di dirmi dove si trova la chiave di decodifica che sto cercando. Non sono venuto qui per ucciderla, immagino che la sua vita per lei valga più di qualche codice.” Non avevo dubbi in merito, sapevo riconoscere un pavido senza dignità o onore. Avevo parlato nella lingua comune, quella che tutti gli umanoidi usavano nella galassia. Il popolo non mi aveva compreso, sembravano conoscere solo il tedesco, ma ero certo che lui, così come i detentori del potere sul quel pianeta, mi avrebbe capito eccome. Lo sentii tremare sotto le dita, ma il bastardo rideva, cercando di sputare il sangue che aveva in bocca. Non poté farlo, perché lo sbattei di nuovo con violenza contro il cemento. “Non mi piace ripetermi, dimmi dove si trova la chiave e ti lascerò andare per la tua strada.” Ogni forma di cortesia era ormai sfumata.
    Schulz tentò ancora di schernirmi, ma ne capii il motivo solo qualche istante dopo. Un dolore acuto mi perforò il fianco, nella zona lasciata scoperta dall’armatura. Non sussultai, non mollai la presa, smisi solo di schiacciargli la testa contro il muro per capire cosa stesse accadendo. Mi tastai il punto dolorante e notai uno stiletto conficcato in profondità nella carne.
    “Kriff!” imprecai tra i denti. Feci girare Schulz e il suo ghigno era eloquente, tanto quanto la mano con cui mi aveva colpito: era sporca del mio sangue. Lo stiletto era ancora nel mio fianco. Avrei voluto farlo a pezzi, ma avevo una missione da portare a termine…
    “Hai sbagliato uomo, straniero. La Resistenza verrà rasa al suolo, così come tutti quei ratti di fogna che li difendono. Avranno vinto una battaglia, ma non si libereranno mai del Reich. Li schiacceremo come scarafaggi… riferisci loro il messaggio, se ne uscirai vivo!” Il suo accento era così duro che faticai a capire ogni singola parola, ma il significato… quello sì, arrivò forte e chiaro. La situazione continuava a complicarsi, i soldati tramortiti si stavano risvegliando e non avevo alcuna intenzione di ingaggiare nuova battaglia. D’altro canto, questo essere immondo non poteva continuare a vivere. La Resistenza non avrebbe avuto la chiave, io non avrei avuto la mia ricompensa, ma almeno l’aria di questa città sarebbe stata un po’ meno insalubre.
    “Il Reich cadrà, come cadono prima o poi tutte le dittature, ma tu non sarai lì per vederlo andare in pezzi… Decidi tu se ti sto facendo un regalo o meno…”
    Gli spezzai il collo con un gesto deciso, cancellai dalla mente la possibilità che potesse avere una moglie, dei figli, una famiglia. Non potevo lasciarlo andare, non potevo rischiare che i miei mandatari venissero scoperti, o meglio… tutto ciò era quanto mi urlavo in testa per giustificare quel bisogno impellente di farlo fuori. Poi, mi dileguai nell’oscurità. Giustizia era stata fatta.
    […]
    La missione stava assumendo contorni davvero mastodontici. La Resistenza non poteva restare a mani vuote, mi dissero che le informazioni in loro possesso, una volta decriptate, gli avrebbero permesso di sabotare molti laboratori in cui i Devianti eseguivano i loro terribili esperimenti. Non avrebbero ritirato l’ingaggio, al contrario, avrebbero tentato il tutto per tutto, dandomi nuove direttive.
    Attraverso le loro spie erano riusciti a sapere che Schulz aveva una moglie, saturniana di nascita, ma venuta a vivere sulla Terra dopo il matrimonio con l’ufficiale. Lei poteva avere informazioni cruciali per scovare qualche cassa forte, qualche cassetta segreta, dove avrebbe potuto custodire la chiave.
    Mentre ascoltavo il messaggio registrato con la nuova missione, non riuscivo a fare a meno di scuotere il capo con forza. Era assurdo: avrei dovuto rapire una donna che, con ogni probabilità, era all’oscuro delle malefatte del marito. Oppure no? E se lei fosse stata complice? Non potevo saperlo. Dovevo solo sviluppare un piano per portarla in sicurezza alla Razor Crest, poi sarei tornato su Mandalore per consegnarla ai miei mandatari. Loro avrebbero pagato e lei sarebbe stata lontana dalla Terra… “per sicurezza” avevano detto.
    Ancora una volta, tutto appariva semplice, ma una nota stonata mi faceva accelerare il battito del cuore, di solito placido come un lago di montagna. Tuttavia, non avevo una ragione valida per rifiutare, dovevo muovermi e concludere il tutto il più in fretta possibile.
    […]
    Trovare e seguire la moglie di Schulz era stato più complicato del previsto. Tutta quella missione sembrava destinata a diventare la più complicata della mia lunga carriera!
    Dopo la morte del marito, l’avevano raggiunta i suoi genitori, l’avevo appena intravista dietro qualche finestra, ma non era uscita di casa per oltre una settimana. Irrompere nell’abitazione era fuori discussione, avrei dovuto agire anche questa volta nell’anonimato, perciò mi ero appostato nelle vicinanze: una villa di tutto rispetto, con un giardino ricco di vegetazione, l’ideale per nascondermi. Mi muovevo spesso, cambiando punto di osservazione, per cercare di non diventare un bersaglio. Mi stupì il fatto che nonostante la fine violenta del colonnello Schulz non ci fossero pattuglie armate a protezione della famiglia… forse mi sfuggiva qualche meccanismo importante, i suoi soldati dovevano aver riferito del “tipo con l’armatura strana”, oppure anche loro erano stati messi a tacere per non creare scandali all’interno dei piani alti di comando, non ne avevo la più pallida idea né me ne importava in realtà.
    La mia pazienza fu dunque messa a dura prova, così come anche il mio corpo. Dopo una prima medicazione, la ferita al fianco era stata abbandonata a se stessa. Non l’avevo giudicata grave, lo stiletto era molto sottile, ma forse si era infettata, perché il dolore andava via via aumentando col passare del tempo, tanto da farmi sudare sotto il casco. Più volte ero stato costretto a toglierlo per asciugarmi e fare respiri più profondi, ma non potevo fare molto altro. Lasciare la postazione era impossibile, speravo solo che la donna avrebbe superato presto il lutto e fosse uscita per qualche commissione.
    Le mie preghiere furono esaudite l’ottavo giorno di appostamento.
    Era longilinea, ricoperta interamente da un vestito nero, completo di velo sul volto. Avevo dovuto scommettere sulla sua identità basandomi su varie costatazioni: era giovane, le movenze lo confermavano; era in lutto, l’abito non mentiva; il suo passo era sicuro, tipico di chi è padrone del suolo che calpesta; avevo intravisto sulla soglia i genitori anziani che la salutavano e le facevano qualche raccomandazione. Speravo proprio di non sbagliarmi.
    La seguii fino al mercato cittadino. Si muoveva lenta, come se si stesse godendo ogni secondo di solitudine, non c’era traccia di esitazione o debolezza. Sembrava in salute, anche se forse era un po’ troppo magra. Non ero pratico di lutti e perdite, ero davvero piccolo quando ero rimasto orfano e la famiglia che mi aveva accolto era stata a suo modo amorevole, la migliore che avessi mai potuto desiderare. In ogni caso, non mi sembrava molto affranta e la cosa cominciò a insospettirmi. Aveva appena perso il marito dopotutto… Mi imposi di non agire in fretta, anche se faticavo seriamente a respirare sotto il casco. Avrei dovuto attendere che arrivasse in una zona più periferica, lì avrei potuto muovermi indisturbato. Passò una buona mezz’ora in cui, la osservai bene… il passo era leggiadro, accarezzava con le dita la frutta, meditando forse di prendere… un’arancia – era un’arancia? – o due… Poi, a un certo punto, si fermò, alzò la testa verso il cielo e si tolse il velo. Ero sicuro che avrei visto un viso distrutto dalle lacrime, ma mi sbagliavo… e di grosso anche.
    Vidi sulle sue labbra il sorriso più bello del mondo. Era dolce, appena accennato, un sorriso che sapeva di libertà. Ero confuso e solo quando un tipo con un piccolo carretto rischiò di venirmi addosso mi riscossi dalla mia improvvisa immobilità. Non era il luogo per mettermi ad analizzare certi dettagli, né ne avevo il tempo, dovevo muovermi.
    Mi avvicinai alle sue spalle, in mano avevo un fazzoletto pregno di una sostanza che le avrebbe fatto perdere i sensi. Avvenne tutto in pochissimi attimi, la tenni stretta, lei cedette quasi subito, ma sentirla abbandonata tra le mie braccia mi lasciò una sensazione di angoscia mai provata.
    No, non era la cosa giusta da fare.
    […]
    Avevo appena avuto il tempo di prendere qualche boccata di respiro senza il casco, una volta tornati alla Razor Crest. Il viaggio non era stato facile con la donna in spalla e il mio corpo che minacciava di cedere da un momento all’altro. Non sapevo cosa diavolo mi stesse accadendo, ma non potevo fermarmi a controllare, eravamo troppo esposti… così avevo stretto i denti fino alla mia astronave. Una volta dentro, al sicuro, la chiusi a chiave nella cabina/cuccetta e mi rifugiai nella cabina di pilotaggio. Lì mi assicurai che fosse tutto in ordine e mi tolsi il casco. Sotto l’armatura gli abiti erano madidi di sudore freddo, la pelle aveva una temperatura molto alta e la ferita un colore non molto rassicurante. Sanguinava parecchio, ma non veniva fuori solo sangue, doveva essere infetta. Strano, non avevo mai avuto di questi problemi, il mio sistema immunitario era molto più forte rispetto a quello di tanti altri umanoidi. Forse lo stiletto era impregnato di qualche sostanza velenosa?
    “Dank Farrik!” mi morsi il labbro, dopo essermi accorto di aver imprecato a voce troppo alta. Appoggiai il capo al poggiatesta e cercai di ragionare il più lucidamente possibile.
    A breve la donna si sarebbe svegliata e avrei dovuto quantomeno interrogarla. Oppure, avrei potuto tenerla chiusa lì dentro fino all’arrivo su Mandalore… ma avrebbe avuto necessità fisiche, dovevo anche accertarmi che stesse bene altrimenti la Resistenza non avrebbe pagato.
    “Va bene, va tutto bene. La controllo, vedo se ha bisogno di qualcosa e poi partiamo. Una volta a casa, tutto sarà finito… Sì, andrà così, andrà tutto bene…”
    Armorer diceva che pensare intensamente che le cose sarebbe accadute, le avrebbe fatte accadere davvero. Io le avevo anche pronunciate ad alta voce, per esserne certo al cento per cento.
    Premetti con alcune garze la ferita e ci rimisi su la giubba, poi indossai il casco, ma decisi di lasciare in cabina le armi… non si pagava nulla a essere cauti. Raggiunsi la cuccetta e la aprii, ma non ero pronto a incontrare quello sguardo… il suo sguardo… Era impaurito sì, ma anche intenso, penetrante.
    Mi feci vicino, aspettandomi di vederla arretrare, ma non lo fece. O questa donna era audace oltre ogni dire, oppure era semplicemente stupida. Non so perché, propendevo per la prima ipotesi.
    Le slegai i polsi dalla fascetta con cui l’avevo immobilizzata, ma non mi soffermai sui segni rossi che lei si massaggiò subito in un gesto istintivo, portando le dita – immediatamente dopo – a un medaglione che portava al collo. Si era rannicchiata in un angolo della brandina su cui l’avevo adagiata.
    “Non ti farò del male. Ho solo il compito di portarti da altre persone che ti faranno alcune domande. Tuo marito aveva qualcosa che loro vogliono, ma è morto prima che potesse dirci dove trovarlo. Loro pensano che tu sia informata in merito…” Avevo parlato tutto d’un fiato, dicendo forse più di quanto mi competeva, ma non ne capivo il motivo. Lei continuava a guardarmi con intensità, ma senza rispondere. Dopo lunghi minuti passati, mi colse il dubbio che non comprendesse la lingua comune, così attivai il casco con il traduttore istantaneo. Parlai la mia lingua madre, ma il casco fece venir fuori al contempo una voce che comunicava in tedesco. Dissi le stesse cose, o quasi. La donna – di cui mi accorsi di non conoscere neppure il nome, come avevo fatto a non chiederlo? – sgranò appena gli occhi. Non capii se fosse stato a causa delle mie parole o per la sorpresa dovuta al traduttore istantaneo. Rimasi in silenzio, adesso toccava a lei.
    “Hai ucciso tu Hans?” No, non mi aspettavo questa contro domanda… in lingua comune tra le altre cose. Disattivai il traduttore e cercai di incamerare più ossigeno possibile. Mentire non era tra le possibilità.
    “Sì.” Non c’era però molto altro da dire.
    “Grazie. Ti ringrazio dal profondo del mio cuore.” Ero confuso, dannatamente confuso. Mi ero forse perso qualche passaggio…? Poi, la osservai meglio. Continuava a tenere stretto un medaglione tra le dita, un livido giallastro faceva bella mostra di sé nella piega del collo, andava verso la clavicola e si perdeva sotto il vestito. Senza il velo, l’abito lasciava scoperta la parte alta delle spalle e della schiena. Che lui la picchiasse? Era tutta una montatura? A che pro?
    “È stato necessario, non l’ho fatto per piacere…” Non sapevo perché mi stessi giustificando, dicendo anche una piccola bugia il realtà. Ma non lo avrei mai ammesso ad alta voce.
    “Non importa perché l’hai fatto, ciò che conta è il risultato. Cosa volete da me?” Era andata subito al sodo. Piegai un po’ la testa di lato, ero sorpreso.
    “Tuo marito custodiva una chiave di decodifica di alcune informazioni secretate dell’Abstergo. Hai idea di dove possa tenerla? Addosso non ce l’aveva.” Uno strano disagio mi serpeggiava lungo la schiena. Questa conversazione aveva qualcosa di molto bizzarro.
    La vidi crucciare la fronte, intenta a pensarci su, ma poi scosse il capo. Non ne aveva idea davvero?
    “Non mi parlava mai del suo lavoro, anche se io avevo scoperto che cosa faceva all’Abstergo e ne sono rimasta inorridita…” La voce le si ruppe per un’emozione che non conoscevo, ma sembrava sincera.
    “Le persone da cui ti porterò te lo chiederanno… tu dici solo la veritŔ Anche se non riuscivo a vedere il motivo per cui avrei dovuto accompagnarla da loro se era davvero all’oscuro di ciò che volevano sapere. L’avrebbero torturata? Mi irrigidii a quel pensiero improvviso.
    “Io non so nulla, tornava a casa di rado e quando lo faceva era talmente ubriaco che non riconosceva neppure la porta del bagno.” Era ribrezzo quello che percepii tra le righe? Lo odiava davvero? Mi ritrovai a scuotere il capo, ma non per negare qualcosa, ma per schiarire le idee. Erano annebbiate e la lucidità stava venendo meno.
    Avrei dovuto prendere delle decisioni molto importanti, ma in queste condizioni rischiavo solo di combinare danni. Ero rimasto in piedi, di fronte all’entrata, dovevo solo girare i tacchi e uscire… potevo ancora prendere del tempo con la Resistenza, riferire che lei non aveva informazioni utili. Sì, avrei fatto così… ma qualcosa dentro di me urlava già cosa avrei fatto davvero.
    “Ti porterò qualcosa da mangiare, se intanto hai bisogno del… bagno, ecco la chiave, è quella porticina in fondo.” Le diedi una chiavetta a cilindro e mi apprestai ad andarmene, quando un capogiro mi prese alla sprovvista e fui costretto ad appoggiarmi alla parete di metallo. A un certo punto sentii delle braccia attorno alla vita… Mi irrigidii all’istante e la scansai con un gesto brusco. Ero stato scortese sì, ma mi aveva preso del tutto alla sprovvista. Non avrebbe dovuto avere paura del sottoscritto? L’avevo rapita, kriff!
    “Sei ferito, stai sanguinando…” mi disse con voce eloquente e un sopracciglio alzato.
    “Sto bene!” borbottai, prima di sparire oltre la soglia e serrarla da fuori con il codice. Avevo il fiatone e non credevo fosse solo per la ferita che sembrava voler avvelenare tutte le mie cellule. Dovevo capire cosa fare, ma di una cosa ero già certo, la donna era innocente… e ancora non sapevo il suo nome.
     
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    Poteva un uomo tanto forte, ai miei occhi, avere una reazione del genere? Avevo riconosciuto quel suo attuare, perchè mille e una volta lo avevo visto su me stessa. Ogni volta che Hans mi toccava, soprattutto in pubblico per mantenere la nostra facciata di coppia perfetta o a casa quando cercava di essere il marito dolce e premuroso che non era. Sapevo quello che le sue mani erano davvero in grado di fare e dunque ogni volta che me le sentivo addosso, che fosse anche un solo toccare il mio braccio, la reazione istintiva era di scostarmi il più velocemente possibile apparendo brusca e maleducata.
    Stavo ancora osservando la scaletta su per la quale, a fatica, era salito, la stessa che lo aveva portato alla sua cabina di pilotaggio dentro la quale si era barricato. Sospirai. Non credevo proprio che un Mandaloriano potesse aver davvero mai potuto provare ciò che avevo vissuto io, ma ero sicura che le uniche mani che avesse mai sentito su di sè fossero quelle dei suoi nemici. Insomma era così abituato che gli altri gli facessero del male, che dava per scontato che ogni tocco fosse solo a tale fine.
    Piegai dunque il capo da un lato e portandomi le mani al medaglione, con il quale ero solita giocherellare quando ero nervosa o stringevo quando cercavo di darmi forza, sentì una stretta al cuore. Provai tenerezza, dopotutto perfino io che in parte conoscevo quell'atteggiamento non sobbalzavo per tanto perchè ancora credevo nella dolcezza e nell'amore. E non mi chiudevo ad esso, anzi nel mio cuore brillava la speranza, un giorno, di provarlo per davvero. Un amore. Un amore vero.
    Lasciai da parte i miei pensieri e raggiungendo il bagno che lui stesso mi aveva indicato, era davvero un stanzino angusto, mi guardai allo specchio sconcertata dalle occhiaie che avevo e del mio aspetto: orribile.
    Erano anni che non mi prendevo cura di me. Scossi il capo e mi sciacquai il viso con abbondante acqua fredda, la stessa che mi passai sui polsi. Prima di asciugarmi alla bene al meglio e tornando a fissarmi mi soffermai sui miei capelli. Li portavo sempre raccolti in austere acconciature, non che mi piacessero, ma nella cultura Deviante quando ti sposavi... insomma non dovevi più essere appetibile per altri uomini, peccato che io amassi prendermi cura di me. Lo avevo sempre amato. E così presa da quella foga di libertà che agognavo sciolsi la complessa acconciatura, sorridendo radiosa nel rivedere -finalmente- i miei lunghissimi capelli scuri a incorniciarmi il viso.
    Diedi forma loro con le mani trovando che le onde che avevano creato, per via delle trecce, mi stessero anche bene. Da quanto non pensavo ciò? Da quanto non mi deliziavo del piacere di pensare come portare i capelli? Che vestito indossare o come truccarmi? Sciocchezze forse, ma che mi mancavano come l'aria che respiravo.
    Uscita dal bagno, ancora "bloccata" nella stiva, osservai il mio odioso lungo e tetro abito nero. In uno scatto di ribellione gli strappai le maniche, trasformandolo così in un abito sbracciato, mentre anche il corsetto a stringivita che indossavo finì sul pavimento. Tornai a respirare a pieni polmoni, prima di strappare anche in parte la lunga gonna. Lo strappo era irregolare e così finì per creare una gonna svasata che su un fianco finiva lunga fino alla caviglia e dall'altra si fermava a metà coscia. Così erano ben visibile le polacchine nere che indossavo. Non era il massimo, ma almeno mi sentivo più libera nei movimento. Più leggiadra e non più costretta in qualcosa che odiavo.
    Sorridendo tra me e me, soddisfatta dei miei gesti, decisi di salire la piccola scaletta che mi portò ad una sorta di piccolo pianerottolo dove spiccava la grande porta della cabina di pilotaggio che in quel momento era sigillata.
    Quasi con timore mi avvicinai poggiando una mano sopra, cercando di percepire qualche rumore dall'altra parte. Non avevo potuto vedere la sua ferita, ma per come lo avevo visto avere il capogiro, tenersela e salire a fatica la scala... bè non era proprio superficiale.
    TOC TOC
    Bussai leggera ancora appoggiata alla porta chiusa per poi sussurrare in un soffio leggero. "C-Come ti senti?" un po' avevo timore ad approcciarmi, ma al contempo ci tenevo davvero a sapere come stesse. Ormai lo consideravo fondamentalmente il mio salvatore e come tale credevo fosse il minimo prendermi cura di lui, anche se lo avrei fatto comunque. Era nella mia indole. Riconoscevo le persone buone e per tali amavo essere loro d'aiuto se potevo.
    Lui non rispose, ma percepì chiaramente i movimenti dall'altra parte ed alcuni suoi grugniti, probabilmente causati dal dolore, che non sfuggirono al mio udito.
    "E' stato Hans vero? Ti ha ferito con il suo stiletto?" chiesi sempre nella speranza di ricevere un suo riscontro che non arrivò "E' pratica comune tra i gerarchi avvelenare le punte dei loro stiletti con il mercurio..." gli spiegai.
    "Da quello che ho visto probablmente stai affrontando problemi alla vista, perdita di coordinazione motoria e... bè se l'avvelenamento sta proseguendo probabilmente anche formicolio ed intorpidimento delle estremità..." sapevo molto bene che i sintomi sarebbero continuai con astenia, psicosi, delirio, disunfizioni immunitarie ed infine un collasso cardiocircolatorio.
    "Non so se li hai a bordo, ma... necessiti di ingerire del latte o anche dell'albume va bene. Sono alimenti terrestri... successivamente però avrai bisogno di carbone adsorbente ed emetici. Per rallentare l'intossicazione degli agrumi o frutta secca potrebbe aiutare... ma devi curare la ferita... la sua infezione potrebbe accellerare l'avvelenamento..." proseguì poi mordendomi le labbra. Non credevo fosse opportuno insistere, ma speravo che le mie informazioni lo avrebbero aiutato a fare le scelte giuste. E non si trattava solo di me, perchè ero con lui su una navicella che avrebbe potuto non essere più in grado di pilotare o perchè per via di un eventuale delirio avrebbe potuto uccidermi, ma di lui. Non era certo nè mia intenzione nè mio volere, rimanere lì e non fare niente mentre stava inevitabilmente morendo.
    "So che non hai motivi di fidarti di me, ma... se mi apri il portellone posso andare al mercato... è vicino. Ferito come sei dubito che tu mi abbia trasportato priva di sensi per troppo a lungo... dunque deve essere vicino... posso recuperare il necessario e se da me non vuoi farti curare, bè potrai almeno farlo da te..." lo avevo detto tutto d'un fiato per poi trattenerlo in attesa del suo responso. Sapevo che non aveva nemmeno un motivo per fidarsi di me, d'altronde chiunque sarebbe rimasto lì in attesa della sua inevitabile fine e poi sarebbe fuggito. Ma avevo sempre odiato quelle considerazioni, solo perchè esisteva il male e l'egoismo non voleva dire che la bontà e il bene fossero estinti. Ecco dunque che contro ogni previsione aprì il portellone ed io fui lieta di non essermi sbagliata.
    5 minuti
    L'aria seppur era pungente non mi aveva fatto pentire della scelta di aver strappato l'abito per essere più libera nei movimenti, anche se fu inevitabile rubare una coperta dalla stiva prima da uscire per via del freddo.
    10 minuti
    Mi ero sbagliata ci avevo messo più del previsto ad arrivare al mercato e mi ero stupita di quanta strada avesse fatto con me, priva di sensi, tra le sue braccia. Non so perchè sorrisi, ma immediatamente mi diedi da fare per recuperare ciò che serviva. Il Mandaloriano non mi aveva privato della mia borsetta e dei miei crediti, dunque con gli stessi potrei comprare della frutta secca e del latte.
    15 minuti
    Stavo perndendo tempo e speravo non credesse che fossi già fuggita lontana, ma ahimè trovare quello che mancava non fu facile. Comprare degli antidoti legati principalmente al veleno numero uno dei Devianti voleva dire per antonomasia essere riconosciuto tra i ribelli dunque dovevo andare lì dove si potevano comprarli senza che nessuno facesse domande. In quella parte di mercato, la parte "nera", mi sentivo tutti gli occhi addosso, ma tentai di non prestarci caso e dirigermi lì dove speravo di trovare ciò che cercavo.
    20 minuti
    Convincere chi avevo davanti a vendermi ciò che mi serviva era difficile, ancor più perchè dovevo convincerlo di non essere una Deviante in primis e secondo che non ero una spia. In parte ero fortunata, il mio aspetto, un po' spettinato, dava l'idea giusta e così riuscii a recuperare anche le ultime cose non mancando, nel dubbio, di comprare anche delle bende e del bacta.
    25 minuti
    Stavo correndo a perdifiato, ormai doveva essere passata circa mezz'ora e chissà lui ormai doveva avermi dato per persa. Ma non era questo che mi turbava, quanto che il veleno correva in fretta ed ogni singolo secondo era importante.
    30 minuti
    Il rumore dei miei tacchi risuonò sul metallo della stiva e successivamente sulla scaletta a pioli, mentre la salivo con vigore dopo aver lasciato cadere dalle mie spalle la coperta che avevo usato per ripararmi dal freddo.
    Arrivata sul piccolo mezzanino bussai alla porta di metallo per far sentire al Mandaloriano la mia presenza.
    "Ehi ci sei? Sei sveglio? Scusa il ritardo, ma... pensavo avessi fatto meno strada e non ho trovato subito tutto. Ho qui del latte e della frutta secca, assumili per qualche giorno ti aiuteranno a riprenderti. Poi ho comprato anche del carbone adsorbente che ti consiglio di spargere sulla ferita dopo averla pulita prima di cicatrizzarla. Del bacta per combattere l'infezione ed infine un estratto di brasiliana ipecacuana, non sarà piacevole, ti provocherà del vomito, ma ti depurerà dagli effetti del veleno..." avevo parlato concitata, ma poi mi ero fermata non percependo una sua risposta.
    "O-Ok... t-ti lascio tutto qui... e... e... bè p-poi vieni a prenderle e... ok... c-credo... c-che non hai più bisogno di me..." mi sentivo una sciocca, ma non sapevo cosa altro dire e fare e paradossalmente non avevo alcuna intenzione di scappare. Anzi volevo aiutarlo, perchè era piacevole pensare che in qualche modo avrei potuto rimediare a tutti gli errori della mia famiglia, non so come ma avrei potuto cercare di capire cosa fosse quello che cercava e dove fosse. Darlo alla resistenza sarebbe stato un buon modo per inziare a fare la cosa giusta, agire come Ezra mi aveva insegnato.
    Instintivamente strinsi la collana che portavo al collo prima di accingermi a scendere di nuovo con la scaletta nella stiva. Fu proprio mentre stavo per farlo che le porte della cabina si aprirono e prima che lui potesse dire qualsiasi cosa cadde miseramente a terra, proprio sul suo uscio.
    Non ci pensai due volte e mi apprestai a dargli soccorso, ignorando i suoi mugugni di disapprovazione. Lo feci appoggiare allo stipite e feci per togliergli il casco, quando le sue mani si posarono con forza suoi miei polsi.
    "Se lo togliessi respireresti meglio..."
    “Lui resta!" mormorò duro. Mi pareva quasi che tutte le forze le stava mettendo per mantenere il tono fermo e per stringermi i polsi, seppur ci mise poco a lasciarmeli, mentre io toglievo le mani dal casco come scottata.
    "Non so molto di voi Mandaloriani, ma so che ci tenete alla vostra identità... dunque ok... lui resta..." dissi facendo affidamento a quel poco che su di loro ci avevano insegnato, anche se ero ben lungi da saperne davvero.
    Mi apprestai dunque a slacciargli la parte davanti dell'armatura, ma nuovamente lui reagì, seppur con meno veemenza.
    "E' chiaro che tu non sia in grado di medicarti, dunque mi spiace ma dovrò farlo io!" dissi rimproverandolo quasi fosse un bambino. Poteva non essere d'accordo, ma non aveva le forze per fermarmi e così una volta tolta la parte del toarace dell'armatura, gli alzai appena la tunica di tessuto pesante che sotto indossava. La pelle era di un brutto colore, probabilmente stava sviluppando un'infezione. Gliela accarezzai per capire l'identità del danno e lui sobbalzò. Eppure ero certa di non avergli fatto del male.
    Velocemente presi ciò che avevo acquistato e gliela pulii con cura. Non parlai. Non ce ne era bisogno, lui doveva essere abituato ed io avevo purtroppo curato più ferite di quanto avrei voluto vederne. Prima che Hans mi impedisse di vivere, non potendo seguire la carriera di Saggio, avevo prestato soccorso come infermiera per i soldati e bè... lì avevo imparato molto.
    Una volta che la ferita fu pulita, mi preoccupai di creare un impasto di carbone e bacta per poi procedere a fasciarlo.
    “Non la cicatrizzi?" mi chiese a mezza voce.
    "Potrei farlo e ti riprenderesti prima, ma il carbone ed il bacta non farebbero il loro lavoro... magari tra due o tre ore potremo farlo..."
    Non lo vedevo entusiasta della cosa, ma non me ne importò. Gli riabassai la maglietta con cura e poi alzandomi cercai di recuperare un bicchiere di latta dentro il quale misi un po' di latte e l'estratto di brasiliana ipecacuana.
    "Su ora bevi questo..."
    “I-Il c-casc..."
    "Ho capito..." dissi assicurandogli il bicchiere in una mano e poi posando sulla stessa la mia, così che potessi aiutarlo a tenere stabile il bicchiere. Dopo di che chiusi gli occhi, affinché lui potesse sollevare il casco quel tanto per bere. Aspettai che avesse fatto e quando mi diede certezza del tutto li riaprì posando il bicchiere per terra, al mio fianco.
    "Ora dormi... al tuo risveglio cicatrizzeremo la ferita e l'estratto avrà fatto il suo dovere procurandoti la nausea... vedrai che dopo esserti liberato starai bene abbastanza per affrontare il viaggio..." lo rassicurai poggiando la schiena contro il metallo freddo della parete. Ero seduta per terra, accanto a lui.
    “C-Che f-fai?" mi chiesce biascicando le parole, era chiaro che fosse ad un passo dal crollare.
    "Rimango qui, in caso tu abbia bisogno di qualcosa... ma ora shhh... riposa..." lo rabbonì. Il capo poggiato contro la parete, ma appena voltato verso di lui a rivolgergli un sincero e premuroso sorriso.
     
