FBI Anecdotes (New York)

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    Cristina
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    :Amaterasu:
    Diventare una Sailor era indubbiamente l'ultima cosa che avrei mai creduto poter essere. Urano, dopotutto, era famoso per le sue rigide tradizioni che davano alle donne certamente un ruolo fondamentale, essendo una società matriarcale, ma allo stesso tempo le privava di molte possibilità di scelta.
    La nostra amatissima e compianta Skye lo era stata ed in modi incredibilmente coraggiosi, ma il diritto che le aveva dato di ricoprire tale ruolo era dato non solo dallo Starseed che possedeva, ma anche per essere una masc. Tali donne nella nostra società avevano un ruolo pari, anzi maggiore agli uomini. Avevano di fatto tutti i privilegi del ceto maschile ed anche di quello femminile. Al contrario noi donne fem, eravamo rilegate ad un ruolo fondamentale, ma anche ligio a molte regole. Tra queste vi era il non mostrare mai i nostri capelli, coperti fin dall'età più, insieme ad un abbigliamento sempre molto modesto e neutro. La donna di Urano era semplice, umile, riservata. Appariva sempre sobria e mostrava grande forza d'animo, lealtà e capacità di stringere i denti e sopportare le peggiori fatiche.
    A lei non era permessa la vanità e l'ostentazione. Nel suo ruolo matriarcale doveva assicurare una stirpe forte e dunque i matrimoni avveniva solo su tale regola, l'amore sarebbe venuto poi... questa era una promessa che veniva fatta, ma che temevo fosse il più delle volte vana.
    Il mio fidanzato era dunque un uomo scelto per me dopo attente valutazioni da parte delle donne più importanti della mia vita, lo conoscevo fin dalla più tenera età, ma considerando che l'affettività era permessa solo dopo sposati e solo tra le mura domestiche in intimità, per me era al pari di un amico e nulla più.
    Inutile dire che quando Ishtar aveva bussato alla mia porta questo aveva creato non poco trambusto nella mia vita e siccome era a dir poco impossibile per me accettare ciò che mi chiedeva, per una volta avevo fatto tutto ciò che avevo sempre voluto fare, ma che mi ero sempre trattenuta ad inseguire: la mia voce.
    Ero scappata di casa e solo osavo immaginare il caos che mi ero lasciata dietro, ma sapevo che l'odio della mia famiglia e forse anche l'essere ripudiata, era un prezzo che ero disposta a pagare se questo significava combattere in nome di Urano. Dopotutto l'Orlo Esterno stava soffrendo molto da dopo la separazione con l'Impero Galattico Lunare, soprattutto per il fatto che ci erano state riservate restrizioni che stavano azzoppando la nostra economia, esponendoci a crisi e problemi di ogni genere, non ultimo l'attacco da parte di mercenari e pirati. Senza più un governo a proteggerci e le nostre Guerriere, eravamo alla deriva...
    Con tutti quei pensieri in testa avevo abbracciato la missione che mi era stata data, non senza alcune remore. Non ero mai stata sola con uomo, che non fossero membri della mia famiglia, e tanto meno avevo mai rivolto loro la parola. Capivo però che ero lontana da casa e che avrei dovuto trovare il modo di abbracciare quella missione mettendo da parte molto delle mie credenze che per tutta la vita mi avevano accompagnato.
    Per giustificare alcune cose, come il mio indossare sempre un velo in campo ad esempio o qualsiasi altra cosa potesse aiutarmi a nascondere i capelli, avevo scelto di presentarmi come una donna islamica. Era una religione terrestre che solo apparentemente aveva cose in come con il mio credo, ma che almeno mi avrebbe permesso ampia manovra senza dover rispondere a strane domande su alcuni miei usi e costumi, che ancora difficilmente faticavo a scrollarmi di dosso.
    "E Atargatis come va?"