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    Annarita
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    Quel sorriso mi accompagnò nell’oscurità. Un’oscurità agitata da strane immagini e da ricordi lontani. Non si trattava di veri e propri incubi, li conoscevo molto bene gli incubi, forse come ogni bambino che ha perso i genitori troppo presto… non riuscivo a chiudere gli occhi senza rivedere i loro occhi pieni di lacrime, senza risentire il sapore del loro sangue sulle labbra, senza strizzare le palpebre in attesa di una fine che non arrivò mai. I Mandaloriani mi avevano salvato la vita, mi aveva accolto nel loro mondo, mi avevano cresciuto secondo il loro credo e mi ci ero votato a quel credo, con tutto me stesso. Per questa ragione non avevo permesso alla donna di levarmi il casco, anche solo lasciarle togliere l’armatura anteriore mi era costato molto in termini di vergogna. Nessuno lo aveva mai fatto prima di lei, nessuno aveva mai osato tanto, ma mi aveva salvato la vita… proprio come i Mandaloriani quel giorno di tantissimi anni prima. Il sorriso placido e confortante di lei continuava a tornare, tra scene di un passato davvero distante, che credevo di aver sepolto ormai per sempre. Eppure, in qualche modo, era riuscita a farmeli rievocare.
    Nuotavo come se fossi immerso in una sostanza viscosa, un dolore sordo pareva strisciare nelle vene, sapevo che si trattava del veleno, anche se in teoria sarei dovuto essere svenuto ormai. Ciò nonostante, continuavo a ragionare… non era normale, ma cosa lo era stato in quella strana missione? Incontrare lei, poi, era stata una specie di carambola inattesa… Quando mi aveva chiesto di andare al mercato, avrei dovuto dubitare del suo ritorno; quando i minuti avevano cominciato ad accumularsi avrei dovuto darla persa; quando la coscienza stava ormai per abbandonarmi, avrei dovuto arrendermi. Ma nulla di tutto ciò era accaduto. Non avevo mai dubitato del suo ritorno, non l’avevo mai data per persa, non mi ero arreso… Aprirle la cabina di pilotaggio era stato l’ultimo gesto folle di una missione ancora più folle. E, a quanto pareva, era stata l’unica cosa giusta che avrei potuto e dovuto fare.
    Mi aveva salvato la vita. Continuavo a ripetermelo perché no, non poteva essere davvero così. Avrei dovuto diffidare di una deviante, di un’estranea, di una taglia. Era la mia taglia, avrei dovuto portarla semplicemente ai mandatari. Stop. Ma sapevo che avrei tergiversato, eccome.
    L’oscurità sembrò diradarsi a strati, con lentezza, ma con la luce arrivò pure una nausea sconvolgente. Aprii gli occhi di scatto, ma non mi mossi. Lei non poteva capire che mi ero svegliato, eppure mi fu subito accanto. Il suo viso stanco fece capolino davanti alla visiera, non doveva aver riposato molto… e come avrebbe potuto sul freddo metallo su cui si era ostinata a sedersi?
    Avevo sussultato senza accorgermene, forse stavo addirittura tremando, ma ogni sensazione mi arrivava con ritardo, come se le mie sinapsi cerebrali rifiutassero ogni input, solo il suo sorriso era capace di arrivare diretto e senza deviazioni.
    Un conato rischiò di farmi dare di stomaco all’improvviso e no, non lo avrei fatto davanti a lei. Al diavolo la necessità, non lo avrei permesso.
    “Vai via…” le intimai, cercando con gli occhi qualcosa in cui poter rimettere il veleno.
    La vidi afferrare una ciotola di metallo che pareva essere stata preparata in anticipo proprio per l’occasione. Gattonò verso di me e me la porse, esitò un attimo di troppo…
    “Vorrei restare… solo per aiutarti…” La sua voce era incerta, ma sincera. Non era la curiosità a dirle di restare, ma il suo innato altruismo.
    “Lo hai già fatto, adesso vai…” Non avrei resistito ancora a lungo. Ero debole, mi spostai a fatica verso l’interno della cabina e attesi che lei ne varcasse la soglia prima di serrare il portello. La udii però urlare oltre il metallo…
    “Rimango qui, fammi rientrare quando avrai finito, d’accordo?” Aveva forse capito al miracolo a cui aveva assistito con l’apertura di quella porta in precedenza? Temeva che avrei tenuto le distanze adesso che ne avevo la possibilità e non rischiavo più di morire? Era ciò che volevo?
    Rigettai l’anima nella ciotola e una contrazione al fianco mi fece mugugnare per il dolore. Senza il casco respiravo meglio, ma paradossalmente mi sentivo nudo. La presenza della donna al di là della soglia mi metteva in ansia, come se potesse in qualche modo assistere a quella scena pietosa. Inspirai aria, ma dovetti subito cedere a nuovo conato, mentre con la mano mi tenevo stretta la ferita, temevo che lo sforzo la facesse riaprire e sanguinare.
    Tremavo, sentivo freddo, ma non era la temperatura rigida all’esterno la responsabile. Era il mio corpo che lottava per combattere il veleno e assorbire gli alimenti benefici che… lei… mi aveva procurato.
    “Quando avrai terminato, cicatrizziamo la ferita, temo che possa causarti altri danni…” Il suo tono era nervoso, come se soffrisse fisicamente per la mia condizione. Non mi sarei stupito se si stesse dando addirittura la colpa, forse iniziavo a capire alcuni meccanismi del suo strano cervello.
    Trovai alcune salviette umide, le usai per tamponarmi il viso e il collo dal sudore. Bevvi un altro po’ di latte, o almeno presumevo che lo fosse, e mangiai qualche pezzetto di arancia: le avevo viste al mercato. Il sapore aspro mi piacque anche se con il latte non era una grande combinazione… mi stupii di fare certe constatazioni in un momento simile, ma era raro che riuscissi ad assaporare gusti nuovi e la Terra sapevo che ne aveva a migliaia, forse di più… D’accordo, lo stomaco pareva essersi assestato, ma la mano guantata con cui mi ero tenuto la ferita era madida. Sangue.
    Mi misi in piedi a fatica, trattenendo qualche brontolio per il dolore, mentre la coordinazione degli arti sembrava essere tornata al cento per cento. Mi ero sentito morire quando la vista era venuta meno, tremori violenti avevano colpito il mio corpo e avevo iniziato a non percepire le dita delle mani. Poi era arrivata lei e aveva “indovinato” ogni sintomo… Vero, non avevo avuto molta scelta: o mi fidavo di lei o sarei morto; la prospettiva certa però era che se lei non fosse stata sulla nave, io adesso sarei un cadavere. Che significato aveva tutto ciò?
    Mi trascinai sulla piccola brandina che feci venir fuori da una paratia. L’avrei fatta rientrare, ma non l’avrei costretta a stare sul pavimento. Fuori, col calare del crepuscolo, si sfioravano gli zero gradi, dentro non si gelava ma non c’erano nemmeno temperature da equatore, giusto per restare in tema terrestre. Ecco, adesso avrei aperto il portellone della cabina… le avrei fatto cicatrizzare la ferita e poi l’avrei spedita nella cabina-cuccetta così che potesse riposare in santa pace. Sì, avrei fatto così.
    Infilai il casco, non prima di aver mangiato un altro pezzetto di arancia. Poi spinsi il bottone.
    Fu al mio fianco in un lampo, ma non mi toccò, non subito. L’ultima volta non avevo reagito molto bene. Stranamente, però, lo apprezzai. Poi, notai alcuni dettagli che prima mi erano sfuggiti.
    “Cos’hai fatto ai capelli…? E al vestito…?” L’avevo davvero detto ad alta voce? La vidi volteggiare lo sguardo in tondo, un po’ in imbarazzo. No, non credo si aspettasse queste parole da me.
    “Volevo essere più… sciolta nei movimenti.” Non era una vera risposta, ma in fondo la mia non era una vera domanda. “Hai mangiato qualcosa, ne sono contenta. Ti è piaciuta? L’arancia intendo.” Iniziò a preparare altre bende, il disinfettante, cercava di distrarmi o forse no?
    “Sì, la conoscevo, ma non l’avevo mai assaggiata…” Era inevitabile, tra noi la conversazione prendeva sempre una piega un po’ strana. “Come ti chiami?” Ecco una domanda sensata.
    “Omera… e tu?” Assolutamente normale rispondere col proprio nome di battesimo, ma la mia normalità era una riga sopra o sotto rispetto a quella di tutti gli altri.
    “Tutti mi chiamano semplicemente Mando…” Con un cenno le permisi di avvicinarsi, mi ero alzato da solo la tunica, ma lei iniziò a pulire la ferita prima di cicatrizzarla.
    “Nessuno conosce il vostro nome, vero?” Scossi il capo, era quasi vero, ma non era necessario andare nei dettagli. Lei non avrebbe potuto conoscerlo. Lavorò in silenzio per un po’, attenta a non sfiorarmi oltre il necessario. Ogni mia precedente reazione doveva averla “scottata” più di quanto potessi immaginare. Ma dalla mia avevo il fatto che il fattore sorpresa mi aveva destabilizzato e il veleno aveva fatto il resto… senza la giusta lucidità, non ero capace di contenere le sensazioni. Era tra le prime cose che ti insegnavano i Mandaloriani: imparare l’arte dell’autocontrollo. “Il colore è migliorato e anche il sangue è rosso vivo, sembra che il processo di guarigione sarà più veloce del previsto…”
    “Il nostro fisico è forte…” giustificai quella notizia. “Ma il tuo intervento è stato fondamentale. Devo… devo ringraziarti. Avresti potuto fuggire senza nessun tipo di rimorso… non l’hai fatto però…”
    “No, non avrei potuto farlo. Sono ancora ben lontana dal farmi perdonare. La mia famiglia ne ha combinate davvero tante…” Percepii il tremore delle sue dita sulla ferita e non alzava più lo sguardo verso di me come faceva prima.
    “Noi non siamo la nostra famiglia. Ognuno di noi è responsabile delle proprie azioni e non dobbiamo pagare per quelle altrui, soprattutto se non le condividiamo neppure…”
    “Avrei potuto ribellarmi!” disse con un tono di voce più alto, una nota di disprezzo troppo evidente per se stessa.
    “E allora cosa significa quel livido sul collo? Lo hai fatto. Ti sei ribellata nell’unico modo in cui potevi farlo…” Come per magia, tantissime cose sembrarono assumere il loro significato perfetto. La vidi sgranare gli occhi e fissarmi di nuovo, come se avesse appena avuto una rivelazione.
    “Voglio darti ciò che vuoi. Non so cosa stai cercando di preciso, ma posso provare a pensarci su… è un altro passo verso la mia redenzione.”
    “A mio umile parere, di passi ne hai fatti anche troppi. Proveremo a capire come recuperare ciò che la Resistenza vuole, per guadagnare la tua tranquillità e poi per portare a termine la missione…” La mia voce aveva un che di definitivo che parve mettere fine a ogni suo tentativo di colpevolizzarsi per responsabilità non sue. D’altro canto, era ancora agitata, voleva dirmi qualcos’altro ma sembrava tergiversare. “C’è altro di cui vuoi parlarmi?” Mi aveva forse tradito? Aveva dato la nostra posizione alle guardie? E a quel punto non dovevano già averci accerchiato? No, queste erano solo mie assurde paranoie… con lei essere diffidenti era solo un errore inutile.
    “Farò di tutto per recuperare la chiave di cui parli, però… ecco… vorrei che mi aiutassi…” Non avevo la più pallida idea in cosa sarei potuto tornarle utile… a quanto pareva, il favore più grande gliel’avevo fatto. La invitai a continuare con un gesto della mano. “Vorrei inscenare la mia morte… Sono stanca di vivere una vita che non è vita, voglio venire via con te e chiudere tutti i conti su questo pianeta…” Ero confuso. In teoria le avevo ucciso il marito, l’avevo rapita, ma poi lei mi aveva comunque salvato la vita e mi chiedeva addirittura di aiutarla affinché tutti la credessero morta… per non parlare del fatto che desiderava venire via con me, sulla mia nave, verso un destino ignoto. Di certo, qualche passaggio mi sfuggiva… ma non sapevo da dove cominciare a chiedere chiarimenti.
    Il dolore della cicatrizzazione mi distrasse un attimo dal turbinio di pensieri e mi ero convinto che la tempistica non doveva essere casuale. Mi stava dando tempo per rifletterci su… poi lo sguardo cadde sul parabrezza principale: fiocchi di neve soffici lo stavano ricoprendo per intero. Avevo visitato pianeti dalle temperature rigidissime e affrontato tante tempeste di ghiaccio, ma non avevo idea che la neve potesse anche venir giù così morbida e leggera. Restai incantato a osservarla e mi accorsi dopo qualche attimo che anche Omera la stava fissando con sguardo rapito… Il profilo del suo viso era deciso, ma candido e morbido come un fiocco di neve.
    “Ti aiuterò…” dissi piano, non molto convinto del perché lo avessi fatto, ma sicuro che non mi sarei tirato indietro. Lei girò di scatto il volto verso di me e mi fissò con la stessa meraviglia con la quale stava guardando oltre il vetro, solo qualche attimo prima. “Non essere così stupita, tu mi hai salvato la vita…” La mia logica finale, in effetti, non faceva una piega. Il difficile sarebbe stato applicare quel proposito, ma non sarei venuto meno alla mia parola, non con lei.
     
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    Il palazzo era interamente e completamente in fiamme. Le stesse calde e scintillanti danzavano nei corridoio, camminavano sui muri ed uscivano da sotto le porte.
    La coperta che avevo sulle spalle e che tentai di usare per camminare tra le stesse prese fuoco alchè dovetti buttarla a terra per non rischiare di bruciare io stessa. La calpestai violentemente per spegnerla, mentre portandomi una mano di fronte agli occhi che bruciavano, iniziai a tossire miseramente. La gola era secca ed io non vedevo nulla.
    Continuai a camminare per il corridoio, dovevo uscire prima che l'aria si facesse più densa e fitta. Vedevo alcune aperture esplodere, per via dell'ossigeno, mentre raggiungevo una delle porte che mi avrebbero potuto dare accesso all'uscita di sicurezza.
    Sapevo che aprirla era rischioso e toccare la maniglia era impossibile. Iniziai dunque a calciarla, nella speranza si aprisse, ma mentre ci provai il pavimento di legno sotto i miei piedi crollò facendomi schiantare al piano inferiore.
    Imprecai per il dolore, tossicchiando, cercando di arrampicarmi di nuovo al piano di sopra, per raggiungere la porta. Saltai, le mani sul pavimento rotto e tutte le forze incanalate, per arrampicarmi, quando sentendo delle mani sulla vita per poco non sobbalzai. Qualcuno mi stava tirando giù e quando mi voltai, pronta a reagire, mi trovai vis-à-vis con il Mandaloriano che guardai stupefatta.
    “Non ti vedevo tornare...” mi disse semplicemente, mentre nonostante la situazione il mio sguardo era canalizzato verso il suo visore, sicura che dall'altro lato lui mi guardasse, mentre le mie mani erano ancora poggiate al metallo freddo della sua armatura e i nostri corpi vicinissi.
    Facemmo per muoverci e fu allora che mi cadde il medaglione, fu istintivo fare un passo per tornare indietro, ma lui afferrandomi per un polso me lo impedì. Ero ancora voltata quando notando uno strano scintillio mi liberai dalla sua presa e corsi indietro ad esso.
    “Dobbiamo andare, non c'è tempo!” mi incitò venendomi a recuperare e così senza perdere tempo ulteriore presi tra le mani ciò che avevo visto e seguendolo uscimmo dall'edificio, mentre alcuni pezzi del pavimento superiore cadevano e le fiamme aumentavano la loro intensità.
    Una volta fuori respirai a pieni polmoni l'aria fresca, ero così accaldata che non percepì immediatamente il gelo sulla pelle, anche se lui istintivamente si tolse il mantello e me lo mise sulle spalle, mentre velocemente ci allontanavamo verso la sua navicella e prendemmo il volo il prima possibile.

    Solo un'oretta prima, su quella stessa navicella lui si era appena ripreso ed io gli avevo fatto la folle proposta di aiutarmi ad inscenare la mia morte. Lui aveva accettato e presto ci eravamo diretti a casa mia. Non era mia desiderio dare fuoco all'intero palazzo, ma quando da sola ero entrata nel mio appartamento -trovandolo vuoto- qualcuno mi aveva chiuso dentro allo stesso ed aveva appiccato l'incendio. Mi ero assicurata che i miei genitori non fossero in casa, sicura che erano usciti a cercarmi perchè ormai mancavo da molte ore, ed una volta dentro avevo iniziato a gettare all'aria tutto. Era liberatorio rompere e distruggere una vita da cui stavo fuggendo, ma lo scopo era principalmente mettere in scena un'aggressione. Mi ero infatti ferita ad una mano e con il sangue avevo sporcato un oggetto contundente. Stavo per togliermi il medaglione, con molto dispiacere, per rendere tutto più incredibile, quando era accaduto l'impensabile. Probabilmente una ribelle, indipendente, inconscio che la Resistenza mi voleva viva, aveva voluto fare un atto di forza e mostrare ai Devianti quanto e come anche noi eravamo sensibili alla morte e probabilmente sapendomi sola e vedova aveva colto la palla al balzo. Il tempo di riuscire a liberarmi che già l'edificio stava andando a fuoco. Avevo fatto il possibile per uscire viva da lì e se non fosse stato per Mando forse non ci sarei riuscita.
    La navicella in quel momento aveva il pilota automatico mentre nella stiva, seduta sulla branda della sua cuccetta, lui mi stava medicando la ferita alla mano cicatrizzandola e fasciandomela.
    “Mi dici perchè sei tornata indietro?” mi chiese con quel suo tono sempre apparentemente atono. Mentre io mostrai una resistenza al dolore maggiore a ciò che potevo invece dar a credere. Ahimè mi ci ero abituata.
    Avevo spiegato lui cosa mi era successo, ma quel particolare mancava e così con la mano rimasta libera presi qualcosa dal decolté, lì dove mi ero nascosta quello che avevo recuperato e glielo porsi.
    "Quando il medaglione mi è caduto si è rotto e... ho visto questo... la crudeltà di Hans mi stupisce anche dopo la sua morte..." esclamai divertita, ma in realtà ero solo affranta. Avevo capito cosa fosse quando, tornata sulla navicella, avevo osservato l'oggetto una volta sola.
    “Ma è...”
    "La chiave di decodifica che stai cercando... Subdolo, ma furbo. Non sapevo nemmeno di averla addosso ed averla nel luogo per me più sacro..."
    “Il medaglione...” osservò non in modo scontato, ma di chi aveva notato con attenzione quanto ci giocassi e come sempre lo stringevo quando avevo bisogno di forza. Un gesto che feci anche in quel momento solo per ricordarmi che era andato. Per sempre.
    "Era un regalo di mio fratello: Ezra. L'unico membro della mia famiglia degno di essere chiamato tale. Fuggì da giovane e si unì agli Assassini, è morto qualche anno fa..." tagliai corto, mentre sentì appena le sue dita sfiorarmi quando recuperò dalle mie mani la chiave di decodifica, non prima di aver finito con la mia fasciatura.
    Mi invitò poi a riposare e lì sì che non obbiettai, ero troppo stanca. Mi misi dunque a dormire e lui tornò in cabina di pilotaggio.

    Mandalore era lungi dall'essere l'antica e splendente città che era un tempo. Certo conservava ancora la sua bellezza, ma si vedeva che aveva visto giorni migliori.
    Il pianeta, omonimo, era quasi ed esclusivamente una landa isolata, con piccoli insediamenti qua e là di clan autonomi, ma poi nella capitale spuntava letteralmente quella che si poteva definire un'oasi nel deserto.
    Circondata da ampie mura ed una quantità di flora quasi fuori luogo, la cittadella vedeva i suoi tetti bombati e a punta, color oro, risplendere al sole. Un sole forte, caldo e sempre presente. Le notti, al contrario, erano corte e freddissime.
    Fuori dalla cittadella riconobbi immediatamente i famosi "Hotel delle Taglie" lì dove, in base alla quantità di crediti che si era disposti a pagare, avvenivano gli incontri con i cacciatori di taglie. Mentre all'entrata della cittadella c'erano Mandaloriani addetti agli accessi e la raccolta delle taglie. Noi superammo tutto ciò ed atterrammo all'interno delle mura.
    Quando uscì dalla navicella dovetti chiudere gli occhi, non ero abituata ad una luce così accecante, mentre fortunatamente la mia mise aveva finalmente un senso considerando le temperature proibitive.
    Mando mi chiese di seguirlo e lo feci silenziosamente, un passo dietro di lui. Mi guardai intorno curiosa e tutti mi fissavano. Nessun uomo o donna o bambino in quel luogo era senza un casco sulla testa eppure percepivo chiaramente gli sguardi di tutti su di me. Sguardi curiosi. Sguardi sgomenti. Sguardi confusi.
    Arrivammo in presenza, dopo aver percorso il decumano della città, del palazzo più grande. Bianco a quattro torri e con un portone intarsiato in oro. Quello si aprì senza bisogno di bussare e presto fui in presenza di un ampio salone ove le pareti erano in stucco verde con candelieri in bronzo e il pavimento era un'enorme scacchiera.
    Di fronte al grande camino una grande tela dipinta ricordava la Grande Purga, mentre l'altezza di 18 metri della stanza mi costrinse con il naso all'insù immaginando che se l'intero palazzo era così doveva essere assai fresco di giorno, ma freddo di sera.
    Sapevo che un tempo su Mandalore vi era una monarchia e quello doveva essere l'antico Palazzo Reale oggi... chissà sede del nuovo governo.
    Come se non bastasse le pareti ospitavano ogni tipo d'arma, tutte forgiate da The Armorer ed esse, tutte di sue proprietà. Ma io quello non potevo saperlo.
    “Rimani qui...” mi disse Mando, io feci per protestare, ma comprendendo che quella doveva essere una sorta di sala d'attesa accettai di buon grado. Presi posto su uno dei divani posti di fronte al grande camino spento e lo seguì con lo sguardo fin dove riuscì a vederlo, prima che scomparve dietro un'ampia porta di mogano scuro.
     
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    Roberta
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    Il calore cocente che regnava nella mia fucina avrebbe potuto far impallidire i più intrepidi dei miei fratelli, ma non me. Io lo consideravo un amico, un alleato. Solo quando mi trovavo intenta a forgiare armi e armature mi sentivo utile e capace di servire il Credo di Mandalore con tutta me stessa, senza riserve.
    Tanti anni fa, avevo ricevuto il grande onore di diventare la guida spirituale del mio popolo, ma io non ero un capo, non nel vero senso del termine. Nonostante tutti mi considerassero il loro punto di riferimento per svariate questioni, noi mandaloriani eravamo sullo stesso piano. La gerarchia era basata sulle glorie ricevute e il distinguersi in battaglie campali. Era così che ci si guadagnava i sigilli sull’armatura e si otteneva il rispetto di tutti i nostri simili. Ero la custode della verità, la protettrice della Via e la “madre” dei nostri amati trovatelli.
    Ero sempre pronta ad ascoltare, a dare consigli, ad assicurarmi che il Credo fosse in ogni occasione il primo pensiero dei miei fratelli e i nostri orfani fossero la loro priorità.
    Era un compito immane che gravava sulle mie spalle, ma la mia armatura mi aiutava a sorreggerne il peso. Avevo accettato di adempiere il mio dovere piena di fiducia e di speranza.
    Dopo la Grande Purga, la mia gente era stata sterminata ed eravamo rimasti in pochi a portare avanti gli antichi ideali mandaloriani, occupandoci degli orfani che avevano perso le loro famiglie, ma non solo… accoglievamo anche ragazzini di altri mondi, con altre storie, con altre tragedie a segnarli, e lo scopo era sempre lo stesso, per tutti.
    Essere mandaloriano era un Credo e non una razza. L'unica cosa che chiedevamo era di abbracciare la Via di Mandalore. Non c'erano seconde chance e su questo non transigevo. La regola era la regola!
    Stavo forgiando una spalliera ampia e ben modellata… percepivo goccioline di sudore imperlarmi le labbra e la fronte, ma il casco non mi soffocava, ormai faceva parte di me. Senza mi sentivo nuda ed esposta agli altri. Nessuno mi aveva mai visto in volto, nessuno dei miei fratelli, nessun estraneo. Ero ferrea nel sottostare alla disciplina che ci eravamo imposti. Come potevo indicare la retta via se non ero io la prima a seguirla?
    L’ex sala del trono era diventata la mia forgia, il mio posto, il mio regno… l'avevo creata con intenzioni precise, per disporre le mie creazioni: armi di ogni foggia, parti di armature finemente intarsiate e poi, per ricevere i miei fratelli. Nella navata ad est vi avevo posto la fucina con tutti i miei utensili ben riposti in un enorme scomparto a scorrimento, che si apriva con un semplice tocco, così tenevo sempre tutto a disposizione. Nella navata ad ovest, avevo aggiunto un tavolo con alte poltrone per i miei ospiti. Non vi era nulla di superfluo. Il Credo ci votava all’umiltà e all’essenzialità. Aborrivo qualsiasi tipo di lusso o sfarzo.
    Nonostante vivessi da molto tempo nell’ex Palazzo Reale, io stessa mi sentivo un ospite, una privilegiata. Per questo mi adoperavo giorno e notte per adempiere ai miei compiti. Nulla era gratuito nella vita, men che meno volevo lo fosse per me.
    Poco dopo giunse il mandaloriano che mi aveva commissionato la spalliera. La consegnai, fissandola alla sua armatura.
    “Ecco fatto. Con il prezioso metallo che hai recuperato sono stata in grado di creare una spalliera per te, ma con la rimanenza aiuterai molti trovatelli a crescere e formarsi!”
    “Ne sono onorato. Farò sempre del mio meglio!” La sua risposta mi rincuorò molto. Era facile cadere preda di vane illusioni di ricchezza e di orgoglio personale. Noi dovevamo essere superiori a tutto ciò.
    “Questa è la via!”
    Lo congedai, ansiosa di rimettermi a lavoro, di tornare nella mia dimensione di pace. La fatica mi schiariva la mente, corroborava il mio fisico.
    Udii dei passi avvicinarsi. Le porte della grande sala erano sempre aperte e non vi era bisogno di essere annunciati o di altre formalità antiche ed inutili.
    Mi voltai in direzione del rumore e riconobbi all'istante il mandaloriano che si stava avvicinando.
    Din Djarin era uno dei combattenti più in gamba che avessi mai incontrato. Si era addestrato e formato raggiungendo dei livelli altissimi di preparazione, pur avendo un talento innato per la lotta e la strategia.
    Grazie a lui e alle sue taglie consegnate, avevamo potuto salvare moltissimi trovatelli. Non aveva mai fallito una missione. Mai!
    Non era di molte parole, qualità da me molto apprezzata. Odiavo gli sproloqui vani e lo spreco di energie. Il suo altruismo però era leggenda e il suo animo era puro come pochi. Avrebbe fatto tanta strada e io ero fiera di averlo al mio fianco, anche se non avrei mai mostrato alcuna preferenza nei suoi riguardi.
    Osservando il suo incedere lento e la sua testa leggermente china verso il basso, compresi che qualcosa non andava. Si stagliò davanti a me, mentre io mi fermavo dal mio lavoro. La sua postura era rigida…
    Ormai avevo imparato a interpretare i gesti e le movenze dei miei fratelli, al pari di chi legge gli sguardi e le espressioni del volto. Nessuno era in grado di nascondermi i suoi pensieri e le sue preoccupazioni. Io però, non ero qui per forzare, per estrapolare informazioni, ma solo per ascoltare.
    Sapevo che era di ritorno da una missione. Che qualcosa fosse andato storto? Sarebbe stata la primissima volta.
    “Mandaloriano, cosa ti porta nella mia fucina?” dissi con voce tonante, allontanandomi dalla forgia e avvicinandomi a lui.
    “Torno con una taglia... ma non l'ho ancora consegnata. È una storia lunga, posso raccontarla?” Non si era mosso di un millimetro. Gli feci segno di seguirmi e ci accomodammo al tavolo posto a quello scopo. Il racconto sarebbe stato complesso e mi avrebbe riservato spiacevoli sorprese. Lo sapevo.
    “Seguimi…”
    Una volta seduti, il mio silenzio lo esortò a iniziare il suo racconto. A volte non c'era bisogno di usare le parole.
    “La Resistenza umana mi ha incaricato di trovare la chiave di codifica di alcuni codici dell’Impero Deviante. Codici che avrebbero permesso loro di sabotare dei laboratori dove vengono fatti esperimenti sulle persone... Il gerarca che doveva possederli però non li aveva con sé, perciò sono stato incaricato di trovare la moglie e portarla da loro in quanto possibile persona informata dei fatti...” Fece una pausa, come per raccogliere le idee. Io ascoltavo con attenzione. Respirò a fondo prima di riprendere a parlare. “Durante già un primo interrogatorio è parso fin da subito che lei non fosse affatto informata dei fatti. Ciò nonostante, dopo vari tentativi e imprevisti, abbiamo trovato la chiave. Il marito l'aveva inserita nel medaglione che lei porta sempre al collo...”
    “La tua missione, dunque, erano prima i codici, e poi la donna… Perché non l'hai ancora consegnata?” chiesi solenne. Un'altra cosa su cui ero decisamente intransigente era deviare dall’incarico. Nonostante ci fossero stati dei cambi di programma in corso d'opera, il risultato doveva essere chiaro e definitivo: missione compiuta. Sempre!
    “Perché ho la chiave e quindi consegnandola, avranno ciò per cui sono stato ingaggiato. La donna non ne sa nulla di più, ma temo che possano usarla per altri scopi.”
    La sua schiena rigida mi fece comprendere la tensione che provava, nonostante la voce fosse naturale. Non mi stava ancora dicendo tutto.
    “Non è tuo compito chiedere cosa ne sarà della taglia che consegni. Strada facendo lei è diventata la tua missione. Il cliente la vuole. Portala da loro insieme ai codici e completa l'incarico, riscuotendo il compenso.”
    Ero stata diretta. Non c'era altra soluzione.
    La tensione che provava adesso si stava tramutando in agitazione.
    “Non posso. La torturerebbero o userebbero come merce di scambio. Non lo posso permettere, è innocente.”
    Non voleva darmi ascolto. Aveva già deciso, ma non gli avrei dato il permesso che mi chiedeva senza la verità. La storia era ancora incompleta.
    “La tua caparbietà è famosa quasi quanto la tua forza!” dissi, facendo una lunga pausa… Lui conosceva bene le mie pause e i miei silenzi, che a volte pesavano più di mille parole.
    “Per quale motivo sei venuto qui da me, se hai già deciso la sorte di questa donna?” chiesi con apparente tranquillità, che in realtà nascondeva un fiume in piena, che io tenevo sempre ben contenuto tra i suoi alti argini.
    “Per avere il tuo permesso e il tuo consiglio. Se la Resistenza farà problemi, devo essere certo del tuo appoggio, so come tenerla al sicuro. È una Deviante, ma non ha esitato a salvarmi la vita da un veleno a me sconosciuto."
    Eccola la verità. Finalmente avevo capito il motivo della sua insistenza. In queste occasioni, il suo parlare poco era davvero estenuante.
    Ma io ero brava ad attendere i suoi tempi fino raggiungere l’obiettivo finale.
    “Dunque sei legato a lei da un vincolo di riconoscenza. Ti ha salvato dalla morte e vuoi assicurarti che non le venga fatto alcun male…” Feci un riassunto dei fatti, più per me che per lui. “Allora le cose cambiano, Mando. E non di poco!”
    “Sapevo che avresti colto le sfumature. Lei è qui... qui fuori intendo. Vorrei lasciarla con te e vedere se riesco a sistemare questa cosa con la Resistenza senza ulteriori ostacoli."
    Aveva parlato, colto da una emozione profonda. “Sì, sono brava a cogliere le sfumature, quando si espongono i fatti…”
    Questo mandaloriano continuava a inviarmi segnali che avrei dovuto analizzare, ma che già a primo acchito, mi suggerivano bizzarre teorie. Poi, dovetti soffermarmi sulle sue ultime frasi e temetti, per un minuscolo attimo di perdere la mia proverbiale seraficità.
    “Stai dicendo che una donna non mandaloriana sta sostando nella sala d'attesa?” Era una domanda retorica per consentirmi di mantenere la calma. Poi proseguii. “Conosci bene le nostre leggi, Mando. Lei sta girando per le strade del nostro pianeta, e non è da considerare una taglia, perché tu non la consegnerai. Non ti sembra ci sia qualcosa di sbagliato in tutto questo?” Stavolta volevo una risposta. Nessuna retorica avrebbe placato la mia insofferenza.
    Mando restò in silenzio qualche attimo prima di rispondere. Stava scegliendo con cura le sue parole.
    “È sola e indifesa. Sul suo pianeta la credono morta e se così non fosse avrebbero già tramato per ucciderla. Non potevo lasciare un'innocente - che mi ha persino salvato la vita - senza alcuna protezione. Il nostro credo non permette neppure questo. Non avevo scelta."
    Eccolo che tornava alla carica dopo avermi illuso con pochi attimi di silenzio. Era un testardo, e le sue argomentazioni, alla fine si dimostravano in qualche modo valide. Non era mai tutto bianco o nero. Il nostro Credo aveva delle regole ferree e ineludibili, ma quando vi era di mezzo l’incolumità di un indifeso, si mettevano in secondo piano, perché la protezione dei più deboli era posta sopra ogni altra cosa.
    “Mi hai raccontato tutta la storia adesso? Oppure devo sapere altri dettagli? Solo quando sarò a conoscenza di ogni cosa, potrò darti il mio consiglio.”
    “Dirò alla Resistenza che lei è morta. Tornando sulla Terra, scopriranno che è proprio così. E poi... beh, poi le chiederò di entrare nel mio Clan così che possa rimanere qui per un po', ma senza creare problemi."
    Con la sua risposta aveva risposto a più di una domanda, che frullava nella mia testa. Ma il suo atteggiamento me ne aveva create delle altre. Era capace di arrivare a questo? Quanto importante era per lui questa donna, tanto da consentirle di far parte del suo Clan?
    Ora potevo dire la mia.
    “Il Credo ci impone di proteggere gli indifesi. E se lei è e ha fatto ciò che dici, non c’è altra via. La devi tenere con te, ma devi anche adempiere agli obblighi verso la tua missione. Consegna i codici, riscuoti il pagamento e poi torna da me. La donna può restare qui nel frattempo, ma ricorda che adesso è una tua responsabilità?”
    “Farò in modo che stia al sicuro, le darò la possibilità di trovare la sua strada... Ha subìto fin troppe imposizioni nella sua vita. Di contro, sono certo che rispetterà le nostre regole."
    “Conto su di te. Adesso portala qui.”
    Pochi minuti dopo vidi una donna varcare la soglia della mia fucina, il mio luogo sacro. Da quanto tempo non scorgevo lineamenti di carne e di pelle?
    Tutti noi portavamo il casco fin da bambini. Era consentito toglierlo in occasioni del tutto particolari solo ed esclusivamente tra mandaloriani.
    Ma io non lo avevo mai fatto, neppure quando ero stata in fin di vita dopo una cruenta battaglia! Una strana sensazione mi avvolse e mi concentrai ad osservarla. Era ancora distante. Si guardava attorno con la meraviglia negli occhi. Ammirava le mie creature. Sembrava spaesata, ma non aveva paura. Si trovava su un pianeta sconosciuto, ostile per certi versi… e lei non ne era intimorita. Rimasi colpita dalla sua forza d'animo. Chiunque con il suo passato e le tragedie vissute, avrebbe affrontato l’ignoto con confusione e terrore.
    Mi si era fatta più vicina e mi sorrise. Non avrebbe potuto scorgere la mia espressione addolcita. Non le avevo sorriso di rimando, no, ma non mi sentivo neppure ostile.
    Li vidi parlottare a bassa voce. Probabilmente Mando le stava dicendo chi fossi e che si sarebbe dovuto assentare. Poi si voltò nella mia direzione.
    “Sono nelle tue mani” Sapevamo entrambi cosa sarebbe seguito al nostro incontro.
    “Adesso vai e porta a termine il tuo incarico. Questa è la via!”
    La donna, di cui ancora non conoscevo il nome, mi guardò con occhi sgranati. Forse non immaginava di avere davanti un’altra donna. Noi mandaloriane, accettavamo di mimetizzarci, anche se molte preferivano avere dei chiari segni decorativi e distintivi sulla propria armatura. La mia era sicuramente dalle linee più morbide, rispetto a quelle maschili, ma non adoravo i ghirigori e un occhio inesperto avrebbe potuto confondermi con un uomo.
    Mando lasciò la sala e io invitai la nuova arrivata ad accomodarsi. Non ero il tipo che offriva tè e pasticcini come si faceva sulla Terra, ma non avevo dimenticato le buone maniere, sebbene negli ultimi anni della mia vita avessi avuto a che fare quasi solo con rudi cacciatori di taglie.
    Lei si mosse con grazia innata e si mise a sedere.
    Notai i suoi abiti “rattoppati” ma non mi sfuggì la foggia lussuosa dei tessuti. Era ricca, di buona famiglia ma non aveva esitato a strappare le sue costose vesti, adattandole alle necessità.
    La stavo analizzando da dietro il mio casco impenetrabile e mi resi conto che avrei potuto metterla a disagio. Non ero abituata a “trattare” con persone normali.
    “Qual è il tuo nome?” le chiesi con tono neutro. Non volevo mostrare le emozioni che mi imperversavano dentro attraverso la mia voce.
    Mi guardò con intensità, come se potesse penetrare il casco, ma ovviamente era impossibile.
    “Il mio nome è Omera” disse con decisione e senza mai abbassare il capo.
    Non mi temeva e ne ero felice, ma volevo capire tante cose. Nessuno straniero era mai entrato a Mandalore e dovevo assicurarmi che lei non avrebbe inquinato il nostro mondo con qualche subdolo piano.
    “Omera… non so se conosci le Leggi di Mandalore. Sei giunta qui come taglia da consegnare, ma adesso le cose sono cambiate. Io devo essere certa delle tue intenzioni e delle tue volontà. Non accetterò mai nella nostra città qualcuno che potrebbe attentare alle nostre tradizioni o alle nostre credenze. Ho bisogno di sapere che di te ci si può fidare.” Non badai a modulare il tono, ma ero certa che fosse venuto fuori duro, tagliente. Solo io sapevo quanto fosse importante per me il mio popolo e neppure le convinzioni di Mando mi avrebbero fermato, se avessi scoperto qualcosa di pericoloso.
    “Non conosco bene il vostro pianeta e il vostro credo, ma sono informata del fatto che siete una comunità molto conservatrice. Non voglio sconvolgere i vostri usi e costumi. Semplicemente sono arrivata qui per una questione di necessità e di circostanze inattese. Quindi, credimi quando ti dico che non ho nessuna cattiva intenzione, vorrei solo potermi rifare una vita, dimenticando il passato.” Volevo che mi dicesse quelle esatte parole, e speravo lo facesse. Avevo osservato la sua espressione, il suo volto, la sua voce. Avevo capito che era del tutto sincera.
    Non avevo molto altro da aggiungere.
    “Mando vuole proteggerti per dei motivi che ho accettato. Ho capito che il tuo cuore è puro.”
    Sapevo che probabilmente per lei non avrebbe avuto senso, ma la sua protezione e difesa adesso faceva parte delle nostre responsabilità.
    “Questa è la via!”