    Ishtar e Morrigan si erano insediate da poco, ma la nostra guida non aveva perso occasione per farsi sentire e comunicare con noi. Avevamo deciso che quegli aggeggi arcaici, che chiamavano smartphone, potevano essere utili allo scopo, anche perché potevamo usarli senza attirare l'attenzione per comunicare.
    "Ehm... se la stava cavando... ci sta provando almeno..."
    "Amaterasu te l'ho affidata, lo Starseed l'ha scelta, ma... sai quanto impacciata e soprattutto svampita sia... spesso sembra non ricordarsi che qui non siamo a casa nostra, che non può essere sé stessa al 100%... so quanto le costi fingersi qualcosa... qualcuno che non è, ma... deve provarci..."
    Cercai di rassicurare Isthar, anche se effettivamente le cose non andavano così bene, ma non volevo allarmarla. Anche perché c'ero già io ad non essere in focus come avrei dovuto.
    Ancora più perché dopo una sola settimana che avevo iniziato a lavorare presso la Famiglia Heywood, il capofamiglia, che mi aveva assunto, mi aveva letteralmente preso di peso e portato in un altra lussuosa residenza. Mi aveva detto che quella era dove d'ora in avanti il figlio avrebbe vissuto e che io avrei lavorato per lui.
    Ero passata dal lavorare con un gruppo di domestici, ad essere completamente sola. Lavare, pulire e nel frattempo eseguire la mia missione non mi disturbava, ma farlo lì da sola in una casa con il mio obbiettivo, un po' mi destabilizzava. Oltretutto l'Agente Nathaniel Heywood, che fino a quel momento non avevo incontrato, parve sorpreso di entrare in quella mansione ed ancor più scoprire fosse sua.
    "Stai scherzando?"
    "Ti sembra stia scherzando Nathaniel! Da oggi in poi questa sarà casa tua, e ringrazia sia stato così gentile a concedertela. Io e tua madre ci siamo stancati! Non hai più 15 anni, sei un brillante Agente dell'FBI e Membro dell'Organizzazione è ora che ti comporti da tale!"
    Ero in cucina, in attesa di essere chiamata, così mi aveva detto il Signor Heywood, mentre li sentivo discutere in salotto. Il figlio non parve molto felice all'idea di doversi occupare da solo di sé stesso e dover spendere i propri soldi per mantenersi, ma lì in parte entravo in gioco io.
    "Lei è Amat, lavorerà per te. L'avevo assunta per casa nostra, ma credo che tre domestiche ci possano bastare... la pago, tuttavia è solo un aiuto Nathaniel... al resto devi pensarci tu. Per l'amor del cielo, smettila di essere un ragazzino e diventa un uomo!" concluse infine il Senatore uscendo da casa sbattendo la porta.
    Io rimasi in silenzio, ma con discrezione mi misi ad osservare l'Agente. L'uomo su cui avrei dovuto lavorare. Ishtar era stata chiara con me ed Atargatis, i nostri due obbiettivi dovevano essere cavalli di Troia da utilizzare per il nostro scopo. Poco importava quanto e come avremmo dovuto usarli o metterli in pericolo.
    Osservai il mio polso e non mi stupì avesse un braccialetto di corda rosso... quelli come lui mi aspettavo lo avessero almeno marrone, considerando che il padre lo aveva nero, ad un passo dall'ambito metallo e da quello che sapevo dopo il suo ultimo "sacrificio", il serpente di rame era ormai prossimo.
    "E fu così che rimasi solo... con... Arat!" esclamò lui fissando ancora la porta di casa chiusa, era rimasto con le parole nella bocca mentre cercava di rispondere al padre. Aveva aperto le braccia che ricaddero lungo i fianchi, mentre voltandosi sembrò vedermi per la prima volta. Assottigliò lo sguardo e mi chiese "Magrebina?"
    "Somalia" lo corressi. Avevo fatto i compiti a casa, un altro problema a cui alcune di noi avevano dovuto far fronte era il nostro aspetto. I Terrestri ci avrebbero inquadrato in talune culture ed era meglio conoscerle per non essere prese in fallo.