    Edited by SydneyD - 8/1/2021, 17:42
     
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    Dovevo restare concentrato. Anche se ero quasi certo che la Resistenza avrebbe ceduto sotto le mie argomentazioni, non potevo permettermi di sbagliare. Camminavo sul filo di un rasoio e avrei avuto bisogno di tutto il mio famigerato autocontrollo per non cadere. Ciò nonostante, non ero riuscito a tenere la mente distante da un pensiero che si era fatto via via più fisso, ingombrante, invadente: Omera. Stava bene? Armorer l’avrebbe messa a suo agio? Sapevo che l’avrebbe “messa alla prova”, ma non era questo che mi impensieriva. Ero convinto che Omera avrebbe superato qualsiasi esame, il suo animo non aveva macchie, ma era sola… in una società sconosciuta, profondamente chiusa e conservatrice. No, non eravamo arretrati, ma dopo quanto avevamo sofferto, ci tenevamo moltissimo acciocché le nostre tradizioni non venissero inquinate. Armorer e io conoscevamo la verità su di lei, ma cosa avrebbero pensato gli altri? Soprattutto dopo la mia richiesta… sempre se avrebbe accettato, questo non era del tutto scontato. Ma non era ancora il momento di pensarci, mi ero imposto di cancellare ogni elucubrazione e risolvere un problema alla volta.
    Arrivato all’Hotel delle Taglie, ero stato subito ricevuto dai miei mandatari. I due capi erano ansiosi di conoscere l’esito della mia missione. Di proposito, durante il viaggio di ritorno, non li avevo aggiornati, avevo avuto bisogno di tempo per ragionare sulle mie mosse successive e avevo fatto bene. La notizia del recupero della chiave era stata accolta con sollievo ed esultanza. Quando mi avevano chiesto della donna, avevo riferito i fatti così come si erano svolti… omettendo giusto la parte finale. La mia vaga insinuazione che il responsabile della sua morte potesse essere uno dei loro aveva generato imbarazzo, tanto da non farli ulteriormente insistere sulla questione, liquidandola con qualche parola di circostanza. Sembrava proprio che l’ultima mano fosse stata vinta dal sottoscritto. Mi avevano consegnato la ricompensa – una quantità di metallo Nth che avevo visto una sola volta, prima di questa, nella mia intera esistenza – e mi avevano ringraziato per i miei servigi. Meglio di così non poteva di certo andare, sarei stato comunque più tranquillo quando avrebbero lasciato il pianeta: le possibilità di scoprire la verità su Omera si sarebbero automaticamente azzerate.
    I passi che mi riportarono da Armorer furono più leggeri e più pesanti al tempo stesso. In una mano stringevo la valigetta con il metallo prezioso, la prova che avevo compiuto la missione e non avevo disonorato il mio credo, ma a Palazzo mi attendeva anche lei. Avrei dovuto spiegarle ogni cosa, dirle che ormai era libera, che avrebbe potuto reinventarsi da zero… e tutto il resto, insomma.
    La Sala d’Attesa era vuota, uno strano senso di angoscia mi strinse il petto. Dov’era finita? Quando fui nella fucina e la vidi, tutto parve tornare alla sua normalità… dentro al mio petto. Stava bene, anzi pareva quasi raggiante in volto… Le feci un cenno col capo e Armorer la invitò a uscire.
    “Ti raggiungo tra un po’, aspettami qui fuori.” Le parlai a bassa voce, vicino vicino, mentre le indicavo gli scalini della soglia affinché non inciampasse.
    Consegnai il compenso, come da tradizione, e mi sedetti per aspettare il suo responso.
    “Nonostante le difficoltà, sei riuscito a portare a termine la missione. La donna è adesso al sicuro?” mi chiese, intanto che suddivideva i lingotti di metallo Nth. Se la conoscevo almeno un po’, stava già decidendo la destinazione di quelle risorse.
    “Sì, è al sicuro. La Resistenza tornerà sul suo pianeta con la chiave e soddisfatta del nostro operato” risposi con voce tranquilla. Era questo che a lei premeva, che il nostro onore restasse intatto, da questo dipendeva ogni nostra azione.
    “Ottimo. Vista la grande ricompensa che hai portato, ti forgerò una nuova armatura, è ora di cambiarla. Con l’eccedenza tanti trovatelli potranno continuare a mangiare e addestrarsi.”
    Non dissi nulla. Le sue erano sentenze per le quali non aspettava una vera risposta, né io sarei stato in grado di formulare frasi adeguate al grande onore che mi stava concedendo.
    Lavorò duramente alla forgia per un’ora buona, forse qualcosa in più. La osservai muoversi sicura tra gli attrezzi e battere con forza sul metallo per modellarlo e rifinirlo. Il mio pensiero corse a Omera, speravo che non si impensierisse troppo…
    Quando Armorer montò i vari pezzi sul mio corpo, mi parve quasi di levitare. Erano leggeri, perfettamente modellati ai muscoli, non impacciavano i movimenti… anzi, riuscivo a muovermi con più fluidità adesso. L’armatura precedente, per quanto ancora resistente, aveva delle ammaccature – figlie di numerose battaglie – che rendevano i gesti più macchinosi. Solo che me ne rendevo conto solo ora… che l’ostacolo non c’era più.
    “Ti sono grato per questo grande dono, saprò onorarlo portando alto il vessillo del credo…”
    “Non passerai di certo inosservato tra i nostri fratelli, ma te lo sei meritato. Adesso va’ e compi il resto della tua missione.” Mi diede una scatolina che non osai aprire ancora, ma che portai con me come se fosse ancora più preziosa dell’intera armatura. “Questa è la via.”
    “Questa è la via.”
    Quando uscii dalla cucina, fu strano notare negli occhi di Omera una miriade di emozioni, talmente cangianti da confondermi. Ansia, sorpresa, ammirazione, felicità. Almeno credevo di aver visto tutto questo, ma avrei anche potuto sbagliarmi. La avvicinai e le feci segno di seguirmi. Volevo parlarle, ma avevo bisogno di un posto più tranquillo e riservato. Lei non disse nulla, percepivo la sua fremente curiosità e le mille domande che stava trattenendo a fatica, ma apprezzavo molto questo suo saper scegliere i momenti giusti… per ogni cosa. La portai in una saletta più piccola, dai soffitti altissimi e dalle pareti finemente affrescate. Omera restò incantata a osservare i dipinti, ma la sua attenzione tornò presto su di me, sapeva che avevo molto da raccontarle. Senza nemmeno pensarci mi prese per una mano e mi portò verso alcune poltroncine. Il contatto improvviso mi colse di sorpresa, ma questa volta non mi ritirai, anche se il cuore iniziò a battere forte. Respirai profondamente e la seguii. Una volta seduti mi decisi a giocarmi il tutto per tutto.
    “È tutto finito. Ho raccontato alla Resistenza che sei morta nell’incendio del tuo palazzo, gli ho consegnato la chiave e questa sera stessa ripartiranno per tornare a casa. Non devi più preoccuparti di loro… sei libera…” Tossicchiai, più per schiarire le idee che la voce in realtà. “Posso portarti dove desideri, così come potresti restare qui in attesa di decidere cosa fare, dove ricominciare da zero… La scelta spetta solo a te.” Non volevo costringerla a una decisione precisa.
    Omera mi fissò a lungo, nel mentre si torceva le mani strette in grembo.
    “Sinceramente, adesso, non saprei proprio dove andare. Restare qui potrebbe essere una soluzione anche se temporanea, ma so che non sarebbe poi così semplice… vero?” Non abbassò lo sguardo in attesa di una mia risposta. Era molto perspicace e lo dimostrava con le sue continue intuizioni.
    “Hai ragione, i non mandaloriani non possono vivere all’interno delle mura, ciò nonostante non potrei permettere che tu viva al di fuori di esse: il nostro pianeta è una terra brulla e inospitale, solo Mandalore rappresenta una vera e propria oasi nel nulla. Per cui, una soluzione ci sarebbe. Se tu entrassi nel mio Clan, potresti restare…” D’accordo, forse dovevo spiegarmi un po’ meglio, l’espressione confusa di Omera era molto più eloquente di qualsiasi domanda. “Entrare nel mio Clan significa essere sotto la mia responsabilità, fare parte della mia piccola famiglia… Abiteremmo sotto lo stesso tetto, ma non ci si deve necessariamente sposare, ciò nonostante è un po' come se per gli altri fosse così… Insomma, avresti tutto il diritto di camminare tra i mandaloriani a testa alta… Ma non avrai alcuna imposizione da parte mia, se non quella di rispettare le regole della comunità.” Ecco, adesso forse poteva decidere con più cognizione di causa. Cercai di imporre al mio cuore un ritmo normale, ma pareva non volerne sapere.
    “Voi quindi potete sposarvi?” Questa volta, fu il mio turno di guardarla confuso.
    “Certo. Non siamo un ordine monastico. Non ci viene impedito di crearci una famiglia, avere dei bambini e cose simili…”
    Perché era così agitata? Non riusciva a star ferma sulla poltrona e le dita erano diventate rosse per lo strofinio. “Non ti sto chiedendo di sposarmi, Omera. Puoi scegliere ciò che è meglio per te, entrare nel mio Clan ti permetterà di restare, ma non avrai altri obblighi… lo capisci questo? Anche io ero nervoso adesso, più di prima ovvio.
    “Oh no! Non intendevo questo. Mi chiedevo, beh, mi chiedevo quante altre famiglie ci siano qui a Mandalore. Forse potrei conoscere qualche altra ‘moglie' cosi che mi possa spiegare come dovrò comportarmi… Non è una buona idea?” Cercavo di orientarmi e leggere tra le righe, cosa voleva dirmi? Accettava? Era solo curiosa dei nostri usi e costumi? Ero ancora immobile ma la mia rigidità si era trasformata… Omera ne era consapevole, me ne rendevo conto.
    “In realtà, non c’è ancora nessuna piccola famiglia. Siamo tutti cacciatori di taglie e non siamo molto portati verso altri interessi… ecco… insomma… tu saresti la prima! Ma è tutto in regola, Armorer è d'accordo, si può fare!” Faticavo a respirare e non capivo perché. Faticavo anche a spiegare quello che avevo in testa molto chiaro. Temevo che lei potesse vedere tutto ciò come una specie di prigione: le regole di Mandalore non erano facili…
    La vidi prendere un respiro profondo e subito dopo mi elargii un sorriso luminoso… lo stesso a cui dovevo essere ormai abituato ma che ogni volta mi lasciava lì, impalato.
    “Non intendevo nulla del genere. Sono commossa, emozionata, grata. Stai facendo qualcosa di tanto buono, forse non te ne rendi nemmeno conto. È vero ti avrò salvato la vita, ma tu adesso me la stai rendendo indietro. Prometto che seguirò tutte le regole, sarò sempre discreta, non peserò in alcun modo, anzi potrei esserti di aiuto… potrei tenere in ordine la casa, preparare i pasti, rendere più confortevoli i tuoi ritorni…”
    Questa volta fui io ad andare contro ogni mia solida certezza: le misi una mano sulle sue. Era talmente grande da coprirle per intero…
    “Non c’è alcun debito da saldare, Omera. Questo vorrei fosse chiaro…” La vidi annuire e asciugare una piccola lacrima all'angolo di un occhio. Veloce, come se fosse sfuggita contro la sua volontà. Non avevo altro da dire, ma di sicuro adesso era tutto più chiaro.
    […]
    Le settimane che seguirono furono le più strane della mia vita. Provai sensazioni sconosciute, come quella di trovare la colazione pronta al mattino, le lenzuola sempre pulite, pasti caldi al mio ritorno dalle varie missioni.
    La mia casa era un guscio di legno che avevo costruito con le mie mani nella zona dei laghi, molto periferica rispetto al centro, ma per questo tranquilla e adatta alle mie esigenze. Ci avevo dedicato ogni attimo libero del mio tempo, che non era moltissimo. Era piccola, due stanze appena, ma avevo voluto che fosse confortevole… almeno per me. Con la presenza di Omera mi ero reso conto appieno del mio stile di vita a dir poco frugale – di sicuro non molto diverso da quello degli altri mandaloriani – e modesto. I cibi solidi erano un lusso che mi concedevo raramente, si deterioravano troppo in fretta e non avevo modo di rimpiazzarli nel caso in cui dovevo mancare per lunghi periodi. Avevo un'ampia gamma di pillole e liofilizzati che mi davano tutte le energie di cui necessitavo, oltre a cibi più che altro in scatola e con lunga scadenza. Finiva lì, prima del suo arrivo. Omera mi aveva insegnato la meraviglia di un assaggio, di gusti nuovi, di attenzioni che mai avevo ricevuto e mai mi erano mancate. Ogni cinque o sei giorni si prendeva la briga di recarsi ai mercati itineranti che si avvicendavano oltre le mura. Noi mandaloriani eravamo davvero tutti cacciatori di taglie, perciò per qualsiasi necessità – utensili, beni di prima necessità, armi – ci rifornivamo in questi grandi mercati in cui si poteva trovare, a rotazione, qualsiasi cosa. Dopo la costruzione della cittadella, molti mercanti avevano creduto di fare la loro fortuna installandosi in maniera fissa fuori Mandalore, ma presto si erano resi conto dell'errore di calcolo. Conducevamo una vita molto semplice, molto diversa da quelle degli altri cacciatori di taglie; tenevamo dalle ricompense solo lo stretto necessario per sopravvivere e armarci, tutto il resto veniva dato a nostri trovatelli. Così, alla fine, avevano sbaraccato e deciso di portare la merce ogni tot di giorni a turno. Altri temerari avevano provato a creare delle coltivazioni per fornire materie prime fresche, ma la terra era arida e pochissimi frutti avevano la forza di crescere, così anche quelle venivano “importate". Solo una volta al mese, venivano fatti i rifornimenti più importanti che servivano proprio per gestire le case degli orfanelli, per garantire loro beni di primaria necessità. Anche se, in ogni caso, non venivano cresciuti nel lusso, al contrario, fin da piccoli venivano addestrati per una vita onorevole e lontana dagli eccessi… io lo sapevo bene, avevo percorso il loro stesso cammino tanti anni prima e nulla era cambiato.
    Omera era venuta in contatto con questa realtà, di certo ben diversa da quella a cui era abituata sul suo pianeta. Veniva da una famiglia abbiente, non le erano mai mancati gli agi né tantomeno i lussi, eppure… pareva essersi ambientata fin da subito. Sembrava amare la casa, qualche volta l’avevo vista aspettare l'alba sul pianerottolo che affacciava sul lago grande, godersi una bevanda calda seduta sempre sotto il piccolo portico, ogni stanza era pulita alla perfezione… e capivo che lo faceva con una dedizione ben diversa da quella che scaturisce dalla necessità di sdebitarsi.
    E non finiva certo qui. Più di una volta, Armorer mi aveva riferito che anche in centro era ben vista dagli altri abitanti. Non era invadente, ma si rimboccava le maniche se c'era da aiutare qualcuno. Aveva persino acquistato dei libri ai mercati che aveva poi donato ai trovatelli… Adorava l’astronomia, conosceva tantissime storie, che raccontava loro per intrattenerli ma anche per insegnargli sempre qualcosa di nuovo. Non avrei dovuto stupirmi in realtà, ma in fondo scoprire che quando andavo via lei comunque era in buone mani mi rincuorava molto… oltre a farmi anche tanto piacere.
    In uno dei miei viaggi avevo fatto rifornimento di infusi particolari e spezie per la sua cucina, così per farla sentire più a casa e lei aveva talmente apprezzato che il giorno dopo avevo trovato una tazza fumante di quello che chiamavano caffè e un fagottino di pane dolce appena sfornato per colazione. Quando entravo in sala avevo già il casco, ma Omera non c'era mai… ormai conosceva i miei orari e mi lasciava solo, la sua delicatezza mi aveva piano piano scavato dentro. Mi ripetevo che sarebbe andata via, che non avrei dovuto abituarmi a tutto questo, perché avrebbe lasciato un vuoto altrimenti troppo grande da colmare… ma già sapevo di aver superato il limite ultimo e che avrebbe fatto molto male perderla… Anche se sembrava felice, non era detto che avrebbe preferito rifarsi una vita altrove, con una persona al sua fianco da poter guardare in faccia, da poter amare tanto quanto una donna come lei era in grado di fare, senza alcuna restrizione.
    Guardavo ogni volta il casco che stringevo tra le mani prima di calarlo sul viso, e ripensavo al nuovo significato che aveva assunto, in aggiunta a tutto il resto: un muro invalicabile oltre cui era impossibile andare. Solo col tempo mi resi conto che “impossibile" per Omera era una parola che non aveva alcun significato…
     
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    La vita su Mandalore non era esattamente quella a cui ero stata abituata, ma proprio per questo mi piaceva. Lo svegliarmi la mattina con la possibilità di affacciarmi e godere dell'alba sulla superficie piatta del lago, avere la calma ed il piacere di preparare i pasti, il perdermi tra gli odori e i colori del mercato... tutto senza che nessuno mi imponesse nulla, senza che nessuno mi desse orari, regole o imposizioni. Facevo tutto con estrema gioia, con un sorriso sereno e gioioso che da anni non vedevo sul mio viso che pareva perfino ringiovanito.
    Certo amavo prendermi cura di me, ma non ero mai stata vanitosa a tal punto di pretendere o desiderare abiti costosi o monili scintillanti. Anzi mi piaceva cucirmi i miei stessi indumenti, qualcosa che avevo imparato a fare, ma avevo potuto poco mettere in pratica perchè era indubbiamente di cattivo gusto che una donna di alto rango come me facesse azioni tanto umili, uguale per quanto concerneva anche pulire o cucinare. Ed invece a me faceva sentire bene.
    I crediti che usavo per gli acquisti erano quelli a disposizione di ogni Mandaloriano, gli stessi che, avevo imparato, variavano in base al proprio lavoro e a quante taglie si portavano a casa. Ero molto parsimoniosa, non spendevo mai troppo più del dovuto e tutto ciò lo destinavo unicamente alla sopravvivenza di entrambi seppur cercavo di unire la qualità con il risparmio ed avevo scoperto con mio grande piacere di essere assai brava nella contrattazione. Questo, in uno dei miei ultimi giri al mercato mi aveva permesso di ottenere, in regalo, scampoli di tessuti ormai con metraggi troppo piccoli per essere venduti. Ci lavorai duramente su, ma alla fine riuscì a regalarmi un meraviglioso abito color verde acqua.
    Non era molto lungo, fermandosi sopra alle caviglie, così da agevolarmi nei movimenti, ma era decisamente bello. Quel bello che per troppo tempo non avevo potuto indossare costretta in look austeri e rigidi. Aveva le maniche lunghe che arrivavano fino a metà mano e lasciava le spalle scoperte per via dell'ampio scollo a barca. L'orlo della gonna, delle maniche e dello scollo li avevo decorati con piccoli sassolini recuperati dalla piccola spiaggia sotto casa e poi avevo concluso il tutto con un bustino non troppo rigido, ma che sosteneva il mio seno e soprattutto segnava il girovita. Era in pelle lavorata, così da dare un tocco da "guerriera" all'intero look.
    Lo riposi nell'armadio e per qualche strana ragione mi dissi che lo avrei indossato a qualche occasione importante, non che credevo che ce ne sarebbe stata una a breve, ma... lo misi lì ed accarezzandolo mi convinsi invece che al momento giusto lo avrei saputo.

    Come ogni mattina una delle mie tappe fisse era la scuola, tanto che ormai ero diventata una presenza più che consolidata. Avevo messo a disposizione le mie conoscenza su alcuni argomenti per poterli insegnare ai bambini ed in cambio avevo chiesto una sola cosa: che mi fosse concesso di assistere alle lezione di addestramento degli stessi.
    Venendomi concesso iniziai ad imparare i rudimenti del corpo a corpo, dell'uso delle armi bianche ed infine anche quello a sparo. Imparavo in fretta e così non era raro che mi fermassi dopo le lezioni giornaliere per approfondire il mio addestramento.
    Avevo condiviso con orgoglio queste informazioni con Mando che, nonostante la meraviglia, si disse molto contento della cosa. Era strano per me parlare con qualcuno che mi ascoltava, che si interessava davvero alle mie giornate e cosa più importante era felice del mio entusiasmo. Quello che lo premeva era solo che non facessi nulla che io non volessi e quella era decisamente una premura che apprezzavo.
    Fu in quell'occasione che gli mostrai un po' dei miei riflessi e rimase incredulo quando mi vide sparare: 10 centri su 10 tiri. Avevo scoperto anche io, con estrema sorpresa, di avere un'ottima mira e se avevo alcune imperfezioni fu lieto di aiutarmi a sistemarle.
    “Quando spari con una mano, devi assicurati di avere stabilità...” iniziò a dirmi, mentre portavo una gamba leggermente avanti e l'altra la tenevo un poco indietro. Un braccio era lungo il fianco e l'altro teso in avanti, mentre Mando alle mie spalle mi aiutava a puntare in modo corretto.
    “Il braccio deve essere teso ed il respiro regolare... ogni minima variazione, varia...”
    "La linea di tiro..." dissi concludendo la frase e sorridendo quasi timidamente quando voltandomi notai il suo casco ad un soffio dalle mie labbra. Con lui così vicino e la sua mano sulla mia ammetto che faticavo a regolare battito e respiro e quasi si fosse accorto anche lui di quella tensione si allontanò. Capo basso e postura eretta di chi voleva velocemente passare oltre.
    “S-Sì esatto. Impari in fretta...”
    "Così dicono..." ironizzai, prima di tornare al bersaglio e senza indugiare oltre sparare e bè... andò bene... molto bene, tanto che voltandomi verso di lui fui quasi certa di vederlo sorridere sotto il casco.

    Non erano molti i momenti che passavamo insieme, per via del suo lavoro, ma non era certamente un cruccio che gli facevo pesare anche e soprattutto perchè sapevo e riconoscevo che fosse la sua vita intera, ma sì quando capitava amavo passare del tempo con lui a parlare o anche solo a stare seduti in silenzio ad osservare il cielo stellato o il tramonto. Valorizzavo il silenzio, ma soprattutto avevo imparato a valorizzare il suo.
    Comprendevo ormai se un suo gesto era sinonimo di fastidio, di stanchezza o di frustrazione. Ma avevo imparato a leggere anche quando, impacciatamente, mi chiedeva di restare o di condividere qualche parola insieme.
    Le albe e i tramonti erano molto strani su Mandalore perchè nonostante il sole apparisse come sulla Terra, in realtà ciò che risplendeva enorme, quasi come un pianeta in rotta di collisione, era Marte. Il sole quasi pareva far capolino dietro di lui ed il contrasto mi faceva sempre molta tenerezza. Lo stavo infatti osservando, come ogni mattina, con in mano la mia tazza di té caldo, quando qualcosa attirò la mia attenzione.
    Avevo dato per scontato che Mando avesse fatto colazione e fosse andato via, ma voltandomi notai il suo caffè anche fumante, fu dunque sporgendomi un po' dalla balaustra che notai la figura di un uomo infrangere lo specchio piatto del lago.
    Avrei dovuto rientrare, ma non lo feci. Era di spalle, più strette di come avevo immaginato con l'armatura, ma ben allenate. Di chi aveva visto mille battaglie. Lo capivo anche dalle cicatrici rosee che scalfivano la sua pelle olivastra, mentre i capelli corti e nerissimi erano all'aria e spettinati. Questo prima di venir "lisciati" dall'acqua dopo che, essendosi immerso completamente in essa, aveva passato le mani sul capo per riportarli indietro.
    Sentì in me un'emozione enorme crescere, mentre le guance diventavano tizzoni ardenti ed istintivamente mi mordevo il labbro inferiore. Che curiosità di vedere il suo viso, quello che, sì dovevo ammettere, avevo iniziato ad immaginare. Scossi il capo violentemente costringendomi, a fatica, a rientrare in casa. Se fossi rimasta ancora lì si sarebbe potuto accorgere della mia presenza ed io non volevo né essere incomoda né maleducata.
    Mi diedi una calmata, una lavata, una sistemata e poi rimasi nella mia stanza, il corpo e l'orecchio poggiati alla porta chiusa fin quando non percepì lui rientrare. Sorrisi certa che doveva essere senza casco, probabilmente credendomi già fuori casa, a scuola. Fu difficile resistere alla tentazione di aprire e così prima che potesse succedere parlai.
    "Sono a casa" annunciai "Io ho già fatto colazione, sistemati con calma e quando sei pronto esco..." lo avvisai.
    Era strano immaginarci ad una sola porta di distanza, certo era già capitato, ma... lui doveva essere appena tornato dalla spiaggia, chissà forse avvolto solo in un asciugamano, forse quello che avevo visto sulla battigia. Con uno più piccolo senza dubbio si era dato un'asciugata ai capelli che ora dovevano essere all'aria, prima di tornare a vestirsi. Il tessuto pesante della maglia, dei pantaloni e poi il freddo del metallo nh, tanto possente quanto leggero. Glielo avevo chiesto come facevano a portarlo così tanto e lui diceva che non era come gli altri metalli, averlo addosso era come non sentirlo, ma nessuno poteva vantare un'armatura di puro metallo nh ecco perchè era così faticoso portarla... anche se ora ciò non valeva per lui. Ero rimasta a bocca aperta la prima volta che l'avevo vista, così maestosa, lucida, elegante...
    Doveva aver anche indossato il casco perchè la maniglia si abbassò e facendo un passo indietro vidi la porta aprirsi e la sua figura stagliarsi di fronte a me.
    "Me ne sono accorta dalla colazione..." gli dissi prima che potesse chiedermi qualsiasi cosa, non volevo che sapesse che lo avevo visto, insomma avevo paura di offenderlo in qualche modo. Semplicemente gli sorrisi e superandolo mi apprestai ad uscire di casa, non prima di ricordargli di godersi il caffè ancora caldo...

    Quando alla mattina del mio 35esimo giorno su Mandalore mi svegliai, mi imposi che quello sarebbe stato il giorno in cui avrei iniziato a prendere le redini della situazione ed avrei agito di conseguenza. Se fosse stato per me non me ne sarei mai andata, ma come potevo rimanere? Sapevo di essere un ospite, sapevo che stavo approfittando di una situazione che avevo paura incomodasse Mando più di quanto desse a vedere. Così quel giorno compì le mie solite mansioni e poi mi informai circa le tratte disponibili da Mandalore ad altri pianeti, presi qualche appunto e tornata a casa mi imposi di rimanere sveglia in attesa del suo ritorno. Non sapevo se sarebbe stato in nottata o il giorno dopo o il giorno dopo ancora. Attesi. E lo feci avvolta nel mio splendido vestito nuovo, non seppi nemmeno perchè l'avevo indossato, ma forse mi ero detta che se doveva essere la mia ultima notte lì, allora forse era da considerare un'occasione speciale.
    Mi avvolsi nella pesante stola di pelliccia che in coordinato avevo creato e poi seduta sul porticato osservavo con il naso all'insù quella marea di stelle di cui avrei voluto conoscere tutti i nomi.
    Dovevo essermi appisolata ad un certo punto perchè percepì una mano guantata sulla mia spalla che mi fece ridestare, sorrisi quando lo vidi sedersi al mio fianco.
    “E' tardi...” constatò.
    Annuì stringendomi nella stola e voltandomi verso di lui.
    "Lo so..." dissi quelle due parole con tutto il peso che con sè portavano, avrei voluto dirgli altro, ma lui lo aveva già capito.
    “Vuoi andar via?” perchè mi era quasi sembrato di percepire una nota di dispiacere e paura nella sua voce? Il modulatore nel suo casco poteva ingannarmi, chissà com'era la sua voce... un'altra fantasia che mi sarei portata via con me...
    "Devo... I-Io... I-Io credo di starti rubando qualcosa..." ammisi probabilmente cogliendolo di sprovvista, non sapevo cosa pensava di sentirmi dire, ma quello parve stupirlo.
    "I tuoi spazi, il tuo tempo... sono un ospite che ha iniziato a mettere radici..." dissi con occhi lucidi e un sorriso mesto. Voltandomi verso il piccolo soggiorno, alle nostre spalle, si poteva vedere un piccolo vaso con un fiore sul tavolo, una coperta fatta a mano poggiata allo schienale di una sedia e degli ammennicoli da cucina che nemmeno esistevano in quella casa prima del mio arrivo.
    "Ho paura che se non le sradico prima che diventano profonde... non... non lo farò più..."
    Avevo ripensato molto in quei giorni a quello che mi aveva detto all'inizio. Su Mandalore non esistono famiglie.
    Sì sono sì donne, uomini e bambini, ma non famiglie. Nessuno di loro mette radici. Nessuno di loro crea un focolare domestico. Io lo stavo facendo e temevo che quello non fosse ciò che lui si aspettava quando mi aveva dato ospitalità. Mi sentivo come se gli stavo togliendo il terreno sotto i piedi, facendo sempre più spazio alla mia idea di casa piuttosto che alla sua e... non era giusto.
    Cercai di trattenere le lacrime, non mi piaceva mostrarmi così fragile e sensibile, non a fronte di qualcosa che era solamente la cosa giusta da fare. Apparire come la ricca viziata che teoricamente ero non mi aggradava. Così preferì voltare il capo al cielo, gli occhi alle stelle e stringermi maggiormente alla stola. A me stessa. Dovevo andarmene per mettermi alla ricerca di una casa, ma la verità è che l'avevo già trovata.
     
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    “Ho paura che se non le sradico prima che diventano profonde... non... non lo farò più...”
    Quelle parole ebbero la forza di scuotermi dall’interno. Fu come ricevere un pugno in faccia… senza casco e no, non era una bella sensazione. All’improvviso divenni avido di ossigeno e un istinto brutale, per me sconosciuto, di levarmi il casco per respirare meglio mi colse. Era arrivato il momento tanto temuto, quello in cui avrei maledetto il mio dannato buon cuore, perché per darle la libertà che meritava le avevo permesso di insinuarsi in fratture della mia corazza che non sapevo neppure di avere.
    Lasciai passare lunghi secondi, in cui lei teneva gli occhi fissi sulla volta celeste, mentre io li tenevo immobili e senza alcuna remora sul suo profilo deciso. Perché non mi guardava? Poi lo vidi, un luccichio fugace ma intenso: stava trattenendo le lacrime. Soffriva nel dirmi quelle cose e allora perché lo faceva? Perché voleva andarsene? Era me che non voleva far soffrire… forse? Troppe domande a cui c’era un’unica risposta possibile:
    “Le tue radici possono stare dove sono se è ciò che vuoi...” Era molto semplice, non volevo che se ne andasse. Se lei stava bene qui, nella mia casa che era diventata anche un po’ sua, a preparare la colazione e qualche pasto, a insegnare ai bimbi della scuola, a imparare a sparare e a difendersi, non l’avrei dissuasa dal restare. Anche perché… a me non dispiaceva la sua presenza. Affatto.
    La vidi fissare una stella in particolare, più luminosa delle altre, ma ero certo che non la stesse davvero guardando. Lottava contro le lacrime e un nodo mi si strinse in gola. Rimasi in silenzio, dandole tutto il tempo di cui necessitava per prendere la decisione migliore per lei.
    “Possono?” mi chiese in sussurro, mordendosi subito dopo il labbro inferiore. Solo allora si girò e sembrò riuscire a trovare direttamente i miei occhi. “Perché diventa ogni giorno più difficile... Immaginarti, sognarti... Fantasticando su cose che... ” Era arrossita? Forse anche io dovevo avere un colore innaturale sul volto, perché all’improvviso sentii caldo, tanto caldo. Le sue frasi erano state smozzicate, ma fin troppo sincere. Per questo abbassò lo sguardo. Avrei voluto avere il coraggio di toccarle il mento e farglielo rialzare, ma non ero poi così intrepido… “Non potranno mai accadere...” concluse. E ogni sillaba si trasformò in stiletti avvelenati. La realtà delle cose parve travolgermi con crudeltà, ma mi resi subito conto che mai avevo pensato al futuro, a un futuro qualsiasi, laddove sarei potuto essere diverso da ciò che ero e che ero sempre stato: un Mandaloriano. Un Mandaloriano senza famiglia, dedito solo al credo e ai trovatelli.
    “Fino a un mese fa ero certo che nessuno sarebbe mai entrato a far parte del mio Clan, eppure... sei qui...” Non so da dove era venuta fuori quella conclusione, ma era cristallina ed era riuscita a frenare i movimenti di Omera che pareva essere sul punto di alzarsi, di chiudere il discorso, di riporre sogni e fantasie in un cassettino di se stessa. Si era bloccata e si era voltata verso di me, colpita.
    “Scusami...” mormorò. “I-Io non volevo... Insomma quello che hai fatto per me, non lo ha mai fatto nessuno... Senza doppi fini intendo...” aggiunse con un sorriso lieve, forse un po’ amaro. Poi, nonostante l’umidità della notte, abbassò la stola e rivelò un vestito di un bel verde chiaro. Non me ne intendevo di abiti, ovviamente, ma anche a un occhio inesperto come il mio era chiaro che era stato realizzato a mano… con tanta cura per i dettagli. “L'ho finito giorni fa... Non so nemmeno perché ma... Non lo avevo mai indossato fino ad oggi...” Le lasciai percorrere il viale dei suoi ragionamenti, convinto che sarebbe arrivata da sola alla conclusione che tanto auspicavo. “Mi sento a casa qui, ma mi sento come un ospite che si è preso un luogo che non gli appartiene.”
    Eccolo il punto. Temeva di aver sconvolto i miei tempi, i miei spazi, il mio mondo. Certo che lo aveva fatto, dank farrik, aveva messo sottosopra abitudini consolidate in anni e anni di solitudine, ma con gesti da fata, in punta di piedi, regalando e non distruggendo.
    “Ci si scusa solo quando si è inopportuni. E tu, in trentasei giorni non lo sei stata neppure un secondo. Se ti ho chiesto di restare e non ti ho più chiesto di andare via, un motivo c'è. Non so bene spiegarlo, non sono bravo con le parole... ma una cosa la so per certo, il tuo vestito è davvero bello e questa era l'occasione giusta per indossarlo...” Non avevo idea di chi fosse il più sconclusionato tra i due, visto che ogni volta finivamo per impelagarci in dialoghi assurdi, ma l’idea che fosse il momento giusto anche per un’altra cosa mi fulminò improvviso.
    Fui un attimo distratto dal sorriso luminoso che Omera decise di dedicarmi, piegò il capo su un lato e mi guardò con occhi strani… inteneriti? Avrei pagato non so quanti crediti per sapere cosa le passava per la testa. Mi riscossi, dovevo sembrare un tonto… ma subito dopo mi trasformai in una specie di statua: Omera aveva allungato la sua mano, prese la mia e la girò palmo in su…
    “Prima di conoscerti poco sapevo dei Mandaloriani, se non che erano spietati mercenari... Ma queste mani... Non hanno solo sangue su di esse...” esclamò, sollevandola in mondo reverenziale, ma si vedeva che tentava di nascondere un po’ di timore… della mia reazione. “Grazie.”
    Nonostante ci fosse il guanto, percepii il suo tocco come se avesse una temperatura altissima, avrebbe potuto bruciarmi e forse non ero troppo distante dalla realtà. Ritrassi la mano, ma solo per pochi istanti, giusto il tempo per levare il guanto e tornare da lei. Le presi di nuovo le dita e mi resi conto che il calore era dentro di me, non sulla sua pelle. Fu strano ma anche esaltante... non ci capivo nulla. Con l’altra mano, frugai sotto l’armatura. Trovai ciò che cercavo e portavo sempre con me, alla fine, posai la scatolina, che The Armorer mi aveva dal suo arrivo su Mandalore, sul suo palmo ma senza aprirla. “Il giorno che siamo arrivati qui, Armorer me l’ha affidata, lasciando a me la scelta del momento giusto. Avrei dovuto dartela quando ti ho proposto di restare, ma adesso capisco perché non l'ho fatto. Allora non era il momento giusto... adesso credo sia arrivato... Avanti, aprila...”
    Omera studiò la scatolina per qualche istante, forse cercando il coraggio di schiuderla, ma quando lo fece i suoi occhi si riempirono di un’emozione mai vista, che non riuscii a decifrare.
    “Il teschio del mitosauro...” Era il simbolo dei Mandaloriani, un segno di appartenenza per noi sacro. “È in metallo nth ed io... Io non so... Non so cosa dire.” Lasciare Omera senza parole era già un piccolo miracolo, fui felice di scoprire che tutto ciò era causato da qualcosa di bello come l’apprezzamento per quel dono tanto speciale.
    “Mi aiuti?” disse, lasciandomi la catenina e dandomi le spalle. Capii con un secondo di ritardo cosa mi stava chiedendo. Esitai, fissai il ciondolo tra le mani, una guantata e l'altra no. Quando Omera scostò i capelli il suo profumo arrivò fin sotto il casco o forse me lo stavo solo immaginando? La curva del collo era delicata, potevo rischiare di toccarla? Decisi di togliere anche l'altro guanto, sì, per sicurezza, per non graffiarla con la loro ruvidezza... e fui felice della mia intuizione, perché fu molto più facile allacciare il gancetto sottile.
    “Adesso, fai parte del mio Clan a tutti gli effetti. Potrai sempre andare via quando e se questa vita ti starà stretta, non ti metterò mai catene, ma intanto resta... resta qui con me...”
    Omera si abbandonò a un respiro profondo, prima di voltarsi verso me. Poi si protese e accarezzò i lati del casco con i suoi palmi, infine, appoggiò la sua fronte contro il freddo metallo. E fu allora che io smisi di respirare, ancora prima che lei dicesse: “Rimango...” in un sussurro dolce, con le palpebre abbassate. Ancora prima che aggiungesse: “Anche perché non ho mai voluto davvero andarmene... ”
    “Kov’Nyn” mormorai appena, un peso premeva sul petto: non lo sapeva, non poteva saperlo... o forse sì? Quel suo gesto improvviso mi distrasse da tutto il resto, dalla sua risposta che sì, doveva essere positiva, ma ciò che aveva fatto… significava ben altro, tanto altro.
    “Cosa?” chiese lei, curiosa, scostandosi appena e abbassando le mani sulle mie. “È bello il Mando'a. Magari potrai insegnarmelo… iniziando, da questo?”
    “Non è una vera e propria parola... è un gesto di fiducia, di saluto, di dedizione. È il bacio mandaloriano. Ecco, immagino che così si bacino anche gli innamorati... ma questo non te lo so dire per certo. Questa per me è la prima volta: fronte contro casco, casco contro casco...” Mi sentivo agitato, non ero sicuro di aver spiegato bene ciò che volevo dire.
    “Kov'Nyn” Omera cercò di ripetere dopo di me, stringendo le mie dita come a trovare un incoraggiamento. Io ero ancora immobile e di nuovo in apnea. “Spero che allora non ti spiaccia che sia stata io a dartelo...” continuò, arrossendo subito dopo e dandomi il colpo di grazia.
    Scossi il capo, neppure il modulatore di voce sarebbe stato in grado di mitigare lo strano tono che sarebbe venuto fuori. No, non mi era affatto dispiaciuto.
    “Mi piace la tua pronuncia...” chiosai solamente, prima di ripetere il suo gesto di prima. Con le mani scoperte le presi il volto e avvicinai il casco alla sua fronte, attento a non farle male.
    Era il mio Kov’Nyn.
     
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    Roberta
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    La notizia ferale che era giunta alla mia attenzione aveva sconvolto i miei equilibri, la mia pace, le mie certezze. E non mi riferivo alla caduta del dominio dei Devianti sulla Terra, i quali per decenni avevano imprigionato tra le loro spire poveri innocenti e li avevano trasformati in mostri, marionette da manovrare e gestire. La libertà era solo una mera illusione sotto il loro controllo e la fine della loro egemonia poteva solo alleggerire il mio cuore. Sebbene non avessimo mai avuto contatti diretti con quel pianeta, era una vittoria di tutti quando la tirannia cadeva, soppiantata dagli alti valori di prosperità e pace.
    Mi dissi che avrei dovuto chiamare Omera per avvisarla. Sarebbe stata felice di sapere della distruzione dei Devianti. Era stata una loro vittima per troppo tempo e avremmo gioito insieme della loro fine.
    A sconvolgermi tanto, invece, non era neppure stato il fatto che ai gerarchi Devianti si era sostituito un nuovo gruppo di potere: i Templari, i quali incarnavano gli obiettivi e i valori del vecchio Ordine che aveva imperato millenni prima, restaurandolo fin dalle fondamenta. Avevano preso il controllo delle istallazioni più importanti dei nemici e presto avrebbero distribuito le loro forze su tutta la Terra.
    La voce nefasta proveniva proprio dalle loro fila.
    Ero stata informata che Khufu alias Megamede fosse al servizio dei Templari, battendosi al loro fianco e appoggiando la loro causa.
    Quale grande infamia. Quale enorme vergogna per colui che avrebbe dovuto portare con onore l'armatura mandaloriana e votare al credo tutto il suo essere. Non era concepibile che si servisse un'altra via al di fuori di quella di Mandalore.
    Sedai la collera che avrebbe potuto offuscare il mio giudizio e decisi che avrei concesso a Megamede la possibilità di spiegarsi, di giustificare le sue azioni.
    Lo conoscevo fin da quando era giunto fra noi. Ferito, nel corpo e nell'anima. Non aveva concesso a nessuno di curarlo, neppure a me. Si era barricato dietro possenti mura di silenzio e sofferenza. Conoscevo la sua storia solo perché le brutalità che aveva subìto erano giunte da Koronis fino alle mie orecchie. Un condannato alla più impietosa delle pene.
    Ben conoscevo la crudeltà e l'intransigenza dei Koronisiani, sudditi servili dei marziani, nostri nemici giurati.
    Chiunque avesse patito la sua sorte sarebbe impazzito dal dolore, dalla disperazione, fino a desiderare la morte.
    Lui era per me un trovatello, anche se un po' cresciuto per l’età che aveva al suo arrivo, ma nella Via aveva trovato il suo posto, il suo scopo. Aveva sempre dato tutto se stesso per gli orfani.
    Quando era fuggito, si era portato dietro una quantità spropositata di metallo Nth, trafugato dal suo pianeta natale. Lui era un esiliato e tra noi ha trovato la strada, lui era smarrito e tra noi ha trovato un motivo per continuare a vivere.
    Con una parte del bottino avevo forgiato un’armatura molto particolare, forse la migliore che fosse uscita dalle mie mani sapienti. Avevo applicato due varianti, una di mia scelta e l’altra su sua richiesta specifica.
    Avevo fuso il pregiato metallo con una pietra dalle mille sfumature, sebbene fosse di colore nero: l'ossidiana pura si era amalgamata all’Nth dando vita a una lega mai usata fino a quel momento.
    Poi, lui mi aveva chiesto di sostituire i raggi propulsori che si abbinavano all’armatura con un paio di ali mastodontiche, dello stesso materiale in lega. Solo lui era in grado di usarle per volare, per combattere… unite al suo corpo erano un prodigio della forgia e della natura.
    Avevo ben compreso quanto profondo fosse l’odio verso i suoi simili, sebbene non ne avesse mai parlato, ma io lo sentivo sulla mia pelle, almeno la metà di quanto lui lo sentiva nel suo cuore. Speravo, però, che la distanza e il tempo trascorso avrebbero potuto lenire le sue ferite. Lo speravo con tutta me stessa. Lo avevo tenuto d'occhio a lungo, timorosa che potesse essere fuorviato dalle sue brame di vendetta, ma in tutti quegli anni passati insieme, non aveva mai dato segno di cedimento. Mai. Così gli avevo concesso la mia fiducia e la libertà di azione.
    In più, da quando aveva accolto nel suo clan Grogu sembrava ancora più sereno, o comunque meno ombroso e scostante. Al solo vederlo, dalla rigidità delle spalle e dalla durezza del suo tono di voce appariva sempre impenetrabile con chiunque avesse a che fare e invece, con il piccolo era in grado di manifestare un'altra parte di sé. Quella più nascosta è sepolta sotto strati di antica sofferenza. Lui credeva forse che non me ne fossi accorta, ma io avevo creato il sigillo che assicurava Grogu al suo clan e avevo percepito tutte le sue emozioni mentre lo teneva in braccio, non lo aveva mollato neppure per un secondo.
    Non potevo credere che "il nostro" Khufu potesse essere un traditore, ma le informazioni ricevute non lasciavano spazio a dubbi. Lui era al seguito dei Templari che avevano occupato la Terra, e combatteva per loro, pur indossando ancora casco e armatura di Mandalore.
    Non potevo ignorare che in tutto quel tempo lo avevo percepito un po’ più assente, pur continuando a portare taglie a beneficio dei piccoli di cui ci occupavamo.
    Rabbrividii alla remota eppure presente possibilità che i compensi recuperati e portati a me, potessero essere ricavi del lavoro svolto per i Templari. Scossi il capo. No, non poteva essere e io non avrei mai potuto restare con il dubbio che uno dei miei valorosi mandaloriani potesse servire una causa non nostra, distante dal nostro credo.
    Non avevo perso tempo. Avevo mandato a chiamare Megamede, sapevo che era rientrato il giorno prima con la sua nave. Non era ancora venuto da me, non ero a conoscenza se fosse stato ingaggiato o meno per qualche missione. E io non ero solita rimanere all'oscuro di simili faccende.
    Avevo un estremo bisogno di parlare con lui, chiarire questa infamia che mi bruciava dentro al pari di un acido che erode il metallo. Non lo potevo accettare!
    Era da ore che mi dedicavo al mio lavoro di forgiatore, in modo da purificare i miei pensieri e temprare la mia volontà. Avevo interrotto solo pochi attimi per dare disposizioni a un fratello di chiamare a Palazzo Khufu e poi avevo continuato, fino a che mezzora dopo, avevo udito dei passi sopraggiungere dal corridoio che dava nella sala d'attesa. Doveva essere lui, lo sentivo.
    Feci un respiro profondo e mi apprestai a superare una durissima prova: affrontare uno dei miei fratelli.
    Pur essendo il saggio del mio popolo, non mi erano precluse la preoccupazione e la grande ansia che mi invasero in quel momento.
    Lungi da me il voler dimostrare le mie vere emozioni, mi trasformai nella sfinge che tutti conoscevano. Non volevo fallire. Non avrei mai voluto perdere uno dei miei guerrieri più cari.
    Mi fermai dal mio minuzioso lavoro e presi un lungo respiro.
    Mi avviai vicino al tavolo e attesi il nuovo arrivato, il quale mi osservò con attenzione e… curiosità? No, Khufu non era affatto un tipo curioso, ma era di certo interessato a ciò che avrei dovuto dirgli di lì a breve.
    "Sei qui… Sai perché ti fatto chiamare".
    Lui non si sedette, rimase in piedi come me, poco oltre la soglia. Consapevole che il momento della verità era arrivato ma con nessuna intenzione di indietreggiare. Pensavo di essere sempre stata un buon punto di riferimento per lui, ma mai una confidente come lo ero per tanti altri dei nostri fratelli. Lui non aveva nessuno con cui confidarsi, perché non voleva stringere legami, tanto meno trovare degli amici. Lui teneva tutto dentro nella speranza che sparisse all interno di se stesso.
    “Sì, so perché sono qui. Risponderò a tutte le tue domande.”
    Sapevo che non si sarebbe tirato indietro.
    “Mi hanno informata dei tuoi affari sulla Terra. Ti hanno visto combattere al fianco dei Templari, l'Ordine che ha spazzato via i Devianti e ha preso il potere sul pianeta blu! È vero?”
    “È vero. Ho combattuto tra le loro fila, sono stato scelto dalla chiave titana di Crio per compiere questa missione. Inizialmente, non ne ho capito il motivo, dopo che il piccolo è entrato nella mia vita allora sì, tutto mi è stato chiaro.” Non aveva mosso un solo muscolo, ma la speranza di essere compreso da me permeava l'aria.
    “Una chiave titana? E cosa c'entra tutto questo con noi? La Via di Mandalore è sacra ed esclusiva. Non si possono servire due padroni. E il nostro credo ci impone di servire i deboli, i nostri trovatelli. Per questo combattiamo, rischiamo la nostra vita. Non per una causa che non ci appartiene. Ciò che hai fatto per Grogu è onorevole, ma non comprendo la connessione con i Templari. Spiegami, cos’è che hai capito?”
    Lo udì sospirare, forse alla ricerca delle parole giuste da dire. Lo conoscevo bene. Non era abituato a dare spiegazioni sul suo operato, ma era consapevole che non poteva evitare il confronto con me.
    “La chiave titana mi ha chiamato e io non sono riuscito a dire di no. È stato qualcosa di... magico. Non mi sono opposto dunque. Dopo qualche tempo, durante una missione, ho trovato lui, gli ho salvato la vita... ma non è solo questo, ho sentito che... con lui potevo essere diverso...” parlò quasi imbarazzato. Doveva essere difficile interiorizzare delle sensazioni e poi dirle ad alta voce. “Quando sono con lui, sento il mio cuore battere ancora. Ho capito che era lui lo scopo di tutto... Io seguo un unico credo, quello di Mandalore, ho solo prestato temporaneamente il mio servizio a quest’Ordine, tutto ciò che ho portato qui in questi anni è stato frutto del mio lavoro come cacciatore di taglie... i Templari sono rimasti sempre al margine...”
    Le sue ultime parole mi fecero tirare un sospiro di sollievo invisibile all’esterno ma liberatorio per me.
    “La fiducia è sempre stata alla base dei nostri legami. Non sono la vostra regina né tanto meno mi sento tale, pretendendo la vostra fedeltà in prima persona, ma in quanto custode della Via devo avere la certezza che non hai tradito il nostro credo. Questo sì è il mio compito. La tua parola vale molto per me e nessuno sa del tuo operato degli ultimi tempi. Sappi però che troverò un modo per capire tutta questa storia della chiave di Crio e di ciò che c’è dietro alla missione dei Templari.” Che diavolo di scherzo era questo? Stavamo parlando di una chiave magica che portava il nome del Conte di Marte? Infausto alleato di Koronis. Non era di certo una coincidenza.
    “Mi affido alla tua saggezza. Sono certo che saprai trovare il bandolo di una matassa che anche io sto ancora cercando di districare. Tuttavia, la mia coscienza è pulita. Non ho tradito, anche se sono consapevole che le mie azioni possano essere quanto meno ambigue...”
    Ero felice di ascoltare la sua risposta, ma non potevo mostrarmi morbida o condiscendente.
    “Prendo atto del tuo dire. Lasceremo decidere al tempo e al fato. Questa è la via!”
    […]
    Tentai di scrollarmi di dosso la spiacevole sensazione di poco prima. L'incontro con Megamede era stato pesante e ricco di rivelazioni.
    Ora era chiaro come i Templari avessero ottenuto il potere perso molti secoli orsono. Le chiavi titane erano dei manufatti molto potenti e se erano al loro servizio allora il loro intento doveva essere di un livello tanto alto da non avvicinarsi all’immaginario.
    Dovevo capire perché Khufu era stato richiamato dalla chiave e che ruolo giocava in tutta la faccenda. Era un mandaloriano, ma anche un Eterno. Dettaglio da non sottovalutare.
    Avevo bisogno di tempo per riflettere e raccogliere le idee.
    Ero stranamente seduta al tavolo, e non come al solito alla forgia. Mi tenevo la testa tra le mani, immersa in pensieri profondi e meditabondi. Fu così che mi trovò Omera quando giunse al mio cospetto.
    Mi ricomposi immediatamente e mi ricordai che mi aveva giusto anticipato. Avrei voluto incontrarla di lì a breve.
    “Ti disturbo?” chiese con voce gentile.
    L'avevo osservata a lungo in questo mese che era rimasta tra noi. Si muoveva con grazia e discrezione. I bambini della scuola adoravano il suo modo di parlare e di spiegare gli arcani dei cieli e delle scienze. Sarebbe voluta diventare una “saggia” tra i Devianti, ma alla fine, era stata costretta a sottomettersi ad una società denigrante e a suo modo crudele.
    Mando pareva rinato. Continuava a parlare poco e a svolgere diligentemente il suo compito, ma sapevo che tornava a casa più spesso e con molto più entusiasmo, per quanto non elargisse particolari manifestazioni di affetto, era più sereno e questo potevo percepirlo chiaramente.
    “Vieni… siedi pure. Non disturbi. Cosa ti porta qua da me?”
    Sapevo che Omera si era integrata perfettamente sul nostro pianeta, ma non capivo perché provasse ancora una sorta di soggezione reverenziale nei miei confronti. Avevo tentato di farle comprendere che non ero superiore a lei, che mi sarebbe bastato il rispetto che si deve a un proprio simile, ma lei non mi aveva fatto molto caso.
    Si avvicinò quasi in punta di piedi prendendo posto sull'elegante, ma austera poltroncina che le indicai. Inizio a parlare, mentre si torturava la collanina che portava al collo. Mi era familiare ma non riuscivo a scorgerla bene.
    “Ehm... informazioni. Credo che sia di vitale importanza che tu ne sia a conoscenza, non voglio esagerare ma... potrebbe riguardare la sopravvivenza stessa di Mandalore...” Non poté notare la mia espressione sorpresa, all'esterno apparivo sempre sfingea.
    "Ti ringrazio per essere venuta a portarmi informazioni che ritieni importanti. Sarò felice di ascoltarti. Prima di cominciare, però, volevo informarti io di una cosa. L'impero Deviante è crollato. Sulla Terra non esiste più la loro egemonia! Pensavi ci tenessi a saperlo. Dopotutto, è stata la tua gente."
    Un sospiro le morì in gola. Una cascata di emozioni contrastanti le colorò il viso: sollievo, gioia, forse anche un fugace attimo di confusione, ma il tutto venne ben presto sostituito da una ferma decisione.
    “Sono notizie che mi rallegrano, non so cosa aspetterà ora alla Terra, ma spero sia solo l'inizio di una nuova era per loro... per i Devianti stessi, anche se ogni giorno che passa la sento sempre meno la mia razza... il mio credo” mi confessò ostentando fierezza. Poi continuò senza esitazioni.
    “Oggi al mercato ho ascoltato voci, non semplici chiacchiere, ma un insieme di racconti che mi hanno portato a credere che fossero indizi. Si parla che sul pianeta Prospero, del Sistema Sirocace, famoso per essere più che altro una landa desolata, si siano presentate strane anomalie...”
    Fece una pausa, ma io rimasi immobile e con il mio silenzio si convinse a proseguire.
    “Avendo studiato come Saggio ho avuto accesso alla Biblioteca Proibita di Saturno, in essa molti tomi della Sailor di Saturno erano custoditi. In uno si parla proprio di questo pianeta... e di come in tempi remoti fosse stato scelto come faro nell'oscurità di una terribile minaccia. Se ciò fosse vero e qualcosa sta arrivando, non contro Mandalore, ma la galassia intera, e lì può davvero esserci una possibile risposta a ciò... non dovremmo forse cercarla?”
    Percepii orgoglio nella sua voce e forse anche un pizzico di audacia. Era certa delle sue parole e per questo aveva posto in secondo piano la timidezza e il riserbo. I sui occhi erano vivi e animati dal fervore. Mi piaceva!
    Non avevo interrotto neppure una volta il suo discorso. Volevo darle spazio e modo di esprimersi.
    "Mi stai dicendo che su un pianeta che dovrebbe essere deserto sono state riscontrate delle anomalie non identificate e che tu tramite i tuoi studi, credi che su questo mondo ci potrebbe essere la chiave per salvarci da una possibile catastrofe?" Avevo fatto un piccolo riassunto per riordinare le idee e le notizie che mi aveva appena dato. "Come puoi essere certa che siamo in pericolo... e anche in modo imminente?" Ero molto attenta alle sue parole, ma potevo davvero considerare indizi le voci che aveva ascoltato?
    Omera rimase un attimo interdetta e sorpresa delle mie parole.
    “Detto così ammetto che suona leggermente folle, ma... Prospero viene citato in molti diari... e ogni volta la sua non è una connotazione positiva. Come se ogni congiunzione che porti a lui sia il prologo di qualcosa di catastrofico.”
    Cercò di spiegarsi il meglio possibile. Ma io non avevo alcuna intenzione di metterla in difficoltà.
    “Chiedo solo una missione, anche in solitaria se è necessario. Potrei andar a verificare se ciò che penso sia vero e se così fosse deciderai il da farsi...”
    Rimasi molto colpita dalle sue parole. Mi sarei anche dovuta allarmare per la sua sicurezza nell'esporre fatti relativi a una seria e potenziale minaccia, ma ciò che più attirò la mia attenzione fu il suo modo di fare. Era venuta a portarmi informazioni sensibili. Mi chiedeva il permesso di indagare per salvaguardare il “mio” mondo…
    "Quindi stiamo parlando di una solida possibilità, supportata dalle tue ricerche e ciò che effettivamente si sta muovendo su Prospero. Tranquilla... non credo sia follia. Tutt'altro, ma capirai che ho bisogno di elementi concreti per comprendere e poi eventualmente dare il via libera a una missione." Era giusto che conoscesse il mio modo di agire. "Ti devo fare una domanda... pensi, parli e agisci come se facessi parte della nostra comunità..." Mentre parlavo potei finalmente vedere e riconoscere il ciondolo che portava al collo. La testa del mitosauro sì che la collocava di diritto tra noi mandaloriani, ma volevo una sua risposta. "Conosco il tuo passato e il tuo presente, ma dimmi, tu cosa vuoi davvero dal futuro?"
    La mia domanda sembrò non turbarla affatto. Al contrario la vidi e la sentii libera. Fiera. Decisa.
    “Questo” rispose lapidaria, toccando il ciondolo questa volta non per nervosismo, ma devozione. “Sentirmi parte di una comunità, di un qualcosa di sacro, di un Credo che ogni giorno sento più mio... Non è più solo... riconoscenza, affetto…” si bloccò per un attimo assottigliando la voce. Ero certa che il suo pensiero, come il mio, era corso a un certo mandaloriano. Provava affetto per lui, era chiaro come il sole, ma non si trattava solo di questo. In lei c'era molto di più. “È agire in ciò in cui credo. Ed io credo nella Via di Mandalore”
    Era limpida come l'acqua che scorre in un ruscello. Era tenace come una madre che protegge testardamente i suoi figli. Voleva servire Mandalore e io non glielo avrei impedito.
    “Va bene. Non ho bisogno di altro. Convocherò i migliori dei miei fratelli per questa spedizione. Non bisogna lasciare nulla al caso. Se è vero che una minaccia è alle porte, non mi volterò, cieca, pur avendo avuto la fortuna di saperlo in anticipo. Questa è la Via!” decretai senza esitazione.
    Lei parve quasi afflitta, credeva l'avrei esclusa dalla missione sul campo. Ma io sapevo che si era addestrata e che sarebbe stata un elemento più che valido, non solo per le sue conoscenze, ma anche per le sue spiccate abilità in azione.
    “Vieni con me adesso… vorrei farti un regalo che credo ti sarà molto utile durante la tua prima missione!”
    Il suoi occhi si illuminarono per la gioia e mi seguì raggiante.
    […]
    Avevo convocato Din e Khufu. Sapevo che i due avevano sviluppato un rapporto strano che si avvicinava molto all'amicizia. Per quanto fossero taciturni entrambi erano molto diversi e Mando era stato l'unico a intaccare un po' la corazza di Megamede. Era l'uomo giusto per aiutarmi a comprendere le sue reali intenzioni. Mi fidavo di Khufu ma lo avrei messo alla prova durante questa spedizione. Doveva dimostrare a Mandalore di essere ancora uno di noi totalmente e incondizionatamente.
    Quando giunsero, uno a fianco dell'altro, non mi persi in inutili giri di parole, come era mio costume.
    “Ho una missione per voi. Dovrete andare in ricognizione su un pianeta chiamato Prospero. Sono state registrate delle anomalie che non promettono nulla di buono! A breve vi darò i dettagli. Intanto vi informo che… non sarete soli!” dissi convinta che di lì a poco avrei scatenato in loro un uragano di sensazioni contrastanti e nuove, soprattutto per uno dei due.
    Loro non risposero, ma seguirono il movimento del mio braccio che si mosse verso la mia destra, lì dove si trovava un corridoio che collegava la fucina all’anticamera delle mie stanze.
    “Vieni pure Omera… è il momento che tu ci raggiunga.”
     