    "A quanto pare siamo solo io e te Arat... da questo momento in poi... fa come se fossi a casa tua. Io non so fare nulla, dunque non sarò io a dirti quando fare la spesa o la lavatrice... per i pasti la mattina sono sempre in ritardo, il pranzo lo faccio fuori e la sera non so mai che orario faccio... Dunque è inutile che mi aspetti, lasciami qualcosa di pronto, e di veloce e a prescindere che ci sono oppure no alle 17.00 stacca pure... alla mattina vieni con calma, anche dalle 9.00 in poi..." mi disse con molta praticità, prima di superarmi e trascinarsi verso quella che a quanto pare era la sua nuova camera da letto.
    "Vai a casa Amat... ci vediamo domani... sempre se ci vediamo..." aggiunse voltandosi a farmi un occhiolino prima di chiudersi in camera.
    Rimasi a fissare la porta per un attimo, confusa, ma ricettiva. Faticavo davvero a credere che lui fosse mio avversario, nulla di ciò che avevo appena sentito o provato mi diceva ciò...


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 22/4/2024, 10:45
     
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    Annarita
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    Le ultime settimane erano state proprio strane. Vivere da solo, ma non del tutto, aveva avuto dei risvolti che non avrei mai immaginato. Inizialmente, la sfuriata di mio padre mi aveva indispettito non poco, soprattutto perché a casa ci tornavo poco o nulla. Solo per dormire, e a volte neppure per quello. Con il lavoro che facevo, tra i vari turni che c’erano da coprire, spesso mangiavo fuori e riposavo sul divanetto del mio ufficio quando staccavo da un turno notturno. Quindi, non riuscivo davvero a capire quale disturbo dessi “abitando” a casa con loro. Con ogni probabilità, era stata una idea nata da una insana gelosia nei miei confronti. Solo un cieco non avrebbe notato le attenzioni particolari che la mia matrigna mi riservava quelle rare volte che non potevo fare a meno di incontrarla. Ma il grande signor Heywood non poteva sopportare che la donna per la quale spendeva fior fiori di quattrini avesse un debole per il figliastro, di conseguenza perché non applicare il famoso detto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”? Solo che a essere spedito lontano dagli occhi era stato il sottoscritto. La dimostrazione del fatto che era stata tutta una messa in scena era stato che mi pagava lui stesso una domestica, la quale si era ritrovata a governare una casa per lo più vuota. A che pro, darmi una casa e un aiuto per gestirla se avesse voluto che “crescessi una volta per tutte”?
    In ogni caso, col passare dei giorni, avevo capito che non tutto il male veniva per nuocere. Infatti, avevo iniziato ad apprezzare la sicurezza di non dover incappare in cene di circostanza, oppure nelle famose attenzioni particolari della novella signora Heywood. Certo, ripensando alla vera signora Heywood, nonché mia madre, non avrei certo potuto spendere parole migliori. Suo marito l’aveva cacciata di casa dopo aver scoperto che lo tradiva con il giardiniere, io all’epoca avevo solo tre anni e uno stuolo di tate che avevo imparato a chiamare mamma. Il più classico dei cliché.
    Tuttavia, quella tranquillità di possedere un posto tutto mio, in cui non avrei trovato intrusi o scocciatori, mi aveva indotto a tornare più spesso. La mattina facevo colazione a casa prima del lavoro e tornavo volentieri per cenare a un orario decente, poi avevo iniziato a fare delle comparse pure durante l’ora del pranzo. Solo dopo qualche giorno mi ero reso conto del motivo che mi spingeva a farlo… Amat. La domestica somala che mio padre pagava per “gestirmi” era stata una vera scoperta. Era riservata, puntuale, sempre presente benché le avessi concesso molta libertà negli orari. Avrebbe potuto prendersi lo stipendio e fare il minimo indispensabile, probabilmente non me ne sarei nemmeno accorto, come accadeva nella casa padronale, invece era chiaro che non era il suo modus operandi. La casa, benché molto grande, risplendeva come uno specchio, il frigorifero era sempre pieno, i fornelli sempre occupati a sobbollire per qualche ricetta particolare. Aveva capito che amavo la frutta fresca e me la faceva trovare tutti i giorni al centro del tavolo. Da piccoli accorgimenti, mi ero reso conto che sapeva osservare e mettere a frutto ciò che vedeva.