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    Annarita
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    “Hai parlato con lei?”
    “Certo. Non potevo esimermi.”
    “È stata dura?”
    “Non l’ho mai vista tanto delusa e arrabbiata.”
    “Ma ti ha creduto…”
    “Altrimenti non sarei qui.”
    Fissavo il vuoto di fronte a me, totalmente immobile, com’era mio costume. Parlare con Megamede era un po’ come parlare con me stesso, ma con sfumature sostanzialmente diverse. Eravamo simili sotto molti aspetti, ma il buio che c’era dentro di lui – che The Armorer aveva visto fin dal suo arrivo su Mandalore e che io avevo constatato negli anni a venire – era più prossimo all’abisso che alla pace dei sensi. Avevo capito alcune cose di lui, la prima fondamentale era che combatteva i pensieri per non caderne vittima, la sua immobilità era una corazza, la sua poca loquacità un rifugio. Io, invece, ero così… per natura, per educazione, per vissuto. I miei silenzi avevano i suoi significati, ma i suoi, i suoi equivalevano a una vera e propria barriera di protezione.
    Chiunque ci avesse visti in questo preciso istante, spalla contro spalla, seduti nella stessa maniera, caschi rivolti nel vuoto dinnanzi a noi, avrebbe facilmente potuto confonderci, se non fosse stata per l’armatura diametralmente opposta: la mia argentata e la sua nero pece. Eppure, dentro di noi, le differenze erano molte di più…
    “E adesso? Cosa accadrà?” Lungi da me giudicarlo, era un fratello, non ortodosso d’accordo, ma pur sempre un fratello. Tuttavia, militare in un Ordine diverso da quello mandaloriano, tenendo all’oscuro tutti gli altri, per di più continuando a indossare il casco e l’armatura… avrebbe potuto valergli un Dar'manda, il terribile esilio, una sorte peggiore della morte per qualsiasi Mandaloriano.
    “Non mi ha condannato al Dar'manda” mi rispose lui, quasi leggendomi nella mente. “Presumo che mi metterà alla prova. Vorrà capire le mie intenzioni a lungo termine e poi vedrà il da farsi…”
    “Credi che tutto questo valga la possibilità di essere esiliato?” chiesi a cuore aperto, senza particolari inflessioni nella voce. Ero l’unico – di mia conoscenza – con cui Megamede aveva scambiato qualche parola in più da quando era arrivato su Mandalore, ma di certo sapeva bene che le mie parole miravano a farlo riflettere e non a giudicarlo. E, dal canto mio, avrei potuto valutare le sue risposte e reazioni per capire da che parte stava davvero.
    “Ho la coscienza pulita, Mando. Non ho tradito il Credo, non mi sono spogliato né desidero farlo… perciò, non temo nessuna prova.” Era la replica che desideravo sentire ed esultai, dentro di me ovviamente, continuavo a crogiolarmi nella mia immobilità. Era la mia condizione naturale e percepire, in qualche modo al mio fianco, la stessa necessità mi rasserenava.
    “Cos’è successo? Col piccolo, intendo…” Sapevo di poterlo chiedere e percepivo che Megamede aveva bisogno di buttar fuori qualcosa, se il mondo fosse stato fatto di puro silenzio, sono certo che lo avrei sentito vibrare per quel desiderio nascosto troppo in profondità.
    “Ho assecondato un potere più alto e no, non mi riferisco a quello dei Templari. Quando sono venuti a cercarmi, mi hanno mostrato una chiave… su di essa c’era inciso il mio nome mandaloriano. Ho scoperto che questa è la chiave titana forgiata da nientemeno che Crio in persona, riesci a immaginarlo?”
    “Il Conte di Marte?” Non era stato facile, questa volta, non voltarmi verso di lui. Nella mia voce era stata chiaramente percepibile la sorpresa, mentre cominciavo a creare degli strani collegamenti nella mia testa.
    “Proprio lui. La chiave ha iniziato a brillare, ma ciò che ho sentito in quel momento è stato diverso da quello che hanno percepito tutti gli altri prescelti dalle altre chiavi… Non sto a spiegarti le gerarchie templare, sappi solo che io ho sentito un richiamo… che non ho ascoltato per vendetta, solo che allora non lo sapevo.” Era di certo il discorso più lungo che avevo sentito fare tutto d’un fiato. Ero tornato nella mia posizione iniziale, non volevo metterlo a disagio, già capivo che raccontarmi quelle cose per lui doveva essere difficile.
    “Pensi che fossi destinato al piccolo?”
    Questa volta fu il suo turno di voltarsi di scatto verso il sottoscritto, sorpreso. Forse pensava che gli avessi letto nella mente, forse perché avevo detto ad alta voce qualcosa che lui non aveva mai ammesso neppure con se stesso. Continuai a fissare dritto di fronte a me.
    “Probabile…” Fu la sua unica risposta ed ero certo che sarebbe stata l’ultima, per questo non andai oltre, riconoscevo il limite da non oltrepassare con lui e ci eravamo appena giunti.
    Trascorsero altri minuti infiniti. Non avevo idea del perché The Armorer ci avesse convocati tutti lì e cosa stesse trafficando nella Forgia con Omera, da ore…
    Omera. Pensare a lei mi consentiva di accantonare i brutti pensieri, di respirare meglio, anche se spesso il mio cuore faceva le bizze. Ormai, al suo fianco, mi ero abituato a repentini sbalzi di temperature e strani avvenimenti che coinvolgevano tutto il corpo. All’inizio, mi ero preoccupato, avevo creduto di stare male… di avere qualche malattia… niente, semplicemente era lei che mi faceva un certo effetto. Così, piano piano, avevo cominciato a capire…
    Un leggero richiamo interruppe i miei pensieri e quasi in contemporanea, Megamede ed io, ci alzammo in piedi, sull’attenti. Sì, The Armorer faceva questo effetto. Ci guardammo appena, poi ci recammo direttamente nella Forgia. Mi stupii di non vedere Omera da nessuna parte.
    “Ho una missione per voi. Dovrete andare in ricognizione su un pianeta chiamato Prospero. Sono state registrate delle anomalie che non promettono nulla di buono! A breve vi darò i dettagli. Intanto vi informo che… non sarete soli!”
    Eccolo, non si perdeva mai in preamboli il nostro saggio. Una missione, la prova per Megamede. Ma chi altri ci avrebbe seguiti? Non riuscivo a immaginarlo, ma le parole di The Armorer cominciarono a dissipare le nebbie del dubbio.
    “Vieni pure Omera… è il momento che tu ci raggiunga.”
    Tentai, con tutte le mie forze, di restare fermo, placido, tranquillo. Ma – per la prima volta nella mia intera esistenza – sopravvalutai l’utilità della totale immobilità. Avrei voluto correrle in contro, sfiorarla, stringerla. Impulsi sconosciuti si scatenarono dentro di me, capaci di togliermi il respiro e di trasformare il mio cuore in un tamburo di guerra.
    Omera era di fronte a noi. Il suo corpo ricoperto da un’autentica armatura mandaloriana, un’armatura speciale, che racchiudeva in sé tantissima della nostra storia, quella delle Nite Owls, un reparto intero di Mandaloriane, capeggiato dalla sorella di colei che un tempo regnava su Mandalore.
    Potevo percepire lo stupore anche in Megamede, non se n’era accorto ma aveva allungato il collo verso di lei, come a volersi sincerare che la vista non gli stesse giocando qualche brutto scherzo, ma non era così, The Armorer aveva forgiato un oggetto magnifico e addosso a lei sembrava una seconda pelle che armonizzava addirittura le sue forme: un prodigio della Forgia.
    La voce del nostro saggio ci riportò tutti alla realtà.
    “Omera ha tutte le informazioni di cui avete bisogno, sarà lei a guidare la parte scientifica della missione, coordinatevi con lei per organizzare quella tattica e strategica. È molto importante che nulla venga lasciato al caso… Questa è la via.”
    Ci congedammo dalla Fucina, Megamede ed io camminavamo spaesati, a causa delle pesanti novità appena ricevute, ma fu solo per qualche istante. Alla fine ci dividemmo, dandoci appuntamento a casa mia per un briefing serale, dove avremmo messo a punto tutti i dettagli della missione.
    “Sei sorpreso?” mi chiese Omera all’improvviso, prendendomi per una mano. Un dolce gesto che accettavo ormai con naturalezza.
    “Se vogliamo usare un eufemismo… sì, sono sorpreso. Sei bellissima” confessai dopo qualche istante, completamente sincero.
    “Il casco dovrò meritarlo…”
    “Credo che tu ti sia già meritata l’armatura, The Armorer ti ha considerata degna… e posso capire il perché. Il casco sarà il passo finale, ma già per me tu sei… come me” La gola era stretta e le parole faticavano a uscire, tossicchiai per schiarire la voce, ma la persi del tutto subito dopo.
    “Per me è un onore essere al tuo fianco… sempre!” disse con fierezza, prima di stringere le mani attorno al mio casco e darmi un Kov’Nyn.
    […]
    Il viaggio sarebbe stato particolarmente lungo. Avremmo dovuto raggiungere il Sistema Sirocace, nel Marchesato di Urano. Avevamo scelto di muoverci con la Slave One di Megamede, ma anche viaggiando con l’iperluce ci sarebbe voluto qualche giorno.
    Al secondo giorno di viaggio, mi ritrovai nella cabina di pilotaggio con il pilota. La stanchezza cominciava a farsi sentire, ma non eravamo a casa né sulla Razor Crest.
    “Dovreste riposare, una volta arrivati non sappiamo quando ne avremo l’occasione.” Megamede aveva parlato guardandosi intorno, come se cercasse qualcosa. In effetti, mi resi conto che un pomello dell’acceleratore mancava. Forse, il piccolo aveva colpito ancora.
    “Non vogliamo essere un disturbo, so bene quanto ci tieni alla tua nave e alle tue abitudini” risposi senza indugio. Le sue necessità erano identiche alle mie, per anni avevo lavorato nella più completa solitudine.
    “Non c’è problema, le mie abitudini sono state abbondantemente stravolte dal topo ragno, e poi la tua Riduur dovrà pure rimettersi in forze per la sua prima missione.” Una vampata di calore mi colse all’improvviso: Riduur?!
    “No, no, lei non è mia moglie…” mi affrettai a spiegare, anche se con una certa riluttanza. Quello era un argomento piuttosto delicato, perché andava a intaccare un equilibrio molto precario… un mio equilibrio ovviamente.
    “No? Io credevo che l’avessi fatta entrare nel tuo Clan, ho visto la collana…” Ero certo che Megamede mi stesse fissando con occhi sorpresi, dimentico del pomello dell’acceleratore.
    “No, cioè sì. È complicato. L’ho fatta entrare nel mio Clan per permetterle di rifarsi una vita, poi lei ha scelto di rimanere su Mandalore…”
    “Con te… e allora perché non l’hai sposata? Mi sembri preso da lei…”
    Non era decisamente un discorso che mi andava di affrontare. C’erano troppe cose che non capivo io per primo, figurarsi a spiegarle agli altri.
    “Per ora stiamo bene così, col tempo si vedrà.” Lo vidi quasi fare spallucce.
    “Se lo dici tu. A me sembrate una bella coppia, per quanto ne possa capire io sempre…” Sapevo bene che le sue esperienze, anche prima di arrivare su Mandalore, si erano concentrate solo ed esclusivamente su violenza e torture. No, neppure lui conosceva sentimenti d’affetto, ma il sapere che aveva dato per scontato che… beh, che Omera ed io fossimo una coppia mi faceva rimestare qualcosa dentro il petto.
    “Allora approfitteremo della tua gentilezza…” conclusi alla fine, congedandomi dalla cabina di pilotaggio e trasferendomi in quella di carico.
    Fu lì, che mi arrestai prima di palesare la mia presenza, di fronte all’ennesima immagine capace di fermare il mio cuore. Omera doveva stare attenta, con tutti questi sbalzi, avrei potuto restarci secco.
    Fissai proprio lei, in braccio teneva il piccolo, il quale stringeva orgoglioso il famoso pomello d’acciaio. Glielo mostrava orgoglioso e gorgogliava per la contentezza, Omera lo aveva conquistato… come poteva essere diversamente?
    Quando si accorse di me, mi regalò uno dei suoi sorrisi più belli.
    “Ehi, tutto bene di là?” mi chiese con voce bassa, come se temesse di disturbare qualcuno.
    “Tutto secondo i piani…” risposi, avvicinandomi a lei. Mi sedetti al suo fianco, fin troppo vicino, come se la mia armatura – o forse ciò che c’era sotto – fosse calamitato dal suo corpo.
    “Megamede ha detto che possiamo usare la cuccetta per riposare un po’. Perché non ti sdrai e cerchi di dormire?” Si voltò verso di me, attenta a tenere ben salda la presa sul piccolo. Il suo abbraccio era amorevole, molto simile a quello di una madre… almeno credevo fosse così.
    “Potresti venire con me, mi sentirei meno a disagio” mormorò appena, mordendosi poi il labbro inferiore. Io deglutii e cercai di riflettere, ma avevo la sensazione che i neuroni fossero appiccicati gli uni agli altri, incapaci di muoversi a dovere.
    “Sì, potrei” fu la sola risposta che la mia mente brillante riuscii a tirare fuori. Un genio.
    Lei però parve sentire una vera e propria dichiarazione d’amore, perché si illuminò ancor più di prima e appoggiò per qualche secondo la guancia sul mio spallaccio. Doveva davvero accontentarsi di poco.
    Sospirai, convinto che sarebbe stato un lungo, lunghissimo viaggio.
     
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    Quando The Armorer, dopo il nostro incontro, mi aveva invitato a seguirla, mai avrei creduto che si trattasse di accedere alla sua fucina. Ero entrata con un rispetto reverenziale, mentre guardandomi intorno mi aveva assai colpito il contrasto tra l'opulenza e l'eleganza del palazzo e la rigidità degli interni: pregiati, ma minimali.
    Non c'erano fronzoli, ma solo lo stretto necessario, oltre che numerosi ferri del mestiere, metalli e molto altro ancora.
    Mi chiese di accomodarmi e lì la guardai, con ferrea disciplina, ma dedizione, dar vita ad un'armatura. Una che solo poco dopo avrei capito sarebbe stata per me.
    Aveva infuso il metallo con della polvere di calcedonio blu, assai presente nella zona dei laghi, che aveva donato all'armatura delle sfumature che avrei osato definire eleganti, quanto le forme che non nascondevano la femminilità di chi l'avrebbe indossata.
    Solo successivamente mi avrebbe raccontato che quelle particolari armature le indossavano, un tempo, quelle che erano le Nite Owls. Un reparto prettamente femminile di Mandaloriane la cui leader era la sorella di colei, che anticamente, regnava su Mandalore. L'equipaggiamento che mi aveva messo a disposizione era esattamente quello di una Nite Owls: Blaster WESTAR-35, avambracci in metallo nh con lama celata della stessa lega, telemetro, mirino macrobinoculare ed un comlink per comunicare a lunghe distanze.
    L'armatura non era fornita di casco, ma non osavo chiederlo. Già quello era un onore che non credevo di poter ricevere, ancor più perchè a detta di The Armorer era la prima armatura da Nite Owls che lei aveva forgiato, essendo che le stesse si erano estinte prima della sua nascita, or dunque quello mi faceva sentire tanto fiera quanto conscia di aver una responsabilità nell'indossarla.
    Non era tutta in metallo nh, ma già il solo fatto che la parte del dorso e gli avambracci lo erano mi dava molta sicurezza e forza. Vedere poi la reazione di Mando mi aveva fatto sorridere. Potevo non vedergli il volto, ma ormai conoscevo ogni suo "non movimento" e qualcosa mi aveva fatto pensare che era rimasto più a bocca aperta nel vedermi così vestita che l'elegante abito che mi ero cucita addosso. Tuttavia anche l'altro Mandaloriano, che non avevo nemmeno mai visto, sembrò colpito. Capì che non sarebbero stati gli ultimi a reagire così. Era un'armatura importante, simboleggiava delle eroine di cui ancora si raccontavano storie ed io ero chiamata ad una accortezza immensa. Non pensavo che The Armorer avrebbe mai osato tanto o forse come al suo solito, seppur io ancora non potevo averlo capito, mi stava solo mettendo alla prova.

    Mi sentivo responsabile per quella missione ed in parte lo ero. Io avevo avanzato quella richiesta, io avevo fatto ipotesi e sempre io ero colei incaricata di guidare i miei compagni, in quanto unica ad avere le conoscenze necessarie per sapere cosa cercare. Avevamo concordato di partire con la SLAVE I di Khufu che ammisi mi incuriosì molto per il complesso sistema meccanico al suo interno. Fondamentalmente la navicella, ormeggiata orizzontalmente, una volta in volo prendeva una posizione verticale. Per impedire, dunque, che i passeggeri al suo interno passassero dall'avere i piedi a terra ad averli sulle paratie, la parta centrale era fondamentalmente una sfera basculante intorno alla quale l'intera nave, con dei complessi ingranaggi, ruotava.
    Stavo ancora osservando il tutto quando un piccolo esserino verde uscì dalla cabina di pilotaggio, nel momento in cui Din vi stava entrando, e venendomi incontro piegò il suo viso da un lato per mostrarmi la sfera che aveva in mano. Sorrisi piegandomi verso di lui e prendendola tra le mani la guardai colpita.
    "E' davvero molto bella..." dissi con tono materno prima di porgergliela nuovamente, lui parve soddisfatto e ridacchiando mi si abbarbicò sulla gamba così che osai prenderlo in braccio. Seduta lo osservavo intento a giocare, mentre sorridendogli gli accarezzavo il capo e lui faceva versi di chi era molto felice di ciò.
    "Sei proprio un bravo bambino sai? Ho sentito che lui ti chiama Grogu..." a sentire il suo nome voltò il capo guardandomi, come se sapesse di essere chiamato in causa. Le orecchie ritte e gli occhioni fissi nei miei.
    "Io sono Omera!" parve quasi sorpreso del fatto che avessi un nome, ma piegando il capo da un lato e poi dall'altro sorrise ed accarezzandomi la mano pensai che era il suo modo di dirmi "piacere" visto che poco dopo tornò a dare tutta la sua attenzione alla sfera che teneva tra le mani.
    Quando la cabina di pilotaggio si riaprì, perchè Grogu stava tornando dal suo buir, lo stesso avvisò che il viaggio sarebbe stato ancora lungo e che se volevo riposare, scendendo la scala a pioli, avrei trovato nella stiva la cuccetta. Accettai dunque di buon grado la sua gentilezza e sorridendo a Mando mi congedai.