    In tutto ciò, non si era mai presa alcuna libertà o confidenza nei miei riguardi, era sempre schiva, incrociava raramente il mio sguardo come se potessi in qualche modo ferirla.
    Questo mi inquietava non poco, desideravo che si sentisse a suo agio con me, anche perché iniziavo a vederla come una presenza costante e premurosa, che poco aveva a che fare con una semplice domestica. Se mio padre l’avesse saputo, probabilmente l’avrebbe licenziata in tronco perché “con i servi non bisogna mica fraternizzare”, ma nonostante condividessimo gli stessi geni, ero grato alla Natura per avermi dato dei neuroni funzionanti che mi permettevano di ragionare con la mia testa, ma soprattutto un cuore che – nonostante le varie toppe – riusciva ancora a provare un po’ di empatia.
    Una sera, dopo un doppio turno massacrante, tornai a casa con gli occhi quasi chiusi per la stanchezza. Non avevo alcuna voglia di mangiare, il mio desiderio era quello di lavarmi e buttarmi sul letto per dormire ventiquattr’ore filate. Ma, quando entrai in cucina per prendermi ua bottiglietta d’acqua, trovai Amat ai fornelli: erano le 22 passate.
    Indossava un paio di cuffiette bluetooth, le stesse che le avevo regalato dopo qualche giorno dal trasferimento, perché pensavo che le sarebbero potute tornare utili durante le faccende per farsi compagnia con un po’ di musica. Non glie le avevo mai viste addosso prima di quel momento. E a causa delle stesse non si era accorta del mio ingresso in cucina… Evitai di fare rumore, finalmente potevo osservarla senza che mi rifuggisse: la vidi assaggiare qualcosa dalla pentola con sguardo concentrato, il suo profilo era perfetto, il colore della sua pelle luminoso, gli occhi scuri parevamo pezzi di onice incastonati in un ovale perfetto. Una sensazione che faticavo a riconoscere rischiò di travolgermi, perciò preferii mettere fine a qualsiasi cosa stesse accadendo, per la sicurezza di entrambi.
    Bussai sullo stipite dell’entrata ad arco che separava la spaziosa cucina open space dal salone, abbastanza forte da annunciare la mia presenza nonostante le cuffiette antirumore.
    Amat sussultò per la sorpresa e mi dispiacque un po’ vedere tornare la maschera di riservatezza sul suo volto. Era stavo bello osservarla senza veli.
    “Perdonami, non volevo spaventarti.” dissi sincero. “Volevo solo una bottiglietta d’acqua, ma ora che ho sentito questo profumino…” Il mio stomaco anticipò ciò che stavo per dire con un brontolio non proprio discreto.
    Amat mi osservò con una strana dolcezza nello sguardo. Dovevo essere proprio messo male per spingerla a quel genere di reazione: i jeans e la maglietta stazzonati, i capelli sparati in tutte le direzioni per quante volte ci avevo messo le dita dentro, il volto pallido e le occhiaie per la mancanza di sonno.
    “Vieni, siediti, ti preparo un piatto!” Iniziò ad apparecchiare velocemente un posto alla penisola. Si muoveva sicura, mentre apriva la pentola e versava una zuppa calda e speziata in una ciotola di terracotta.
    “Non dovresti essere a casa a quest’ora?” le chiesi mentre la aiutavo ad apparecchiare, lei per me ed io… per lei.
    “Stavo giusto per andare…” mormorò osservando i miei movimenti con perplessità.
    “Mangia con me, ti va? Sempre se non hai già cenato” Sapevo che non cenava mai a casa mia, anche se cucinava per un esercito e finiva sempre tardi la sera, non si serviva neppure di un pezzo di pane, nonostante la pregassi di non farsi problemi.