    L'obbiettivo era togliermi la parte superiore dell'armatura per poter così riposare in modo un poco più agevole, tuttavia nonostante avessi visto The Armorer quando me l'aveva assicurata addosso, ancora avevo dei problemi a capire esattamente dove e come funzionassero le allacciature. Ero ancora di spalle quando delle mani vennero in mio soccorso e voltando appena il capo, notai fosse Mando.
    Il mio cuore perse un battito felice di vedere che la mia avance di poco prima era stata colta. Con lui dovevo sempre trattenermi, era molto difficile tenere a bada la mia irruenza o quanto meno i miei slanci che altro non erano dovuti a ciò che lui mi provocava e mi faceva sentire. Nemmeno se ne rendeva conto, ma gli ci voleva poco per togliermi il respiro o semplicemente farmi sentir bene.
    "G-Grazie. Devo ancora farci l'abitudine..." tentai di giustificarmi in parte imbarazzata. Non mi accorsi che, per via dei movimenti che stavo facendo, la maglia di tessuto pesante che indossavo si era abbassata lasciandomi una spalla nuda. Furono le dita di Mando, che timorose me l'accarezzarono, a farmi ben presto capire che il suo non era, tuttavia, un tocco casuale. Doveva aver notato la cicatrice vistosa che sulla pelle spiccava, deturpandola. Una bruciatura che forse non si aspettava di trovare su di me.
    “Come te la sei fatta?" alla sua domanda sospirai senza voltarmi. Intenta a sistemare l'armatura a terra, poggiata alle paratie di metallo, mentre lui pareva essersi già pentito della domanda.
    “S-Scusa, se non vuoi rispond-”
    "Me la sono fatta da sola!" tagliai corto voltandomi a guardandolo con sguardo dolce.
    Non avevo motivo di mentirgli e né lui di sentirsi a disagio nel farmi domande, mi piaceva che volesse conoscermi meglio.
    "E' una tradizione Deviante o per lo meno lo è dello zoccolo duro della popolazione, i tradizionalisti e... bè mio marito lo era. Quando una donna si sposa, il proprio marito le incide a punta di coltello le proprie iniziali addosso. Questo fa sì che se lei dovesse tradirlo, l'amante lo potrebbe notare e per tutelarsi da eventuali pene d'onore... denunciare la donna. Inutile dire che lei è sempre in torto, a prescindere che il rapporto sia consensuale o meno..." osservai con una nota di sarcasmo amaro.
    "E' una barbaria a cui non ero disposta a sottomettermi e così un bel giorno ho preso un ferro dal camino e mi sono ustionata... preferisco un orribile cicatrice che le iniziali di un mostro sulla mia pelle. Non perderò mai la mia dignità, a costo di pagarne le conseguenze!" conclusi con tono fermo, deciso e pieno di una durezza che non ero solita avere. Non con lui almeno.
    Non seppi cosa gli causò sentirmi dir ciò, ma vedendolo abbassare il capo mi precipitai a posargli le mani sui lati dello stesso e dargli un Kov’Nyn.
    Rimanemmo per un lungo momento così, in silenzio, senza parlare, ma poi staccandomi appena sorrisi. La mia mano non aveva lasciato la sua, nonostante le avessimo abbassate.
    "Non mi ha turbato la tua domanda, sono lieta che tu possa conoscermi. Farlo per davvero intendo... sotto ogni mio aspetto..." conclusi più per rassicurare lui che me stessa. La mia mano era ancora nella sua, mentre prendendo un gran respiro ingoiai il rospo che sentivo in gola.
    "Rimani" esclamai di getto, un po' titubante. Un po' in ansia. "P-Potremmo riposare... insieme, se... se ti va..."
    Guardandolo non mi sfuggì la sua posa rigida, la mano, quella rimasta libera, era stretta a pugno lungo il fianco. Notavo in lui una rabbia repressa che conoscevo molto bene, ma che mi commuoveva al fronte che la provasse per me. Per quello che avevo vissuto.
    "Resto. Però tu mi devi promettere una cosa... e su questo non ammetto repliche..." la sua voce era sommessa, ma il tono deciso "Semmai un giorno, tutto questo ti diventasse stretto, soffocante, condizionante tu me lo dirai... e io... io saprò lasciarti andare... per renderti felice..."
    Mi morsi il labbro commossa, mentre arretrando un poco mi sedetti sul bordo della cuccetta. Una mia mano ancora nella sua.
    "Te lo prometto, anche se... bè non mi sono mai sentita tanto libera e felice da quando sto a Mandalore..." ammisi non per rincuorarlo, ma per fargli capire che non doveva preoccuparsi, seppur ciò che mi aveva detto mi aveva scaldato il cuore. Intrecciai dunque le mie dita con le sue, piegando il capo da un lato. Sorridente. Serena.
    "Mi fido di te Mando... Come mi fido del mio cuore"
    Aggiunsi vedendolo assentire appena, la mano che prima era stretta a pugno lentamente stava lasciando la presa e forse, se avessi avuto il dono di leggergli nella mente, avrei scoperto che in quel momento stava soppesando le parole di Megamede chiedendosi perchè di fatto non mi avesse ancora sposata.
    "Questo è il nostro patto allora..." mormorò solenne sedendosi al mio fianco. Vicino come avevo scoperto gli piaceva stare, nel suo bisogno di sentirmi e cercarmi. Lo stesso che avevo io.
    Fu in quel momento che mi alzò il bordo della maglia per coprire la cicatrice, ma non prima di averla sfiorata ancora una volta. Un moto di rabbia doveva averlo scosso, perchè lo percepì dal suo tocco tremante. In virtù di ciò presi la sua mano, la liberai dal guanto e poi me la portai alla bocca. Lì ne sfiorai la pelle ruvida con le mie labbra, soffici come petali di una rosa. Lo guardai ed infine sul palmo vi posai un bacio.
    Mi scostai quel tanto, un po' rossa in volto, per sdraiarmi e guardandolo lo invitai silenziosamente a fare lo stesso.
    "Spengo la luce, così se vorrai potrai toglierti il casco per essere più comodo, ma... vedi tu ok? Non fare nulla che non ti senti..." lo rincuorai e poi il mio sorriso amorevole e comprensivo fu l'ultima cosa che vide.
    Sopra la cuccetta c'erano due interruttori. Uno che comandava una piccola luce solo sopra il giaciglio ed un'altra tutta l'illuminazione della stiva. Schiacciai quest'ultimo ed un buio pesto mi impediva di vedere oltre il mio naso. La mia vista era ora il mio udito ed il mio tatto.
    Percepì chiaramente il suo sdraiarsi al mio fianco e poco altro, doveva aver armeggiato con l'armatura perchè lo percepì muoversi, ma fui certa -seppur non potevo vederlo- che non era il casco quello che si era tolto.
    Allungai una mano, timorosa, e percependo la pelle nuda del suo collo la sfiorai con le dita. Il cuore batteva all'impazzata e quello mi fece sorridere, perchè se possibile era più agitato del mio.
    "Ner tracinya"
    La sua voce arrivò all'improvviso, mentre le sue parole capì dovevano significare qualcosa d'importante, ma non ne sapevo il significato.
    "Che significa?"
    "S-Sei il mio fuoco"
    Un calore mi avvampò prepotente, mentre mordendomi un labbro mi imponevo di respirare e rimanere calma. Glielo dovevo seppur mi era difficile.
    "E tu il mio..." dissi cercando nell'oscurità della cuccetta la sua mano che trovai abilmente, scoprendo che quello che si era tolto poco prima erano gli spallacci. Fu prendendogliela che la posai sul mio collo, sulla giugulare. Volevo sentisse come la mia pelle fosse bollente e come il cuore battesse folle.
    "Come si dice sei bellissimo? Perchè sei la persona più bella che abbia mai conosciuto in vita mia..."
    "Gar cuyir mesh'la"
    Era davvero una lingua difficile, ma mi affascinava e studiare non era mai stato un ostacolo, anzi mi piaceva. Sentivo la sua mano sul mio collo tremante e per un attimo mi preoccupai. Non volevo metterlo a disagio e forse per questo, nel limite del possibile, mi spostai di pochissimo indietro.
    "Come fai a dire che lo sono?"
    Ridacchiai.
    "Ti ho immaginato molto e poi la bellezza credi sia solo quella fisica? Certo di solito è la prima cosa che muove le persone l'una verso l'altra, ma spesso è solo mera apparenza. Ciò che fa innamorare due anime è ben altro..." gli spiegai anche per fargli comprendere la mia visione dell'amore che non era relativa solo all'aspetto romantico, ma anche semplicemente ai legami tra le persone.
    "Con o senza casco proverei per te sempre le stesse cose, perché è la tua anima che ho conosciuta e quella mi ha conquistato..." lo dissi solenne e poi mi lasciai andare ad una risata, c'era anche bisogno di leggerezza "E poi non ho dubbi che tu sia bello..."
    Se solo avessi potuto vederlo, oltre il casco, lo avrei visto alzare un sopracciglio. Al mio lato era poggiato con la testa ad una mano, mentre il gomito per ben piantato nel sottile materasso. Lui, tramite gli infrarossi del casco mi poteva vedere anche al buio, io no.
    "Mmm, come fai ad esserne così sicura? Insomma sono un brav'uomo, su questo siamo d'accordo, ma se... ecco... se dovessi sposarmi, un giorno, quando e se accadrà... insomma, lo faresti davvero senza guardarmi in viso?"
    Era forse curiosità quella che scorgevo nella sua voce? Mi morsi un labbro, quel gesto ormai era il chiaro di segno di quando eccitazione e morigeratezza si scontravano dando vita ad un espressione tanto imbarazzata quanto maliziosa.
    "Ho sposato Hans guardandolo dritto negli occhi eppure..." dovevo aggiungere altro?
    "Sì lo farei..." e su quello non c'erano incertezze. Potevo ingannare, ma in realtà ero più sicura di me stessa di quanto dessi a vedere.
    "Sai cosa mi ha incuriosito della tua domanda? Che tu abbia messo in conto l'eventualità..."<b> e lì potevo solo osare immaginarlo andare nel panico più assoluto e così aggiunsi subito dopo <b>"... un po' come io fatto nell'immaginare..." e lì mi morsi la lingua. No non era opportuno che lui sapesse che facevo sogni erotici su noi due.
    Io avevo deglutito vistosamente per evitare di proseguire, ma sentì lui fare lo stesso, solo per poi tossire e tentare di riprendersi.
    "Prima parlavo con Megamede e ti ha chiamata riduur, moglie, dando per scontato che fossimo sposati. Di solito... entrare nel Clan di un Mandaloriano presuppone il matrimonio... Certo, la nostra è stata una circostanza particolare... ma ecco, le tue parole... mi pare di capire che io ti piaccia, al di là di ciò che successo in un primo momento... ma non è detto che abbia centrato il bersaglio. Insomma, avrai compreso che sono piuttosto limitato in alcune situazioni..."
    A quella sua frase mi feci più vicina, di nuovo la sua mano nella mia, di nuovo verso le mie labbra per una carezza su di esse con le mie labbra. Piccoli baci. Piccole attenzioni.
    "Allora le scopriremo insieme... con i tuoi tempi... forse non te ne sei reso conto completamente, ma non ho nessun pensiero che non sia per te. Non ho nel sangue nessun desiderio che non sia per te. Non temere di nulla, dormi stanotte sul mio cuore..."
    Conclusi infine accucciandomi vicino a lui e chiudendo gli occhi. Al sicuro, al suo fianco. Cullata da braccia che non erano solo quelle di Morfeo...
     
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    Il nostro arrivo nella Dimensione Specchio era stato per me il viaggio di una vita intera. Io che non avevo mai lasciato il piccolo villaggio ove ero cresciuta mi ero trovata nel giro di poco non solo a viaggiare oltre la Terra, ma anche oltre le dimensioni!
    Lì tutto era diverso seppur sotto molti aspetti appariva uguale. C'era similitudini nella tecnologia o nella costruzione degli edifici ed altre cose ancora, ma la cultura ad esempio... quella era... lontana ioni.
    Fu il primo pensiero del mio Maestro, e a parer mio più che logico, tentar di cercare immediatamente in quella dimensione eventuali tracce di Jedi o comunque alleati e cosa avevamo trovato? Il nulla più assoluto. Questo ci aveva alquanto scosso ancor più perchè non solo non sembravamo trovarne alcuna, ma perchè semplicemente lì parevano non esistere.
    Un'altra cosa complessa da comprendere era lo scorrere del tempo. Per capirsi loro classificavano il tempo in periodi storici, così li chiamavano, per cui una persona che aveva vissuto, ad esempio, nell'Antica Grecia, non poteva essere contemporaneo di una persona dei tempi attuali.
    Da dove venivamo noi il tempo scorreva in modo diverso o meglio esisteva un luogo, chiamato il Mondo tra i Mondi ove era possibile accedere. Esso era una raccolta di portali e percorsi esistenti tra tempo e spazio che collegava insieme tutti i momenti nel tempo. Era una specie di "aeroporto" dove una persona poteva decidere di "viaggiare" dal suo momento in un altro e lì starci in "vacanza" o "trasferirsi".
    Era un concetto complesso, ma per noi in realtà molto semplice. Io ad esempio ero nata nel 1768 e quando gli Jedi vennero a cercarmi, perchè il mio nome compariva nell'Holocrom, venni portata poi nell'epoca dove ero cresciuta ed avevo vissuto tutta la mia vita.
    Questo aveva reso per noi, all'inizio, molto complesso capire quel luogo e come muoverci in esso, ma ben presto le nostre ricerche ci avevano portato sulle tracce di ciò che di più simile c'erano agli Jedi: gli Assassini.
    Scoprimmo cosa era successo loro e seguendo la Forza percepimmo che un solo luogo era rimasto protetto, lo stesso che custodiva tutte le risposte che cercavano: l'Isola Tiberina a Roma. Italia.
    Fu lì che ci insediammo, fu lì che iniziammo a leggere e studiare. Dovevamo capire prima dove fossimo e con che cosa avessimo a che fare e poi solo allora avremmo potuto muoverci ed agire in quella dimensione. Un tempo avrei trovato quello noioso ed una perdita di tempo, ma capì invece che era la scelta più giusta che potevamo fare.
    Tuttavia i giorni passati lì vennero scanditi da continui cambiamenti impercettibili se non si era sensibili alla Forza o non la si aveva sviluppata, come Kassandra ad esempio. Lei andava a dormire che la tazza da cui beveva ogni mattina era rossa e quando la mattina successiva era verde non lo notava. Furono quei segnali a mettere in allarme me ed il mio Maestro e se prima notavamo solo piccoli cambiamenti, poi avevamo compreso che gli stessi erano ben più sostanziosi.
    I fratelli Auditore, che per certo sapevamo aver ucciso il padre ed essere passati oltre i Monoliti, stavano cambiando la realtà ed il motivo poteva essere uno solo: plasmarla a loro piacimento.
    Il solo fatto che facessero di cognome Auditore non ci permettevano di essere ottimisti sui loro scopi, anche perchè quello che facevano era troppo grave per trovare scusanti. Avremmo scoperto, dopo circa un anno dal nostro arrivo, che lo scopo ultimo era riportare in auge i Templari. Una società segreta che anche da dove venivamo noi esisteva e che da sempre aveva combattuto sì l'Impero, ma solo con lo scopo di sostituirsi a loro. Qui forse non c'era l'Impero che noi conoscevamo, ma comunque ce ne era uno e chissà come mai sia io che il mio Maestro pensavamo che lo scopo ultimo era lo stesso.
    Questo aveva scosso molto Shay che mentre si era ritirato in meditazione cercando di connettersi con la Forza, debole in quella dimensione, io avevo cercato di far comprendere a Kassandra l'immensità di tutto ciò. Era una tipa tosta ed amavo il suo modo pragmatico di fare, ma questo ahimè, non veniva in aiuto in quelle situazioni. Perdeva facilmente la pazienza e non era molto propensa all'ascoltare e capire.
    Tuttavia non era né sciocca né stolta e comprese che era importante, più che mai, fare qualcosa a riguardo.
    La soluzione a cui giunse Shay era quella di fortificare la Forza in quella dimensione, debole perchè senza cavalieri al suo servizio. Fu in quel momento che mi raccontò qualcosa di cui nemmeno io ero a conoscenza e cioè che quando mi salvò, dal tempio, recuperò dallo stesso l'Holocrom. Questo altro non era che un disco cifrato in cui erano conservati tutti i nomi di coloro che nascevano con la Forza e che si aggiornava automaticamente ad ogni nuova nascita. Era un oggetto sacro a cui l'Impero mille volte aveva tentato di metterci sopra le mani e per questo gli Jedi lo custodivano gelosamente.
    Il mio Maestro sapeva, all'epoca della caduta degli Jedi, che sarebbe stato troppo pericoloso lasciarlo incustodito e così l'aveva preso con sé. Da allora l'aveva custodito nascondendo a tutti la sua esistenza, perfino a me, ed ora ero stupita da scoprire che l'avesse portato con sé fin lì. Dubitava potesse funzionare, ma era la nostra unica speranza.
    Da quello che avevamo letto gli Assassini erano di fatto possessori della Forza seppur per qualche strana ragione non lo sapevano, dunque l'Holocrom doveva potersi sintonizzare con quella dimensione e riuscire a stilare una lista di chi la possedeva.
    Solo Shay era in grado di leggere le cifrature, seppur per giorni non diede risultati. Passarono settimane e quando ormai non ci credevamo più i primi nomi iniziarono a comparire.
    Ciò che ci colpì, quando iniziammo a cercare le persone della lista, fu che non erano solo bambini ma uomini e donne di tutte l'età. Era triste vedere che non ci fosse un'organizzazione per cui quel percorso iniziasse fin dalla più tenere età. Anche perchè non si era soliti addestrare Jedi quando erano ormai troppo gradi, già avere 10 anni voleva dire essere troppo grandi, ma non avevamo scelta: dovevamo rischiare. Ne prendemmo consapevolezza e pian piano sempre più persone rintracciate decisero di unirsi a noi stanche di essere perseguitate o molto semplicemente fiere delle proprie origini.
    Più Jedi addestravamo alla via della Forza e più questa diveniva forte ed era convinzione del Maestro, che solo in questo modo avremmo avuto messaggi e vibrazioni dalla stessa per sapere come muoverci, ma non solo. Avere uomini voleva dire poter fare indagini più approfondite e capillari.
    L'Isola Tiberina divenne in poco tempo il nostro Tempio ove io mi occupavo delle classi dei più giovani e Kassandra dei più adulti. Shay dava il suo contributo gestendo il tutto, mentre anche lo scopo della nostra missione era stato condiviso con i Cavalieri, gli stessi che poterono affrontare Le Messe su Encelado e di fatto costruire la propria spada laser.
    Non sapevamo se anche in quella dimensione il pianeta custodiva i cristalli kyber, ma scoprire che così era non fu solo un sollievo, ma anche la conferma che il mio Maestro aveva ragione. La Forza era lì per gli Assassini che come noi custodivano nel sangue il batterio midichlorian, lo stesso che scorreva nelle vene degli ISU. Dei primordiali che avevano dato origine ad una razza mista, umani con sangue ISU, che avevano sviluppato la capacità di percepire ed usare la Forza. Forse lì la storia poteva differire un poco, ma avevano la nostra stessa eredità seppur non l'avevano abbracciata.
    "Caterina smettila di spiare sotto il visore. Concentrati sulle tue sensazioni! Marc bravo continua così! Christian, respira... o continuerai ad essere laserato!" esclamai scuotendo il capo ed osservando il bambino rimettersi in piedi dolorante.
    Mi piaceva lavorare con i bambini seppur, come li ricordavo anche al Tempio, sapevano essere discoli se ci si mettevano! Tutti indossavano visori che inibiva loro la vista mentre con spade di allenamento dovevano respingere piccoli laser innocui che una sfera di addestramento lanciava loro addosso.
    Mi allontanai quel tanto per raggiungere Kassandra che notai comparire sull'uscio della classe con un'imponente aquila al braccio.
    "L'hai trovato!" esclamai emozionata mentre allungavo una mano per accarezzare il capo dell'elegante animale. Mi aveva detto che da tempo sperava di ritrovare il suo leale compagno, ma che non sapeva come avrebbe potuto essere possibile visto il suo essere fuori dal tempo.
    "E tu ti sei tinta i capelli?" mi chiese alzando un sopracciglio divertita.
    "Aspetta che Shay ti veda, diventerà più insopportabile del solito! Come che dice sempre, ah sì la vanità è ..."
    "... il vezzo dell'anima! Sì sì lo so, ma ehi queste cose fighe non ci sono nel nostro mondo e poi lui stesso ha detto che potrebbero esserci i nostri doppelgänger ed è meglio mimetizzarci ed io l'ho fatto!"
    Dissi alzando il naso all'insù come una che la sapeva lunga, ma Kassandra mi riportò prontamente con i piedi per terra, come sempre!
    "Questo l'ha detto prima di constatare che qui il tempo passa in modo diverso e non ci sono possibilità che tu o lui siete ancora in vita..."
    "Ah Kass! Come sei pignola!" dissi offesa, mentre lei scuoteva il capo ridendo.
    "E comunque non capisco perchè con tutte le tue conoscenze, la tua bravura, disciplina e velocità nell'imparare così tante cose sugli Jedi tu non voglia approfondire la Forza che in te scorre. Il Maestro dice di sentirla e... guarda con le spade laser, sei stata fondamentale nell'aiutare i Padawan a costruirle!"
    Ero leggermente pedante, lo sapevo. Ma mi entusiasmava tanto l'idea che potesse unirsi a noi che, mi spiaceva che ne rifuggesse.
    Stavo per attaccare di nuovo bottone quando l'aquila iniziò ad agitarsi e sbattere le ali così forte da distrarre la mia classe e per poco ferire me.
    "Ok ok Ikaris rilassati! Forse è meglio che lo porti fuori... ci vediamo dopo!"
    Assentì alle sue parole e voltandomi verso i miei alunni dichiarai finita la lezione, anche perchè l'orologio a muro indicava ormai mezzogiorno. La vera cosa strana era però non aver visto ancora il mio Maestro, la sua sveglia era alle 5 ogni mattina e mi turbava l'idea che potesse ancora dormire. Mi stavo infatti dirigendo verso il suo alloggio quando dallo stesso lo vidi uscire con due pesanti occhiaie sotto gli occhi.
    "Maestro tutto bene?" lo chiesi premurosa correndogli incontro. Conoscevo quello sguardo. Conoscevo quel sonno e di solito non preannunciava nulla di buono!


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 7/2/2021, 10:38
     
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    Sento freddo, tanto freddo. Tutto intorno a me è buio, oscuro, posso quasi toccare quell’abisso con la punta delle dita e sentirne la consistenza viscosa… pronta ad avvolgermi e travolgermi. Mi abbraccio, anche se la mia pelle è nuda, le mani sono gelide e tremo come un bambino appena uscito dal grembo materno. È un tremore interno, che nulla ha a che fare con la temperatura esterna, sono in una visione, è tutto generato dal messaggio che devo ricevere… Non mi lascio intimorire, ormai ci riesco bene, ma ciò non toglie che nonostante l’irrealtà del tutto, posso sentire le mie stesse cellule ribellarsi, colpite da qualcosa di tangibile, eccome. Prendo un respiro e l’aria sembra fatta di cristalli di ghiaccio, tossisco convulsamente, ma poi mi calmo e decido di procedere.
    Il tunnel prima o poi finirà e mi condurrà a destinazione. E non mi sbaglio. Sembrano passare secondi, minuti, persino ore, ma so che è tutto nella mia testa. Distinguo un barlume di luce, pulsa come se fosse vivo, per poi allargarsi e diventare sempre più luminoso… eccolo il mio obiettivo. Mi affretto, anche se i piedi scalzi incontrano la superficie irregolare di un terreno accidentato. Nulla può fermarmi a questo punto, è il percorso, è il prezzo da pagare per poter “vedere”.
    Quando esco dal tunnel, il bagliore è ormai accecante e sono costretto a coprirmi gli occhi con una mano, anche se solo per qualche istante. Poi, resto immobile, le braccia tese lungo il corpo e le labbra serrate: di fronte a me c’è un pozzo nero. Mi avvicino, sento i piedi sanguinare mentre incontrano alcune pietre aguzze, ma non ci bado. So che quanto sto guardando potrebbe cambiare le sorti di interi mondi: una pergamena avvolta su se stessa levita in mezzo al nulla, potrebbe cadere e perdersi per sempre, ma non accadrà… Non cerco neppure di afferrarla, percepisco che non è questo lo scopo, devo solo raggiungere questo posto e trovarla. Solo allora potrò leggerla.
    Il freddo aumenta, il dolore fisico sembra diventare insopportabile, percepisco delle presenze nefaste, vorrebbero rigettarmi indietro, ma io punto i piedi sul terreno e resisto a un’onda di energia sconosciuta. All’improvviso però la pergamena inizia a brillare in maniera sempre più spasmodica… fino a quando si disintegra in centinaia di frammenti solidi e taglienti, che raggiungono il mio volto, il mio torace. Nonostante l’istinto di proteggermi è fortissimo, resto fermo e lascio che le schegge mi colpiscano feroci, so bene che è arrivato il momento di… svegliarmi!