    La presi in contropiede e vidi il dubbio nel suo sguardo, qualcosa la frenava, mentre qualcos’altro la tentava. Non avrei saputo dire cosa, ma questa sua indecisione fu per me un ottimo assist.
    “Resta.” Una preghiera, non un ordine, che Amat alla fine decise di esaudire.
    La costrinsi a sedersi e a lasciarmi riempire il piatto per lei. Accettò solo perché non le diedi scelta, ma era chiaro che si sentiva a disagio in quella posizione. “Non ti ho mai ringraziato per quello che fai. Nessuno mi ha mai dedicato tutto questo…” Allargai le braccia per comprendere nell’insieme le attenzioni che riservava a me, alla casa, a quello che era ormai diventato il mio rifugio.
    “E’ il mio lavoro…” si schermì subito lei, com’era prevedibile.
    “Non è il tuo lavoro cucinare per un’intera squadra di football quando in casa ci sono solo io, o restare fino a tardi la sera, senza neppure toccare cibo. Ho notato che non mangi mai qui, se ha a che fare con la tua tradizione, non voglio insistere, ma mi farebbe davvero piacere se cercassi di essere a tuo agio tra queste mura… o in mia compagnia.” La sincerità era parte integrante del mio carattere, a volte non mi faceva fare belle figure, ma raramente ci rinunciavo. E ora, speravo che anche Amat avesse voglia di sincera con me, che in qualche modo mi facesse capire i motivi dei suoi comportamenti… volevo conoscerla più a fondo, al di là di ogni pregiudizio che chiunque si sarebbe creato.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 23/4/2024, 17:31
     
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    Roberta
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    :Atargatis:
    Le dita avrebbero potuto assomigliare presto a un foglio di carta stropicciato. Le stavo tormentano freneticamente mentre camminavo su e giù in uno stretto angolo del bar affollato in cui mi trovavo.
    Ogni tanto passavo dalle mani e stirare la camicetta in maniera convulsa.
    Ci avevo messo una vita a decidere come vestirmi, avevo cambiato varie mise e alla fine avevo optato per un camicetta azzurra annodata che lasciava scoperta una buona porzione di addome. Un paio di shorts di jeans e saldali alti alla schiava.
    Non avevo mai avuto problemi con la nudità. Da sirena, il mio corpo era esposto la maggior parte del tempo, lasciando ben poco all’immaginazione, allora perché, vestita in quel modo, in mezzo agli umani mi sentivo così vulnerabile e inadeguata?!
    Odiavo quella sensazione e avrei voluto fuggire lontana per evitare una simile situazione, ma non potevo. Avevo una missione da portare avanti e non mi potevo tirare indietro.
    In quel maledetto bar avrei incontrato l’agente FBI Jared Williams: il mio obiettivo.
    Lo intravidi a distanza mentre si avvicinava al bancone e ordinava qualcosa da bere. Feci dei respiri profondi e mi incamminai verso di lui. Proprio mentre stavo per sedermi sullo sgabello libero al suo fianco, una donna mi precedette di qualche istante e mi schiaffeggiò inconsapevole con la sua lunga chioma bionda. Ordinò una birra e si mise a chiacchierare con Jared. Rimasi impietrita per un attimo di troppo, poi, mi sedetti silenziosa accanto. Pareva si conoscessero e lui pendeva dalle sue labbra. Il suo sguardo… lo riconoscevo bene. Era “ammaliato”. Era interessato alla figura di quella donna alta e slanciata, con i capelli color del sole e labbra color fragola.
    Tentai di reprimere quella fastidiosa sensazione di impotenza.
    Forse ero l’unica sirena di tutto Nettuno a non riuscire ad attrarre e stregare gli umani o i rappresentanti dell’altro sesso. Le mie numerose sorelle mi avevano sempre emarginata e addirittura insultata per questo mio limite. Non facevo che combinare guai e la mia cronica sbadataggine, proprio non in linea con il fascino che una sirena avrebbe dovuto esercitare, mi aveva portata alla solitudine e alla riservatezza estrema.
    Quando Ishtar mi aveva contattata e mi aveva comunicato che lo starseed della guerriera di Nettuno mi aveva scelta, io ero rimasta a bocca aperta. Mi ero negata. Avevo risposto con forza che doveva esserci un errore. Io non sarei mai potuta diventare una Sailor, non era nel mio DNA e nelle mie capacità.
    Le mie rimostranze non erano state ascoltate. Ishtar, con il suo fare molto diretto e deciso mi aveva “obbligata” ad accettare le mie responsabilità e di farlo con coraggio e fermezza. Ma che ne sapeva di me?
    Non ero lei. Ero valorosa nemmeno la metà delle altre Guerriere che erano state convocate. Mi sentivo un’inetta allora e adesso, che ero stata mandata forzatamente sul campo, ne avevo la conferma.
    Mi sudavano le mani, mentre origliavo la conversazione tra i due al mio fianco. Da quello che avevo intuito erano stati una coppia ma adesso si erano lasciati. La ragazza parlava con naturalezza, ma si vedeva che Jared era molto preso, più di quanto non lo fosse lei.
    Lo invitò a ballare e lui rifiutò gentile per poi osservarla con insistenza. Una birra in mano e lo sguardo fisso sulla bionda che si muoveva sinuosa a ritmo della musica.
    Era il mio momento!
    Mi avvicinai per sedermi sullo sgabello vicino a lui e sbattei con uno stinco sulla gamba di legno. Non ero solita imprecare, ma in quel momento avrei voluto snocciolare una lista infinita di improperi.
    Attirai però l’attenzione dell’agente, che si premurò verso di me.
    “Tutto bene? Ti sei fatta male?” Mi chiese.
    Io sollevai il capo con enorme imbarazzo. Fino a quel momento avevo usato la mia fluente cascata di capelli castani per farmi da scudo, ma adesso non potevo più.
    “Ehm.. no, tutto bene…” Risposi… non potevo perdere quell’occasione. Errore o no, ci stavo parlando. “Grazie! Sei gentile… come ti chiami?” oh, quanto mi sentivo stupida in quel momento. Avrei voluto apparire più sicura di me e con tono più disinvolto, ma forse apparivo fin troppo in ansia.
    “Sono Jared, tu?” mentre faceva la domanda, lanciò un’occhiata fugace alla pista da ballo, a guardare “lei”. Di nuovo.
    “Sono Atargatis…” al sentire il mio nome, fissò di nuovo lo sguardo su di me. Prima che potesse porre qualche domanda sulla stranezza del mio nome, lo anticipai: “Eh sì, ho un nome particolare. I miei erano fissati con la mitologia. Era una dea sirena.” e sorrisi leggermente, in attesa della sua reazione.
    “Oh, interessante…” poi, una voce a breve distanza lo distrasse.
    “Dai, Jared, non fare il solito musone. Vieni a divertirti un po’!”
    Lui si voltò indeciso sul da farsi. Era tentato ma non convinto del tutto. Si alzò con un movimento fluido, appoggiando la sua birra sul bancone.
    Mi prese alla sprovvista e mi alzai con lui. Non volevo andasse via, ma non sapevo come trattenerlo! Che patetica!
    Per camuffare quella mia mossa d’istinto, afferrai il bicchiere del drink che avevo ordinato poco prima e ostentando disinvoltura parlai: “Vai pure. La tua ragazza ti chiama…” dissi pentendomi subito della mia stupida frase. Avrei dovuto trattenerlo non spingerlo tra le sue braccia. Allo stesso tempo, però, non volevo apparire come una disperata che non voleva restare sola.
    Mentre lo stavo per salutare con un gesto impacciato della mano in cui sostenevo il mio bicchiere, qualcuno mi urtò sulla spalla e tutto il mio drink andò a finire sulla camicia dell’agente.