    Ritornai alla realtà con un tremito violento, mettendomi seduto in mezzo al letto. Le coperte erano attorcigliate alle mie gambe, formando una specie di prigione da cui mi liberai senza badare al gelo della stanza. L’inverno nella cosiddetta Caput Mundi era strano, a tratti mite, ma in questo periodo decisamente impietoso. Tuttavia, qualsiasi fonte di calore non sarebbe servita a levarmi di dosso il tremito residuo provato nella visione. Mi alzai e andai verso il piccolo bagno annesso alla mia camera. Mi lavai con acqua fredda per fare più in fretta e forse per schiarirmi ancora di più le idee. Poi, mi vestii con abiti “civili”: avevo abbandonato la mia divisa per potermi meglio mimetizzare in questo mondo, ma ne sentivo la mancanza, dovevo ammetterlo. Pantaloni scuri di un tessuto chiamato jeans, non erano chissà quanto comodi ma secondo la mia padawàn andavano di moda; una maglietta nera di cotone, sotto a un maglione di calda lana; scarponcini chiamati anfibi ed ero pronto per cominciare una nuova giornata. Mi resi conto di aver “dormito” molte ore in più del normale, ma non ero affatto riposato. Se non avessi avuto tutte queste responsabilità, mi sarei fermato per un vero sonno ristoratore, però ciò che avevo visto non poteva attendere, dovevo analizzare la visione, scoprire il luogo dove si trovava il pozzo e organizzare una missione.
    Avevo ancora freddo, ma sarebbe arrivata la Forza a scaldarmi dall’interno, era la mia àncora sempre e comunque. E mi misi al lavoro.
    […]
    Un paio di giorni dopo eravamo in viaggio. Non dormivo dalla notte della visione, con Élise e Kassandra avevamo lavorato giorno e notte per trovare coordinate e dettagli utili a organizzare una spedizione di recupero. La pergamena aveva la precedenza su tutto il resto, percepivo che sarebbe stata la fonte di mutamenti profondi e dovevo assicurarmi che non fosse collegata al piano dei nostri nemici. Anche se questa speranza si faceva sempre più flebile, la dimensione specchio non poteva sovrascrivere questa, sarebbe stato un disastro e avremmo fatto ogni cosa in nostro potere per evitarlo… e anche oltre.
    “Maestro, tra poco arriveremo su Prospero, ma tu non hai riposato neppure un minuto…” La voce di Élise spezzò il flusso dei miei pensieri. La guardai con stupore quando mi porse una tazzina con una bevanda scura al suo interno: il suo aroma era inconfondibile.
    “Hai davvero trovato il modo di fare il caffè su una navicella spaziale?” le chiesi con un mezzo sorriso, a metà tra l’incredulo e il sollevato. Era l’unico vezzo che mi ero concesso da quando eravamo arrivati in questo mondo. Lo bevvi a piccoli sorsi, assaporando il gusto pieno, deciso e amaro, come piaceva a me.
    “Non capisco perché ti ostini a berlo senza zucchero, già hai una vita grama… Niente cibo spazzatura, niente donne, niente fumo, niente alcool…” E rieccola con la sua teoria su quanto la mia esistenza fosse spoglia e triste. Peccato che si trattasse di semplici punti di vista. Io e la Forza stavamo così bene assieme, lei non mi avrebbe mai tradito, abbandonato, ferito…
    “Non giocarti i punti guadagnati con questa tazzina di nettare, mia cara, prepariamoci all’atterraggio, il pianeta sarà vicino ormai.” Con la coda dell’occhio la vidi farmi una linguaccia indispettita e poi eseguì gli ordini.
    Poco tempo dopo, lo shuttle Classe Lambda – recuperato grazie a una insperata alleanza con i Ribelli Terrestri – atterrò sul terreno arido di Prospero. Quando calpestammo la sua superficie, ci rendemmo conto di quanto fosse difficoltoso respirare, ormai abituati all’atmosfera terrestre. Il caldo era soffocante, ma nessuno di noi osò togliersi le giacche che coprivano armi e dispositivi di difesa. Il pianeta non era privo di pericoli, al contrario, era popolato da tribù piuttosto pericolose e territoriali, oltre che da una banda di ladroni spietati. Dovevamo fare attenzione.
    Osservai il navigatore, su cui avevo impostato le coordinate esatte dell’antico Tempio, collocato in una zona ricca di canyon e dunque di possibili trappole mortali per i sottoscritti. Le nostre informazioni provenivano da fonti davvero antiche, dunque, dovevamo prendere in considerazione la possibilità di non trovare un bel nulla… prospettiva non troppo irrealizzabile vista la desolazione che ci circondava.
    La nostra formazione era compatta, i nostri occhi attenti, le nostre orecchie tese… Élise ed io, in più, avevamo espanso la Forza, così che potesse portarci eventuali messaggi vitali. Ci stavamo avvicinando al luogo della visione e lo capii perché iniziai a provare gli stessi tremiti. Le vibrazioni del terreno erano diverse, così come quelle dell’aria: erano pregne di un magnetismo atavico. Eravamo nel posto giusto, il punto era scoprire se avremmo trovato anche la pergamena laddove l’avevo vista.
    Eravamo quasi giunti a destinazione, quando clangori di battaglia raggiunsero le mie “orecchie”. Colpi di arma da fuoco, metalli che si scontravano, aure di energia familiari mi immobilizzarono e feci cenno alle ragazze di fermarsi al mio fianco. Vidi il volto di Élise crucciarsi, si era concentrata e anche lei aveva finalmente percepito le medesime cose, mentre Kassandra ci fissava con sguardo interrogativo. Attendeva… ormai aveva familiarizzato con questo strano rituale: noi riuscivano a “sentire” andando oltre i sensi fisici e questo ci permetteva di prevedere pericoli e mosse del nemico. Aveva imparato ad affidarsi a noi, anche se da ottima guerriera preferiva il contatto diretto per valutare i rischi. Forse, proprio per questa magnifica fusione di intenti e fiducia reciproca, eravamo diventati una bella squadra. Mi fidavo di lei, come lei si fidava di noi.
    “Poco oltre il crinale, c’è in corso una battaglia. Non sappiamo chi siano gli attori in campo, ma percepisco delle presenze negative, le stesse della visione. Lo scontro è proprio di fronte al Tempio dove dobbiamo penetrare, perciò valuteremo la situazione e agiremo per eliminare gli ostacoli sul nostro cammino…”
    “Maestro, sai già contro chi combatteremo? Ho una strana sensazione.” Mi voltai verso Élise e le sorrisi, uno dei rari sorrisi aperti che regalavo. La mia padawàn faceva progressi, giorno dopo giorno, nella percezione della Forza e io ne ero più che orgoglioso.
    “La Forza non mente, i nostri nemici vengono dalla nostra dimensione…” rivelai senza più esitare. Lei mi fissò sgomenta, mentre Kassandra afferrava la sua spada e si preparava alla battaglia.
    “Allora? Entriamo in azione o no?” Scossi il capo, le mie ragazze erano a loro modo uguali e diverse, riempivano la mia vita anche se non se ne rendevano conto… o forse ero io che non riuscivo a trasmettergli il senso di famiglia che provavo. Ne rifuggivo, ne ero conscio: mi mostravo sempre rigido, difficilmente mi abbandonavo a moti di affetto, risultando spesso distante. In momenti come questi, però, quando ci trovavamo a dover agire insieme, contando l’uno sull’altro per la nostra sopravvivenza, me ne pentivo… se me ne fossi andato, cosa gli sarebbe rimasto di me? Solo dettami, regole, sguardi severi…
    Allontanai quei pensieri, costringendomi quasi fisicamente, avevamo una missione da compiere.
    […]
    La vista dei Mandaloriani in piena tenuta da combattimento quasi mi fece vacillare. Ma fu solo un istante, mentre percepivo Élise ribollire di rabbia. Le toccai una spalla, la strinsi con decisione, portando la sua attenzione sul mio viso. Con i miei occhi le parlai, lo feci anche con le mie vibrazioni: doveva lasciare andare via l’ira.
    Di fronte a noi, un gruppo di tre Mandaloriani, due con il casco e una senza, era impegnato in una lotta feroce contro tre donne con la divisa lucente, di colori diversi, e con poteri strabilianti. Mi concentrai sulla battaglia, ma non avevo dubbi, le vibrazioni negative arrivavano dal trio femminile. Erano loro che provenivano dalla mia dimensione ed erano chiaramente Guerriere… chissà quanto erano state pagate per i loro servigi. Se i Mandaloriani, in questo sistema, potevano non essere gli individui esecrabili che avevo conosciuto, le Guerriere lo erano senz’altro.
    “Dobbiamo aiutare i Mandaloriani o soccomberanno. Non sono loro i nostri nemici!”
    “Ma Maestro! Sai benissimo cosa… sono dei bastardi!” Mi aspettavo la ribellione della mia padawàn, in questi momenti, in cui si lasciava prendere dalle passioni, capivo che non era ancora pronta per diventare un Cavaliere. Ma lo sarebbe stata…
    “Siamo nella dimensione opposta alla nostra, Élise, ragiona. Qui i Mandaloriani non sono degli assassini prezzolati, concentrati sulle loro energie e ne avrai la certezza. Mentre le Guerriere vengono dal nostro mondo e questo mi sgomenta. Sono certo che sono qui per il nostro stesso motivo, dobbiamo fermarle!”
    “Dobbiamo subito intervenire, sono in difficoltà. Sei certo che loro non sono il nemico? Allora aiutiamoli, ma facciamolo prima che siano ridotti in cenere!” La voce allarmata di Kassandra mi arrivò dritta nel cervello e una scarica di adrenalina si propagò nelle vene.
    “Ne sono sicuro! Che la Forza sia con noi!” mormorai per non attirare l’attenzione e perdere l’effetto sorpresa, ma sapevo che la mia “voce” era arrivata a destinazione.
    Infine, sfoderammo le nostre spade – laser e non – e ci buttammo nella mischia!


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 6/2/2021, 22:27
     
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    Mi svegliai di soprassalto e con un groppo in gola che mi impediva di respirare. Tentai di incamerare ossigeno ma un forte colpo di tosse mi assalì. Mi arpionai il petto con le dita e a fatica riuscii a recuperare il controllo del mio corpo.
    Di nuovo quella sensazione di vuoto, un’assenza inconciliabile con il mio vivere. Era la stessa sensazione che avevo provato nel momento in cui avevo lasciato il mio unico figlio alle cure di altri. Il distacco aveva creato un baratro che si era stabilito tra il cuore e l’anima. Sarebbe stato meglio senza di me, senza la mia vita irta di pericoli e di persone crudeli. Lo avevo fatto per lui, avevo continuato a esistere con la certezza di aver fatto la scelta giusta.
    Da quando ero stata catapultata a forza in questo tempo, dopo aver fatto un breve viaggio in un'altra dimensione, questa maledetta sensazione mi aveva accompagnata con più forza, con più enfasi e io sapevo a cosa era dovuta… dopo aver “abbandonato” mio figlio, dunque alla sua perdita, se ne era aggiunta un’altra: Ikaris, un compagno, un amico, ma non aveva affatto sembianze umane – con gli esseri umani continuavo ancora ad avere i miei problemi a relazionarmi –. Era una splendida aquila reale dal piumaggio castano dorato, era enorme e maestoso.
    Non era più al mio fianco in battaglia, a vegliare le mie notti e per me era qualcosa di inconcepibile. Lo avevo perso di vista dopo che ero stata risucchiata nella dimensione specchio e quando ero tornata nella mia, mi trovavo in un tempo troppo lontano per sperare di ritrovarlo.
    Lo avevo incontrato sulla mia strada all’età di sette anni, dopo che il mio patrigno aveva tentato di uccidermi, lanciandomi dal monte Taigeto, ero sopravvissuta per miracolo e aprendo gli occhi, avevo trovato i suoi, grandi, gialli a fissarmi ansiosi. Non mi aveva più lasciato, guidando i miei passi e accompagnando le mie gesta.
    Non avevo mostrato questa mia debolezza a Shay ed Elise, per loro ero la solita scontrosa Kassandra, che si dava da fare per la causa in maniera pragmatica e operosa.
    Col passare del tempo, però, i miei risvegli bruschi e spasmodici si erano intensificati e mi lasciavano stremata.
    All’improvviso, la vista mi si oscurò e uno stridio acuto invase la mia mente. Era reale o lo avevo solo immaginato? Percepii come una spinta invisibile che mi fece alzare dal letto e mi precipitai all’esterno.
    Indossavo solo una canottiera e un paio di pantaloni di leggero cotone. L’inverno era giunto impietoso, l’umidità della notte entrò nelle mie ossa, ma io non sentivo il freddo. Il mio corpo era aduso a temperature rigide, ero stata addestrata fin da bambina a resistere in simili condizioni.
    Corsi rapida lungo le scale che portavano al piano superiore, noi dormivano ai piani bassi e di sopra vi erano le palestre e le aule per l’addestramento dei Padawàn. Le attraversai incurante del rumore dei piedi scalzi sul pavimento, dell’ansia crescente che mi montava nel petto.
    Di nuovo quello stridio, ma adesso lo sentivo più “vero”, vivido.
    In pochi attimi fui in strada. I san pietrini del suolo erano per lo più levigati, ma piccoli detriti mi ferirono la pelle. Per istinto guardai al cielo, nero come la pece, i piccoli lampioni elettrici della via, occultavano la vista nitida delle stelle, ma io non cercavo la posizione di lontane costellazioni, attendevo silente e irrequieta di scorgere “qualcuno”.
    Non dovetti attendere a lungo. Una macchia più scura del buio si profilò tra i tetti bassi, in pochi attimi mi fu dinnanzi e in un gesto fluido e familiare alzai il braccio verso l’alto. Lo avevo fatto così tante volte, ma era da tempo immemore che mi mancava…
    L’enorme aquila planò elegante e magnifica, posizionandosi con una delicatezza infinita sul mio avambraccio. Non avevo mai usato il bracciale apposito, i suoi artigli sapevano essere innocui sulla mia pelle, quanto letali sul nemico.
    Ikaris mi salutò con uno stridio gioioso… ero dentro di lui e lui dentro di me.
    “Ikaris, come sei arrivato fin qui? Mi hai trovata… di nuovo.” Non mi trattenni e lo abbracciai. Ero l’unica che si poteva arrischiare ad avvinghiare tra le braccia un’aquila. Persino l’addestratore più esperto ne rifuggiva, ma Ikaris era la mia àncora. Mai mi avrebbe fatto del male.
    Affondai il viso tra le sue grandi piume morbide e sfregai la guancia, riscaldandomi. Era tornato da me, non avevo idea di come avesse fatto, ma non mi importava. Adesso era lì per me!
    Persa nelle emozioni che mi legavano a Ikaris, notai solo in un secondo momento lo sguardo attonito di Shay fermo sulla soglia dell'entrata. Era preoccupato. Con ogni probabilità, mi aveva sentita correre per i corridoi e si era allarmato seguendomi. Era da lui. Essere sempre al nostro fianco, silenzioso come un'ombra, protettivo con un scudo impenetrabile.
    Io ricambiai lo sguardo intenso e poi gli donai un sorriso ampio, di quelli che di rado si scorgevano sul mio volto, perennemente corrucciato.
    “Ti presento Ikaris!” dissi con una gioia che rischiava di farmi scoppiare il cuore.
    […]
    Il mattino seguente mi sentivo più leggera, nonostante non avessi quasi dormito. Il vuoto dentro di me si era ridotto di nuovo al senso di colpa verso Elpidio, che ormai era ben sedimentato e che usavo come appiglio per non soccombere. Ero forte come la roccia ed ero stata brava a relegare il suo ricordo in un angolino del mio io, che mi ricordava sempre chi ero stata e per sapere chi volevo essere.
    Shay mi aveva svelato di percepire in me la Forza, scorreva nelle mie vene. Che se avessi voluto, avrei potuto espandere le mie conoscenze, per comprenderla, sentirla, gestirla. Ma io mi ero “gentilmente” rifiutata.
    Mi avevano catapultata in questa avventura assurda senza il mio consenso, in un altro tempo, in un altro luogo; mi avevano detto di avere una nipote in pericolo e che sarei potuta essere l'unica sua famiglia ancora in vita – come avrei potuto abbandonarla? –, e come se tutto questo non bastasse, mi avevano detto che ero un’ibrida, che il mio DNA era speciale e avrei potuto diventare una Jedi.
    Per la prima volta dall'inizio di questo delirio avevo la facoltà di scegliere.
    Ero prigioniera di una vita che stavo costruendo pezzo dopo pezzo per farla diventare mia sul serio, e non avevo nessuna intenzione di far parte di una confraternita, sebbene in ripresa in questo tempo, solo perché il mio sangue e la mia mente avevano le capacità per farlo.
    Io ero Kassandra, una spartana figlia di Pithagoras e nipote di Leonida. Non sarei stata nessun’altra, almeno fino a che il mio cuore non mi avesse condotto verso una direzione diversa.
    Nonostante ciò, apprezzavo molto il lavoro che Shay ed Elise stavano facendo con i nuovi adepti e avevo dato la mia completa disponibilità per portare avanti la causa degli Jedi e della Forza. Avevo imparato teoria, tecnica e pratica e le avevo fatte mie fin nel profondo, solo così avrei potuto insegnarle agli altri.
    Ero orgogliosa dei progressi che i miei ragazzi stavano facendo e Shay si era mostrato più che soddisfatto, anche se difficilmente lo avrebbe ammesso ad alta voce. Per lui tutto era una prova e l’autocompiacimento non era educativo.
    Ormai avevamo trovato uno strano equilibrio noi tre, nel quale avrei tentato di inserire anche Ikaris, ora che era di nuovo con me. Era la mia ombra, o meglio io ero la sua… ricordai il soprannome che mi avevano dato ai miei tempi, tra i mercenari “L'Ombra dell’Aquila” perché eravamo inseparabili fin sul campo di battaglia.
    Elise aveva tentato un approccio, ma dopo qualche tentativo in cui aveva ricevuto solo fredda indifferenza, o reazioni facinorose, aveva ceduto le armi, e per un tipo come lei, era stato davvero un affronto.
    Le avevo detto che Ikaris non era un’aquila come le altre, anche se in effetti, tutti i volatili selvatici erano molto diffidenti, lui era la mia guida, il mio terzo occhio. Era un rapporto difficile da spiegare e comprendere. Poi, presa dal mio solito pragmatismo avevo rinunciato, ricevendo una cascata di simpatici borbottii e improperi da parte della ragazza.
    Ormai ci ero abituata e insieme alla sua follia genuina e alla tacita ma imponente presenza di Shay formavano una bella squadra. Eterogenei ma essenziali l'uno per l'altro. Con Ikaris al mio fianco, adesso, potevo dire di non voler desiderare nulla di più. Avevo trovato il mio equilibrio, che nel mio modo di vivere era fondamentale.
    […]
    Più tardi, Shay ci informò di aver avuto un sogno premonitore e ci trascinò in una missione in piena regola, alla ricerca di una misteriosa pergamena.
    I dettagli che ci aveva fornito erano precisi e dopo un consistente periodo di ricerche avevamo raccolto tutte le informazioni necessarie per partire alla volta di Prospero.
    Appena giunti, ci trovammo a pochissima distanza da una battaglia in piena regola. Sebbene la Forza fosse latente in me, non avevo le capacità per percepire i segnali come Shay ed Elise, quindi, con cupa rassegnazione mi misi in ascolto. Anche se fremevo per entrare in azione.
    Ci muovemmo fino a portare a vista d’occhio lo scontro. I due al mio fianco iniziarono a discutere su dei certi Mandaloriani. Me ne avevano parlato brevemente durante la mia formazione, ma non ne avevo mai incontrato uno.
    Sentivo una strana urgenza crescermi dentro, che si scontrava con le rimostranze di una Elise particolarmente testarda. Potevo percepire la sua ansia, la sua “paura”? Ma di cosa? Era chiaro che non provasse simpatia per questi tizi, ma le argomentazioni di Shay sulle caratteristiche di una dimensione opposta alla loro erano più che valide.
    Mi fidavo ciecamente delle parole del Maestro, e l'urgenza non aveva dato segno di svanire. Non c'era più tempo. Elise sarebbe dovuta venire a patti con la realtà e affrontarla in prima persona.
    “Dobbiamo subito intervenire, sono in difficoltà. Sei certo che loro non sono il nemico? Allora aiutiamoli, ma facciamolo prima che siano ridotti in cenere!”
    La mia voce uscì più tonante di quanto mi aspettassi e parve riportare la ragazza alla realtà e senza indugiare oltre, ci lanciammo nel cuore della battaglia in corso.
    Shay ci aveva assicurato che i nemici erano le Guerriere e che le persone con l’armatura non costituivano un pericolo “attivo” per noi, sebbene ci avesse consigliato di tenere gli occhi aperti e difenderci in caso di loro attacco.
    Mi fiondai senza paura nella mischia. Amavo sentivo il peso della spada nella mia mano, avrei preferito avere anche il mio scudo, ma non era stato possibile averne uno. Mi ero rifiutata di impugnare una spada laser nel momento in cui avevo rinunciato ad approfondire gli studi, ma mi fidavo ciecamente della mia “bambina” che in mio possesso non aveva mai fallito. Udivo il verso di guerra di Ikaris che planava sopra le nostre teste e mi guidava nello scontro, avvisandomi di un attacco alle spalle, o di un affondo fasullo. Eravamo in perfetta sincronia. Mi trovai a combattere contro due delle tre Guerriere, che sotto i colpi incessanti del nostro schieramento e di quello mandaloriano, dovettero desistere e darsi alla fuga. Erano molto potenti, e i loro poteri avrebbero potuto farci fuori a lungo andare, ma avevano preferito ritirarsi, per il momento.
    La loro scomparsa improvvisa dal campo di battaglia ci portò dritti in una fase di stallo ricca di tensione.
    Non appena la polvere sottile sollevata dai nostri movimenti inconsulti durante il combattimento si diradò, ci ritrovammo faccia a faccia con il gruppo mandaloriano. Aguzzai la vista e riuscii a distinguere due uomini con delle armature integrali e una donna, senza casco. Era molto bella e la fatica dello scontro non ne aveva alterato i lineamenti.
    La mia attenzione fu calamitata dal Mondadoriano con l'armatura color ossidiana, tanto lucente, nonostante il colore scuro. Era immobile, sfingeo, eppure potevo percepire la tensione crescente emanata dal suo corpo possente.
    Ci teneva sotto tiro con un blaster, gli altri facevano lo stesso, mentre io, Shay ed Elise tenevamo le nostre spade spianate davanti al petto.
    Il dubbio e l'incertezza la facevano da padrone. Non era semplice far crollare la barriera della diffidenza.
    “Cosa vi porta su questa terra desolata? Siete Mandaloriani.” Fu il maestro a prendere la parola.
    “Potremmo farvi la stessa domanda...” rispose l'uomo dell’armatura nera. “Oltre a chiedervi chi siete!” Percepii una voce priva di inflessioni particolari, ma profonda quasi provenisse da un antro oscuro.
    “Noi siamo qui in missione. Ma la questione non vi riguarda!” affermò Elise decisa.
    La donna tra le loro fila parlò per la prima volta e la sua voce parve sciogliere il magone che avevo in gola.
    “Anche noi abbiamo una missione da compiere. Vi sono delle strane anomalie su questo pianeta e vogliamo capire di cosa si tratta” disse per aprire un canale di comunicazione.
    Il Mandaloriano che non aveva ancora parlato intervenne.
    “Voi cosa state cercando?” chiese con la pretesa di ottenere una risposta all'altezza della loro dimostrata buona fede.
    “È un oggetto importante, ma capirò di più quando l’avrò trovato!” Shay aveva offerto ciò che poteva. Nessuno di noi conosceva i dettagli di quella bizzarra spedizione basata su un sogno, un messaggio della Forza che andava necessariamente interpretato e vissuto per essere compreso.
    Pareva che quella condizione di stasi fosse eterna e iniziava a pesare come un macigno.
    Di nuovo un senso di pericolo mi avvolse e il richiamo di Ikaris mi diede conferma, eravamo di nuovo sotto attacco. Ci muovemmo tutti all'unisono. Anche Shay ed Elise avevano percepito il magnetismo negativo dei nemici.
    Vidi un'ombra incombere dall'alto proprio dietro l'uomo con l’armatura d'ossidiana di cui ignoravo il nome, impegnato a respingere un attacco. Scattai in avanti rapida come un felino e prima che il Mandaloriano potesse voltarsi, richiamato dal mio urlo di guerra, ero già alle sue spalle che bloccavo con la mia spada la lancia della Guerriera, che emanava pericolosi lampi oscuri. Lo avrebbe infilzato nell'unico posto vulnerabile, tra il casco e lo spallaccio. Nonostante il bersaglio designato fosse più in alto rispetto a me e più a tiro dell'avversaria, avevo sfruttato l'aria con un salto prodigioso, intercettando l'arma allungata con la mia.
    Adesso eravamo rivolti verso il nemico, io ancora trattenevo la lancia finemente lavorata, intrappolata tra l’impugnatura e la lama e il Mandaloriano che si stagliava alle mie spalle, afferrò la spada per l’elsa e per la punta tenendola assieme a me in orizzontale e spinse con forza all’indietro per sbilanciare la Guerriera. Quando quest’ultima si rese conto di essere sul punto di perdere la presa sulla sua lancia, materializzò una sfera energetica oscura che ci lanciò contro con una potente onda d’urto, scagliandoci lontano.
    Il Mandaloriano planò sul terreno arido, sfregando la schiena protetta dell’armatura al suolo. Io franai su di lui dopo un volo di parecchi metri e andai a sbattere con la testa sopra il suo torace di metallo.
    Ero stordita, ma cercai di riprendere il controllo, mentre sentivo il sapore del sangue sul labbro, era colato dalla tempia.
    Sarebbe potuta andare peggio. Lui non pareva minimamente scalfito da un simile impatto, evidentemente le spalliere e il casco avevano retto bene.
    Si alzò di scatto e io caddi da un lato con un tonfo sordo.
    “Hey, ma cosa diavolo hai in testa? Vuoi uccidermi? Dopo che ti ho salvato la pelle?” urlai adirata per quel gesto inconsulto.
    Lui non proferì parola. Si limitò ad afferrarmi per le spalle e a sollevarmi da terra come se fossi una bambola di pezza. Prima che potessi ribellarmi al suo tocco, mi rimise in piedi e mi diede un'occhiata, anzi mi squadrò da capo a piedi, come per assicurarsi che stessi bene e poi se ne andò, certo che non stessi sul punto di morire.
    Quando lasciò la presa sulle mie spalle, ebbi un capogiro ma strinsi i denti e lottai contro la nausea. Dovevo aver preso una bella botta, non solo per l'onda d'urto, ma anche per quella maledetta corazza nera.
    La furia mi aiutò a tornare lucida e mi gettai di nuovo nella mischia, raggiungendo il bestione silenzioso.
    Dopo un altro scontro feroce, le tre Guerriere si allontanarono di nuovo, attratte da qualcosa di distante. Era stata una lotta alla pari. Shay ed Elise erano perfettamente in grado di respingere gli attacchi magici delle nemiche, i quali perdevano in efficacia scontrandosi con le armature dei Mandaloriani. Quel metallo doveva essere prodigioso.
    Acciaccati, ma ancora combattivi, ci ritrovammo di nuovo faccia a faccia, ma questa volta non avrei consentito che ci si perdesse di nuovo in uno stupido braccio di ferro senza alcun vincitore.
    “È inutile continuare a farci la guerra tra noi, quando è chiaro che abbiamo un nemico in comune. E anche molto potente… Nessuno vuole rinunciare alla propria missione, ma non è questa la priorità se siamo comunque tutti in pericolo” dissi con un principio di fiatone.
    La donna dell'altro schieramento parve d'accordo come me e mi diede man forte.
    “Credo che sia il caso di superare le differenze che ci dividono e pensare a una collaborazione. Evidentemente abbiamo lo stesso obiettivo, e insieme possiamo raggiungerlo!”


    Edited by SydneyD - 8/2/2021, 02:04
     
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