    Lui si allontanò d’istinto ma non si salvò da quella doccia improvvisa e appiccicosa.
    “Oh cavolo! Mi dispiace… davvero” iniziai a blaterare mentre afferravo delle salviette da sopra il bancone e tentavo di tamponare quel disastro.
    “Scusami… sono una frana!” Avevo le orecchie che fischiavano e le sentivo bollenti per la vergogna.
    “Ok… è tutto a posto.. ” Oddio, non sapevo cosa fare per rimediare. Dopo alcuni istanti di disagio assoluto, arrivò anche la magnifica bionda a fare da testimone alla mia inevitabile disfatta.
    “Ma cosa è successo qui?” disse con voce quasi disgustata. “Jared sei tutto bagnato. È meglio se vai in bagno a darti una sistemata.” disse decisa.
    “Scusami, è stato un incidente” dissi sottovoce non so bene rivolta a chi, forse a entrambi! Ero nel mio mondo. Non avevo neppure il coraggio di guardarlo in faccia e tanto meno affrontare gli occhi accusatori della sua amica. Li notai appena mentre si allontanavano e poi fui io a volare, me ne andai più veloce che potevo.

    Poche ore dopo, a notte fonda, mi ritrovai rannicchiata nel letto del mio modesto appartamento. Le ginocchia tirate al petto e la testa appoggiata su di esse. Ero al telefono con Amaterasu. Sapevo che sarebbe stata l’unica a capirmi. Era profondamente buona, mi spronava sempre a dare il meglio, ma senza mai forzarmi o giudicarmi per i miei errori.
    “Io avevo avvisato Ishtar. Glielo avevo detto che non sarei stata in grado. Sto rischiando di mandare a monte l'intera operazione e solo perché sono imbranata. Non capisco cosa mi succeda. Quando sono davanti agli uomini balbetto come una scema e divento impacciata. Sono la vergogna di tutta la stirpe delle sirene.” dissi con un magone in gola. La voce lamentosa, volevo a tutti i costi impedirmi di piangere, ma lo avrei fatto ben volentieri.
    “Sapevamo entrambe che sarebbe stato difficile per te. Ma non devi abbatterti. Troverai in modo per rimediare. Alla fine non è successo nulla si grave. È stato solo un approccio un po’ rocambolesco.” tentò di animarmi.
    Lo apprezzato davvero, ma qui il problema non era solo la mia inettitudine.
    “Amaterasu, tu non capisci. Lui è innamorato di una bionda stratosferica. Gli parla con disinvoltura ed è sicura della sua bellezza. Stavano insieme. E lui è ancora molto preso. Non ho capito bene perché, ma non credo stiano più insieme. Allora perché gli ronza intorno?! Non ho speranze…” Il panico mi stava assalendo e come al solito iniziavo a blaterare senza sosta.
    “Adesso calmati, Ata. Non è tutto perduto. Adesso tirati su e prendi coraggio. Dovrai crearti un’altra occasione. Devi portare a termine la tua missione!” Era sempre così positiva, ma in quel momento non stava proprio riuscendo a contagiarmi. In ogni caso, non volevo si preoccupasse oltre, quindi finsi un tono più tranquillo e la salutai.
    “Grazie Amaterasu. Farò del mio meglio…” chiusi il telefono e lo lasciai cadere al mio fianco.
    Mi sollevai dalla mia posizione protettiva e osservai il grande specchio che campeggiava proprio di fronte al letto. Gli occhi gonfi di lacrime non versate e i capelli fluenti a incorniciarmi il volto. Cosa avevo meno di quella ragazza al bar? Non ero brutta e avevo un bel fisico, quello che mi mancava però era l’atteggiamento e la sicurezza! Maledizione!
    Come avrei potuto tornare al cospetto dell’agente Williams dopo la figuraccia che avevo fatto? Dovevo farmi venire qualche idea, altrimenti non avrei più potuto guardare in faccia le mie sorelle Guerriere e tanto meno Ishtar, che mi aveva dato tutta la sua fiducia.
     
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